La corsa di Luisetta, sette anni dopo il terremoto

Luigi Fiammata (April 05, 2016)
Storie fantastiche dal cratere aquilano. Per ricordare il settimo anniversario del terremoto dell'Aquila, il 6 aprile 2009.


Comincio da qui. Quasi all’incrocio con la strada per Pizzoli. In salita, da Cansatessa verso L’Aquila. Ho il sole negli occhi, che è già alto; me la sono presa comoda, stamattina. Sono le otto e mezzo. Ma, oggi, per me, è un giorno importante. L’hanno ridipinta di viola, quella casa. Di sicuro è una scelta scaramantica. Non lo sapevo che, tutta quella terra libera, l’avessero riempita di materiali per l’edilizia. Sembra un accampamento sporco. Recintato. Dentro ci sono anche i prefabbricati, come se già volessero iniziare a costruire, anche qui, che ci giocavo col mio cane, prima.



Ci devo riuscire. Stamattina, è la prima volta, che ci provo, dopo sette anni, precisi. Sono venuta qui, ad iniziare da qui, perché ci abitavo, qui. In quella casa dietro questa recinzione a maglie di ferro, e pali. Anche da questa parte, un magazzino di materiali da costruzione all’aperto; là, in alto, luccicano le cime dei camini, che vanno a vento, per disperdere il fumo, in attesa d’essere montate, da qualche parte. Sembra tutto provvisorio, qui. Da qui sotto, se guardo in alto, vedo la collina, in controluce, quasi, perché il sole è nato più a destra; e le case, a sinistra, delle mie amiche. Case basse, con i cortili di pietra e asfalto, e i garage.



Voglio correre. Voglio provare a correre.



Sono stata sette anni quasi ferma. E ho messo anche qualche chilo su. E lo voglio perdere. Ho le mie scarpe da ginnastica nuove, i calzettoni corti, che quasi non si vedono. I pantaloncini. E le mie gambe. La cicatrice lunga, sul ginocchio sinistro. E quell’altra, dalla caviglia destra per quasi tutto il polpaccio, dietro. Che sembra che ho una gamba più magra dell’altra. Forse dovrei dire, meno grossa. Il riverbero, della luce, mi annebbia lo sguardo. Ed è così, se mi guardo indietro.



Quello che mi resta addosso, è solo la voglia di cancellare via tutto. Anzi, di farla finita proprio. Chi sa se, in fondo al tunnel, la luce che si vede è proprio questa. Vorrei non ricordare più nulla. Vorrei smettere di pensare a tutte le possibilità che non ci sono più. Vorrei non avere avuto più nessun amico. Così non avrei sofferto così tanto a vederli scivolare via, in questi anni, in questi mesi. Così non mi sarei sentita più questo nodo in gola, per il silenzio, perché nessuno più mi cercava. Perché ero sola, e dimenticata. Qualcuno si ricordava di me una volta l’anno, più o meno, al compleanno, o ieri. Adesso sono io, che voglio ricordarmi di me, anzi, che voglio vedermi per la prima volta.  



Adesso, respiro forte e parto. Parto in salita, piano piano. Sembra un ponte sospeso, questa strada. Che arriva fino in cima e poi si ferma, e si perde tra le altre case, o, forse, tra gli alberi della collina, lì davanti. Come quando, guardavo la collina di Pettino, dalla stanza dell’Ospedale. Separata da me, lontana, inaccessibile. E ora invece ho la strada sotto i miei piedi. Vado. Ecco, i primi passi. Le gambe mi sostengono. I piedi mi sembrano abbastanza elastici. Anche se mi pare quasi di correre sul posto. I muscoli mi sembrano sorpresi. Sento subito la pressione sui glutei. No, non è l’elastico delle mutandine. Mi sono messo le mutandine bianche di cotone della nonna, stamattina, grandi, comode.  No, sono proprio i muscoli. Dei glutei, che si stringono. Come se camminassi col culo stretto. Le lamiere degli spazi elettorali, sull’altro marciapiede. Riflettono il sole. Vuote. Un manifesto solo c’è.



Il 17 aprile, vota Sì, al Referendum. Ammirevole, chi ce lo ha messo. Uno solo nel deserto.



Ecco, guarda. Sono arrivata all’incrocio. Sono su, e ancora non ho il fiatone. Giro a destra. Lascio via Fleming. Sotto di me, la poca strada che ho fatto, sembra lunghissima. C’è una balaustra metallica, e le case sotto. Che schifo questo asfalto. Buche, avvallamenti, tonfi, pezze, pietre sparse, brecciolino. Sembra il fondo del Raio. Detriti ammucchiati. Il marciapiede, è peggio. Come se sotto l’asfalto ci fosse l’acqua che bolle. In mezzo a queste casette basse, col cancello sulla strada, e qualche alberello dentro. Arbusti, e intonaco ocra. Mi fa un po’ male la schiena. Guarda. La chiesa di Cansatessa, tutta di legno, rifatta, persino col campanile di legno, qua sotto. E le tegole finte, di catrame sagomato, e le finestre grandi per la luce.



Non sentiva più i colpi del peso del mio corpo la schiena, da un sacco di tempo, davvero. Piazza d’Armi non era ancora una tendopoli, quando ci correvo io. E, pure la, le radici degli alberi gonfiavano di bitorzoli la pista d’atletica. Qua alberi non ce ne sono più, ma è tutto rigonfiamenti e vuoti, il terreno, che devo stare attenta. Se metto il piede nel posto sbagliato mi rovino di nuovo i tendini. Ci sono ancora spazi vuoti, tra le case. Pezzi incolti di terra arruffata.Che non diventa ancora un palazzo, e non diventerà mai un verde pubblico, Un poco di ossigeno. Devo bere il mio primo sorso d’acqua. Ho le labbra secche, e anche il palato, e la lingua.



Quanto tempo è che non bacio più nessuno?



Ci aveva provato un pomeriggio, Matteo. Ma io non volevo che baciasse una seduta su una sedia a rotelle. Neanche fossi Clara! Io non volevo pietà. Mi sembrava che mi guardasse impaurito. Come se fossi un mostro. Piangevo, poi dopo. Da sola. Dopo che lo avevo mandato via. Sono belli quegli alberi con i fiori bianchi, dentro il sole, sembrano scintille. Sembrano muoversi. Fanno talmente tanta luce che non si vedono i rami, solo una polvere luminosa, lampi. Chi sa se sono ciliegi, o mandorli. Sarebbero belli, degli alberi da frutto, lì, in mezzo alla città dimenticata. Ci andrebbero uccelli e bambini a raccoglierli, che bello.



Corro in alto, rispetto al tetto delle case, a destra, in basso, il vento lo sento. E guardo le erbacce che crescono sui bordi del marciapiede, e lo sbriciolano. Si vede il profilo delle montagne, lontano. Un’ombra più scura, sotto il cielo scaldato dal sole. Fa caldo, stamattina. Il guardrail. Devo stare attenta a non inciampare, a tenermi dritta. Qui è tutto arrugginito. Là sotto ci sono enormi prati verdi. Tra la strada per Montereale, e quella della Guardia di Finanza. Perché ancora non ci costruiscono? E’ strano. Ma sarebbe pure bello, se restassero così. Magari ci coltivano qualcosa. O ci si potrebbe passeggiare dentro.



Visti da quassù sembrano una splendida possibilità. Di aria libera, e giochi.  E forse qualcuno ci farà un altro po’ di cemento sopra. Che ce ne abbiamo bisogno. Ci manca. Il fiato, mi sembra ancora di avercelo. Mi fa un po’ male, dentro la scarpa, l’alluce sinistro. Come se fosse rigido, e facesse fatica a piegarsi. Però se non ci penso, posso andare ancora. Una breve piazzola interrompe il guardrail, c’è un ponteggio, che fa da balaustra, spezzato, tenuto insieme da un telo bianco, che ne unisce due bracci.  Se mi avvicino li e mi appoggio, cado sul tetto della casa più vicina. Ancora prato, e pezzi di Coppito, là giù in fondo, forse. Certo che ancora non la imparo davvero questa città. La conosco solo camminandoci dentro. Dall’alto non l’ho mai vista. Da sotto, sì, però.



La prima gru. E’ bassa, rispetto alla strada dove sono, quasi corro lungo il suo braccio trasversale, che, contro la luce del mattino, è un’ombra di traliccio, che unisce due pali della luce, in prospettiva sfalsata, lungo la strada che curva a sinistra. E cime scompigliate di alberi polverosi, soffocati tra i muri perimetrali delle case. Si riapre, la strada con una piccola curva a destra. Sento un accenno di fiatone. Ma respiro con la pancia, profondamente, anche se è difficile, correndo. Riprendo a respirare col naso, e la bocca chiusa. Mi asciugo un po’ di sudore. Sì, col manico della felpa. Nello zainetto, dovrei avere anche l’asciugamano. Ma, magari, lo uso dopo. Me lo sento sbattere sulla schiena, lo zaino. Non mi fa male, sulle spalle, non mi tira. L’ho messo bene.



Questo enorme palazzo di cemento e mattoni grigi, visto attraverso questa cancellata a quadretti metallici, sembra tutto storto. Ingabbiato dentro i rettangoli dei ponteggi, fino al settimo piano.  Sembra un gioco con i mattoncini da bimbi. Per terra, le foglie secche si mischiano con l’erba verde. Come le case nuove, quelle ricostruite, e quelle ancora in cantiere si alternano alla vista.



E corro, ancora. Incredibile. Ci passo sotto, a quest’albero, colmo di fiori bianchi sui rami. Mi sembra di sentir scricchiolare la casa a fianco. Metà in piedi, già fatta e finita, anche se vecchia, e l’altra metà, fatta solo di travi di cemento armato, e piloni, vuoti e aperti nel cielo, senza mattoni che ancora li chiudono. Sospesi, come un disegno che nasce dal niente.



Passo l’incrocio che scende giù al centro commerciale, e continuo a correre. Lo so, che vado piano, ma io ieri, a quest’ora, ero ancora in sala d’attesa in palestra, per la fisioterapia. Per fortuna che le depilo le gambe. Così non dovevo nascondermi. E neanche ora. Sull’asfalto le ombre vengono da sinistra, e fanno strani disegni, per terra, che si mischiano coi profili delle buche. C’è una edicola, sul muro. La Madonna. Un altarino di pietra e l’intonaco scrostato. Chi sa quando l’hanno fatto, quel dipinto.  E c’è ancora verde, a sinistra, ma è recintato. E’ nudo. Perché non ci fanno un boschetto qui?



Ci piantano 309 alberi. Sarebbe un bel monumento, credo. Vivo.



Quella casa laggiù sembra rossa, contro la collina. Il sole, quasi cancella i colori, Sembra di guardare uno sfondo del Beato Angelico.  Corri, Luisetta. Corri. Corri ancora, che ce la fai. Ci sono alberi che sono ancora solo corteccia e rami disegnati di nero contro il cielo e la luce, da qui, non si vede, se ci nascono già foglie, o no. Se per loro è ancora inverno, o già morte.  Si sente una sirena d’allarme, da qualche parte. E odore di automobili che corrono.



Ah, ma l’hanno dipinta quasi rossa, arancio, e quella era la casa di via Dante Alighieri, spezzata in due. Mi ricordo le foto, di quella casa. Io non ci sono mai venuta, a vederla. Sembravano le mie ossa, uscite dalla carne, i ferri del cemento piegati, che tenevano insieme abbracciati i pilastri spezzati, che avevano inghiottito un piano di quella casa. E ce ne erano altre di case così, lungo quella via. Mi pare ricostruito qui. Anche se il verde intorno, sembra sempre una terra abbandonata e schifata da tutti. Che peccato. E palazzi.



Mi fanno male le costole. Ma non è come sette anni fa, che non respiravo.



E’ un dolore più di muscoli, anche se è nelle ossa. Come se facessero fatica a tenermi dritta. Sì lo so, che sono stata tanto seduta. Qui prima c’era un negozio di divani, mi pare, e adesso, ci si mangia. La gru, in cielo, sembra un indice puntato contro un orizzonte che non si vede.



L’intonaco di quella vecchia casa in pietra, tutta ingabbiata dentro pesanti travi di ferro, sembra sangue sbiadito e rappreso che scolava tra le ferite. Mi pare tutta storta, in pendenza, come la salita lieve di via Antica Arischia che sto percorrendo. Adesso sì, che respiro un po’ con la bocca. Ancora acqua. E là sotto, sta venendo su un altro palazzo. Le impalcature mi sembrano celesti, e dentro, si vedono le armature di legno dove si cola il cemento e il ferro. Sporgono, in alto, i ferri. C’è un pino marittimo, qui a Pettino, con i rami tutti tagliati lungo il fusto, e resta solo qualcosa in cima. Li hanno tagliati tutti gli alberi qui. Lungo la strada sembra che ci siano rimasti solo cespugli e arbusti disordinati, rovi. Neri di gas di scarico.



Dai, Luisetta, ancora un poco.



Qua è pieno di prati recintati. C’è solo questa strada, in mezzo, e qualche strada trasversale, ad angolo retto, e poi case, e palazzi, circondati da mura e cancelli, e cortiletti smilzi. Non c’è nessuna piazza. Quasi. Niente comunque, che somigli a piazza Duomo, per esempio. La sotto, c’era il bar. Aveva riaperto subito, dopo il terremoto. Aveva riaperto nella piazzetta lì vicino, mi ha raccontato mio fratello, sotto dei gazebo. E dei prefabbricati.



Durante il G8, a luglio del 2009, era l’unico bar aperto qui. Mi ha raccontato, mio fratello, che fuori c’era un cartello che spiegava che, dentro, era aperta la sala delle slot machines, con l’aria condizionata. I palazzi, visti da qui, arrivano con i tetti sin quasi sulla cima della collina, e la nascondono alla vista, che, col riverbero del sole, la fa somigliare ad una specie di parrozzo mal riuscito, tutto precipitato da un lato.



Sono quasi arrivata. Forza.



Ancora non incontro nessuno, che cammini a piedi. Chi sa che penserebbe se mi vedesse correre così. Mi tira la gamba, dietro. Dove c’è la cicatrice. Come se ci fosse una corda dura. E me la sento che mi fa male anche all’inguine. Per dirla tutta, il ferretto del reggiseno mi sega la pelle. Col sudore poi, me la sento tutta sfregata e rossa. Quasi quasi me lo levo, il reggiseno. Tanto non c’è nessuno.



Ecco. La mano dietro la schiena, lo slaccio. Alza il braccio, spostalo, sfila la spallina, da sotto la maglietta, e l’altra. Via. Eccolo. Lo appallottolo, lo infilo nello zaino, sono libera. Che bello. Mi ballano, le tette, mentre corro. Fa’ niente. Il massimo che mi può succedere è che qualcuno mi guardi. E’ da tanto, che non mi guarda nessuno. “Monarvap” che vuol dire? Sta su quella plastica gialla che avvolge un pezzo di casa, che cresce, sul fianco dell’altra. Circondata da una recinzione di plastica arancione e metallo. Guarda lì.



Lì, prima, c’era una casa di pietra tutta diroccata. Ne sono sicura, me lo ricordo. Adesso stanno costruendoci sopra una casa di due piani almeno. Tutta di cemento. Ma si può? Ecco la scuola. Il cancello di metallo chiuso. I mattoncini tutti ancora per terra. Crepata, la scuola. Non credevo stesse ancora così. E’ rimasta in piedi, ma sembra tutta scossa, per terra c’è di tutto. Meno male che non c’erano bambini dentro. C’è un manifesto del Comune, a fianco, magari inizierà un cantiere di ricostruzione. Non l’attraverso, la strada, per andare a guardare. Penso solo che già avrebbe dovuto essere stata ricostruita.



Ci sono due gru, in quel cantiere, in alto a sinistra. Ecco, la prima persona che vedo camminare, un signore coi capelli bianchi, vicino alla fermata del bus. Pensa ai fatti suoi, non mi guarda. E, dietro, un altro cantiere di un palazzo, enorme. Di ferro e legno. Le impalcature quasi coprono il sole. Di fronte all’altra scuola, più in alto. Tutta di cemento, gialla, rimasta in piedi. Le finestre sono aperte, le lezioni sono già iniziate, sicuro. E’ tanto, che non ci vado più a scuola, io. Quanti anni sono che ho finito lo Scientifico? Dieci?



Quasi ce l’ho fatta.



Ancora un pezzetto, la salita è leggera, ma continua, sembra sempre tutto in salita; faccio fatica. Mi fa male tutto adesso. E respiro forte, con la bocca, che è secca, arsa. Lì, sull’angolo, c’era un pezzo della chiesa. Adesso, hanno fatto un muro elegante, e due grandi finestre, che danno luce, una per piano.



Lì sotto c’era il call center, in quel palazzo. So che c’è ancora, o forse ce ne sono due adesso, non so. Quando sono uscita dall’Ospedale, però, ci sono passata, e c’era una enorme fessura a terra, sull’asfalto. Aperto proprio. Uno squarcio lungo quasi tutto il piazzale, e che piegava, ad un certo punto. Adesso non c’è più, mi pare. E il palazzo di fronte è ancora lì, fermo, con quella ferita che va da un angolo della parete, a quella opposta, per tutti e due i lati. Disegnando quattro triangoli incerti, e assurdi, uniti per la punta, lungo la parete. E’ ancora così. Chi sa che fanno, le persone che ci abitavano. Sono arrivata. Basta. Mi fermo. Proprio sull’incrocio. Con questa strada che scende giù. Bagnata di sole. Ripida. Ci posso camminare, per riprendere fiato, in discesa. Mentre mi asciugo col telo, di spugna.



E’ sette aprile, Luisetta, sette anni fa, oggi ti hanno estratto dalle macerie di casa tua. E oggi, dopo sette anni, ti sei fatta la tua prima corsa. Sette anni di ferite, e di fatica. Di ossa ricostruite, e di solitudine. Anche il tendine, s’era rotto. Certe volte, i numeri ci giocano, con la vita delle persone.



Dentro il traffico, sento qualche passero cinguettare. Il sudore mi scola dalla faccia. Forse qualche lacrima. Salata. Ciao, Luisetta.



 

 

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