Conversando con Natalia Quintavalle

Letizia Airos (October 04, 2011)
Park Avenue. Intervista con il nuovo console generale a New York, dopo poco più di un mese dal suo insediamento.

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La incontriamo davanti ad un caffè e biscotti gustosissimi. In un’atmosfera rilassata che ci consente di conoscerla un pò. Lei si racconta con efficacia. Supera subito quel divario che spesso viene rimproverato ai rappresentanti delle nostre istituzioni. Ma senza perdere autorevolezza ed eleganza.

 
Natalia Quintavalle, il nuovo Console Generale, ha già vissuto a New York, che conosce molto bene. Come molti, non è indenne dal suo fascino. “Dopo averci abitato, sono ritornata qui frequentemente per motivi di lavoro. E ho sempre avuto la sensazione di tornare a casa. Venivo a settembre per l’Assemblea Generale, oppure a dicembre per la chiusura della quinta commissione. La sensazione era sempre quella di tornare in un ambiente familiare.  A casa appunto”.

 

Comincia con queste parole il nostro incontro. Più che un’intervista sarà un libero scambio di valutazioni. Quintavalle è nata in una regione che gli americani amano molto, la Toscana, precisamente a Pietrasanta. Ha un marito diplomatico che lavora a Roma e ha portato la figlia con se a New York. Conversa riempiendo le sue parole di entusiasmo, ma basterebbe l’espressione del suo volto per capire quanto senta importante questo nuovo incarico:
“L’idea di tornare a New York per stare altri quattro anni in una veste così diversa, ma al tempo stesso in una posizione che mi consente di andare a fondo sulla vita di questa città, mi dà grandissima gioia e soddisfazione. E’ stata una decisione presa abbastanza velocemente, per circostanze varie, quindi ho dovuto affrontare in poco tempo qualche problema di organizzazione professionale o personale. Mettere a posto tutte le pedine… ma ho un’ottima sensazione.”
 
E’ passato poco più di un mese dal suo arrivo, la circoscrizione consolare a lei assegnata è complessa e vasta. Cogliamo nelle sue parole grande curiosità ma anche pazienza, desiderio di conoscere, apprendere anche passo per passo. Cominciando dai servizi consolari, quelli più tradizionali.
 

“Ancora sono in fase di comprensione di tutte le sfaccettature del mio incarico. C’è una parte    diciamo strutturale del lavoro del consolato, di servizio alla collettività. E’ molto importante. C’è una struttura ben collaudata, organizzata in modo da affrontare efficacemente le richieste dei connazionali. Abbiamo ottimi collaboratori in tutti i settori. Per quanto riguarda i diplomatici, le mie due colleghe Laura Aghilarre e Lucia Pasqualini sono qui da un pò, ed hanno il polso della situazione; il collega Sorrentino è arrivato insieme a me, però ha già avuto un’altra importante esperienza consolare”

La carriera di Natalia Quintavalle ha abbracciato competenze eterogenee e tutte molto importanti: dalla cooperazione allo sviluppo, all’Onu, da quelle più specificamente consolari, agli affari politici, da quelle commerciali ai diritti umani. Sembrerebbe che in qualche modo New York rappresenti il riassunto, il corollario di questa sua esperienza in diversi settori.

“Io spero di portare nel lavoro che farò qui tutto questo. Non devo certo cominciare da capo. Gran parte dell’esperienza che ho fatto mi aiuterà. Ma ci saranno certo nuove sfide. Dobbiamo dare nel miglior modo possibile un’immagine del nostro Paese aderente alla realtà. Combattere gli stereotipi e al tempo stesso promuovere quello che c’è di buono in circolazione. Questo utilizzando strumenti moderni che qualche anno fa non esistevano e invece cercheremo di valorizzare al massimo.”

Il suo arrivo coincide con un periodo economico molto difficile e con importanti cambiamenti anche per quanto riguarda la rete dell’ICE (Istituto Nazionale per il Commercio con l’Estero) ancora in corso di definizione. Cogliamo l’occasione per parlarne con lei. I consolati, insieme alle ambasciate avranno infatti un ruolo più importante nella promozione commerciale italiana.

“Gli uffici all’estero dell’ICE, e in particolare quello di New York, sono delle strutture portanti del Sistema Italia. Hanno fatto e continuano a fare un lavoro straordinario di promozione delle imprese italiane, in particolare a vantaggio di quelle piccole e medie. Ed in questo momento, certo, le meno grandi hanno ancora più difficoltà ad affrontare i mercati esteri.

Si tratterà semplicemente di mettere insieme quello che fa, quello che sempre ha fatto l’ex ICE con quello che facciamo in Consolato, all’Istituto di Cultura, e in altre istituzioni italiane (Enit, Camera di Commercio…), per sostenere e promuovere l’immagine italiana.”

“L’operazione, come tutte quelle che hanno due cotè, quello interno italiano e quello rivolto alla rete estera, non è facile. A Roma è ancora in corso una fase di assestamento, dipendiamo dalla decisioni italiane. Ma già lavoriamo insieme, mettendo in comune le nostre esperienze, sarà un anno di transizione.

Fra l’altro, l’ICE ha una propensione all’innovazione e all’utilizzo di tecnologie superiore alla nostra. Noi abbiamo un apparato burocratico un pò più pesante. Per certi versi necessario per noi, dunque non voglio dire che sia un difetto. Sono convinta però che da questa collaborazione nascerà un impulso anche nei nostri confronti a lavorare in modo più moderno.”

E’ un lavoro molto impegnativo per diversi motivi quello che l’aspetta. Sicuramente pieno di prospettive, che punta sempre di più sul coordinamento del cosidetto Sistema Italia.

“Indubbiamente il lavoro da fare è grosso e bisogna coordinare e valorizzare tutto quello che le istituzioni italiane propongono. Ma non vanno dimenticate anche quelle americane o internazionali che hanno un’attenzione particolare per l’Italia, devono far parte del nostro spettro di lavoro in comune.”

Quanto importanti in questo contesto sono le università?

“Molto. E ci sono delle realtà molto importanti qui a New York. Basti pensare ad NYU, con la Casa Italiana Zerilli-Marimò, alla Columbia con l’Italian Academy, alla CUNY, con il Calandra Institute. Ma a parte queste così fortemente caratterizzate come italiane/italo-americane, ci sono dei dipartimenti nelle varie università di New York che hanno un’attenzione particolare per il nostro Paese. Per la sua arte, la cultura o per la parte di interesse anche economico-commerciale. Dobbiamo fare lo sforzo di lavorare con quelli che già hanno una vocazione a trattare l’Italia e con coloro che vorrebbero ma non trovano i canali giusti per poterlo fare.

Credo che dobbiamo procedere decisamente in tal senso, naturalmente insieme all’Istituto di Cultura, con cui abbiamo ottimi rapporti. Dobbiamo sfruttare anche la vicinanza logistica tra noi e loro per mettere in campo iniziative comuni.

Poi c’è una realtà qui a New York, la Scuola d’Italia Guglielmo Marconi. E’ importante dire che è un’offerta interessante e innovativa non solo per gli italiani ma anche per gli americani. Ne ho già parlato con la preside Anna Fiore. E’ una scuola perfettamente bilingue che va proposta al pubblico americano, non solo ai figli dei connazionali che vivono qui.”

Si sofferma anche a riflettere sulla complessità della comunità italiana a New York. Con una valutazione che mi sento di condividere in base all'esperienza di i-Italy...

“Nei primissimi giorni che ho trascorso qui nella mia mente c’era un po’ di divisione.

Gli italo-americani delle vecchie generazioni, quelli più giovani, di terza e quarta generazione, e poi gli italiani che arrivano adesso… Ma mi sono resa conto che in realtà i figli degli italo-americani da un lato ed i loro coetanei che arrivano dall’Italia sono in realtà molto simili”

Noto come questo riavvicinamento passi attraverso l’istruzione e che sia gli italiani che vengono in America che i nipoti dei nostri emigrati negli USA hanno una preparazione culturale simile…

“Sì, non hanno proprio le stesse esigenze, ma sicuramente sono simili. Credo che ci si avvii verso una contaminazione degli italiani, degli italo-americani e degli americani. Ed il lavoro di i-Italy va in questa direzione. In un certo senso l’anticipa. Le tecnologie poi aiutano in questo. I giovani, e non solo, sono tutti su sul web, su Facebook, su Twitter… Parlano, si confrontano. Attraversano barriere. Siamo sulla buona strada.
 

Lo sforzo grande che dobbiamo fare noi è quello di non lasciar annullare la cultura italiana in questo grande calderone. E’ importante quindi anche la promozione della lingua. Noi dobbiamo tutti saper parlare l’inglese e comunicare in inglese, ma per poter dire che c’è anche un’altra ricchezza: l’italiano.

E’ importante saper parlare e saper comunicare in italiano. C’è per fortuna un interesse fortissimo da parte di molti americani che vanno in Italia, che studiano l’italiano, che lo conservano. C’è una grande attenzione anche dell’ambasciata a Washington, l’ambasciatore Terzi ha fatto di questa iniziativa una parte portante del suo lavoro, e noi gli diamo tutto il supporto possibile. Certo, siamo coscienti del fatto che, soprattutto a New York, c’è una concorrenza fortissima con lo spagnolo. Organizzare corsi di lingua italiana potrebbe sembrare dunque quasi uno sforzo eccessivo. Però c’è una domanda e questa va soddisfatta, la misura sarà ovviamente quella che deriverà dalle esigenze e bisogna fare in modo che la domanda continui ad esserci e a crescere.”

E’ consapevole delle difficoltà “a monte” nell’impresa dell’insegnamento dell’italiano…

“Lo IACE ha dato un grossa spinta all’insegnamento dell’italiano nelle scuole americane. E il recupero dell’AP è fondamentale. Ma anche la formazione di chi insegna la lingua è fondamentale. Noi diplomatici lo sappiamo bene, siamo costretti a imparare una quantità di lingue e ci rendiamo conto che non è così facile. Conoscere la lingua italiana bene non vuol dire saperla insegnare. Chi va ad insegnare, soprattutto in un contesto linguistico e culturale straniero, deve avere un bagaglio di formazione da insegnante, non solo una buona formazione culturale nella materia.”

Parliamo dei Comites. Sono molto importanti. Ma bisogna lavorare anche con i giovani e i nuovi italiani che spesso neanche conoscono questi organi.

“Li ho già incontrati in varie circostanze, anche se ancora non ho avuto un contatto ufficiale, diretto. I Comites hanno svolto un ruolo fondamentale. Ho seguito il loro percorso negli anni. Sono strumenti utilissimi. Bisogna vedere ora come si adattano al cambiamento del profilo della comunità che rappresentano."

Anche in questo caso, come per molte associazioni italo-americane più tradizionali, abbiamo il problema della quasi assenza dei giovani...

 “Si tratta di superare quell'idea che è rimasta un pò nell’aria che loro rappresentano gli italiani di vecchia generazione, ma sono convinta che siano coscienti della necessità di questo sforzo.”

Ci confrontiamo anche su una tematica controversa nel mondo italo-americano. Quella legata alla rappresentazione dei media che in particolare si è concetrata su polemiche legate al noto serial “The Sopranos” e, negli ultimi mesi, il ‘reality show’ Jersey Shore.

“Bisogna distinguere, io sono convinta che siamo in un Paese libero e quindi ognuno ha il diritto di proporre quello che vuole. I Sopranos sono una serie ben fatta da un punto di vista cinematografico, che effettivamente offre un’immagine che può urtare molte suscettibilità in questo Paese. Quando è uscito in Italia infatti non ha avuto le stesse reazioni, ed è stato anche più facilmente apprezzato.”

E’ vero. Pochi dicono che il serial di Chase ha smitizzato il personaggio mafioso. Lo ha inserito in un vivere quotidiano certo non esaltante. Tony Soprano non ha il fascino del Padrino, è piuttosto fragile, a volte è addirittura ridicolo, troppo umano. E’ l’antieroe per eccellenza”.

“Infatti… Ma per quanto riguarda Jersey Shore, è proprio inguardabile. Non solo perché offre un’immagine distorta dell’italianità. Ma anche perché è come tanti altri ‘reality show’ che vediamo anche in Italia. Spazzatura. Trash!

Non so quanto sia interessante televisivamente, ma certo lo è come specchio, magari anche distorto, di un fenomeno sociale, di marginalità giovanile, e dunque va considerato.

Mi hanno anche segnalato di recente la puntata di Law & Order dedicata al caso Strauss-Kahn, ma girata con un protagonista italiano. Perchè si sia deciso di fare questa operazione, bisognerebbe chiederlo all’autore. Non voglio leggerci cose del tipo: 'non vogliamo urtare i francesi, invece gli italiani li offendiamo senza problemi…'. Certo sono perplessa. Pare ci sia un’immagine del Console d’Italia con aria arrogante, del tipo 'lei non sa chi sono io'.

Insomma, io francamente spero che con la mia sola presenza di smitizzare questo tipo di immaginario..."

La conversazione prosegue in maniera amabile, senza formalità. Le diciamo che avere una donna a dirigere un consolato nel 2011 non dovrebbe più far notizia. Eppure la maggior parte degli articoli su di lei fanno leva su questa sede prestigiosa diretta da una donna, che ha  anche altre due importanti dirigenti in rosa, come si suol dire…

“E’ vero, non dovrebbe essere questa una notizia. Ma in Italia le donne nella carriera diplomatica sono ancora troppo poche. Soprattutto a livelli più alti, ancora c’è un vuoto notevole. Con la nostra associazione di donne diplomatiche, stiamo cercando di lavorare su questo. I progressi ci sono, ma effettivamente suona ancora un pò strano quest’incarico ad una donna...

In realtà per me è stata una piacevole sorpresa arrivare qui, trovare due colleghe diplomatiche e anche nel personale amministrativo una grossa componente femminile. Sono convinta, avendolo sperimentato nel corso degli anni, che le donne abbiano una capacità lavorativa, una tenacia spesso superiore a quella dei colleghi maschi. E sanno anche lavorare bene con colleghi maschi. Un consolato poi ha bisogno di un’attenzione particolare al profilo psicologico dei suoi interlocutori e credo che anche in questo possiamo dare lezioni.

Godiamo certo di una grande attenzione da parte del Ministero, ci sono persone che giudicano questa cosa positivamente, e il ministro Frattini è tra questi. Per lui è importante che ci siano donne in posizione di guida in strutture all’estero.

Sospetto certo che all’interno del Ministero ci siano persone che pensano: 'adesso vediamo come se la cavano, mettiamole alla prova e se non ci riescono sappiano che non dobbiamo spingere in quella direzione...'”

Dal Console Generale alla madre di una ragazza di 15 anni …

“Mia figlia è contenta di essere tornata a New York , c’era già stata. Per ora questo ha significato una separazione anche dal padre che è a Roma, ma speriamo che riuscirà a raggiungerci. Sarà un bene per tutti.
 

Non è facile questo tête-à-tête con una quindicenne che certo ha subìto sradicamenti continui. Io avrò molti impegni e spesso sarà sola. Ma cercherò di convincerla a seguirmi di tanto in tanto. Però deve studiare per prima cosa. Certo ha grande interesse nelle cose italiane. Letteratura soprattutto…”

La lasciamo nel suo ufficio, all’interno della storica townhouse di Park Avenue. Rimangono impresse la dolcezza del suo volto mentre parla della figlia e la sua fermezza nel prospettare un periodo di grande impegno di un’Italia piena di risorse al servizio della collettività.

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