Articles by: Mattia Ronsisvalle

  • La locandina dei Walking Tours
    Life & People

    Meet The Most Enthusiastic Man in New York & His Walking Tours

    Ricky Russo’s story is truly one to be told. He was born in Trieste, grew up in his beloved city, then one day decided to turn his passion, music, into his job. That’s how he became a music reporter, DJ, radio and TV writer. He studied Humanities and wrote his thesis on the origins of punk film. He worked hard, but always to a great musical soundtrack.

     

    According to him, the Big Apple came into his life suddenly, “I wanted a change. In Italy I worked well enough, but New York remained for me the dream I had to accomplish, my life’s objective, both from a professional and personal side.”

     

    After just a few days, his American friends started calling Ricky “The most enthusiastic man in New York”, a nickname that brought him luck and fits him to a T. 

     

    Then came the idea of the walking tours, which “stemmed from the desire to share my experience of New York with the Italians that come here for tourism or to live here”, the Triestine tour guide declares. 

     

    Not only tourists, even renown figures such as Jovanotti, Chef Rubio, I Tre Allegri Ragazzi Morti, journalist Emma D’Aquino, and many others, were fascinated by Ricky Russo’s walking tours. 

     

    Ricky’s itineraries vary and there is something for everyone. In the Midtown one, which is probably the most traditional, you learn about cinema, literature, television, and comic books. If you’re more into Rock ‘n’ Roll and Punk, then the East Village tour is the one for you. 

     

    Otherwise, you could experience the New Wave in Brooklyn, Gospel and Jazz music in Harlem, or take the Asbury Park tour (in New Jersey), which focuses on The Boss and Bruce Springsteen. And let’s not forget the tour dedicated to “The Warriors”, the 1979 cult film. 

     

    A few days ago, we had the pleasure to take part in the not yet mentioned Greenwich and West Village tour. 

     

    Our tour started in Washington Square Park, where the lively Ricky welcomed us enthusiastically. In the range of a few square feet, our guide delivered many stories, anecdotes, and fun facts about the area. 

     

    Greenwich Village presents itself as a quintessentially bohemian neighborhood, whose alternative wave marked the history of New York and of its image. The atmosphere is dynamic and pleasant, thanks also to the strong presence of students from New York University. 

     

    Here, we traced the steps of the Beat Generation, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Woody Allen, Neil Young, John Lennon, Edward Hopper, and Jackson Pollock.

     

    It was also a pleasant and charming experience to explore the setting of cult TV shows such as “Friends”, “The Cosby Show”, and “Sex and the City.”

     

    Afterwards, we stopped by the famous Caffè Reggio, a small café where the city’s greatest intellectuals came to meet over espressos and cappuccinos.

     

    Literally two steps away, is Cafe Wha?, where great artists such as Bob Dylan, Jimi Hendrix, Jerry Lee Lewis, Bill Cosby, and many others performed.

     

    On the tour, we also observed the small basketball field called “The Cage”, where many NBA recruiters came scouting for future talents: a must see!

     

    Finally, we saw two historical buildings: the first one was the Brown Building, better known as the place where the Triangle Shirtwaist Factory fire took place on March 25, 1911, killing 146 people. The building became a National Historical Landmark in 1991 and a New York City Landmark in 2003. 

     

    The second historical location was Stonewall Inn, where the famous “Stonewall riots”, organized by the Gay community as acts of revolt, took place, resulting in a series of violent clashes between the protestors and the New York police.

     

    At the end of the tour, we saluted Ricky with a “Daghe”, which means “take life as it is and enjoy it.”

     

    All of our Triestine guide’s adventures, his anecdotes about the city, and much more can be found in his latest book “Daghe! El Greatest Hits”, published by Piccolo Cafe.

     

  • Fatti e Storie

    Neri Marcorè : un marchigiano a New York

    Neri Marcorè rappresenta è un artista poliedrico, capace di saper interpretare più ruoli e dare vita ad esibizioni veramente rare.

    Attore, imitatore, cantante, doppiatore e presentatore, l’artista ha incontrato il pubblico americano in un evento presso l'Istituto di Cultura di New York .

    Neri Marcorè è nato a Porto Sant’Elpidio, in provincia di Fermo (Marche), nel 1966. Inizialmente studia lingue moderne presso l’Università di Bologna.

    La partecipazione  al programma televisivo della Rai “Stasera mi butto” ed il suo arrivo in finale gli cambia la vita. 

    Dal 1994, ha recitato in più di 50 film e serie televisive. Da ricordare le sue collaborazioni con la presentatrice/produttrice televisiva Serena Dandini e il regista Pupi Avati. Per il suo ruolo nel film di Pupi Avati del 2003 “Il cuore altrove” ha vinto il “Nastro d’argento” come miglior attore protagonista ed è stato finalista per il prestigioso “David di Donatello”.

    Nel corso della conversazione con il Direttore Giorgio Van Straten,  il poliedrico artista si è raccontato a cuore aperto.

    “Sono sempre stato autodidatta, ho imparato diverse cose da solo” – spiega Marcorè.

    Come presentatore ha anche condotto per 10 anni circa la famosa trasmissione di intrattenimento culturale  'Per un pugno di libri': “Adoro leggere, divoro libri. Quella trasmissione fu per me uno stimolo ed un’esperienza magnifica. Ad un certo punto però, sentivo di dover cambiare.”

    Nel 2017, Neri Marcorè ha ideato e fortemente voluto  il progetto “Risorgi Marche”, un festival musicale con 13 concerti organizzati sulle colline e le montagne delle province marchigiane colpite dal terremoto del 2016. Il festival, che ha lo scopo di promuovere la rinascita di quelle comunità, si è tenuto anche nel 2018, con 16 concerti e quasi 200 mila partecipanti.

    All’incontro era presenta anche Fabrizio Renzi, direttore Ricerca e Innovazione di IBM Italia. Insieme all’attore ha ragionato sul rilancio delle zone terremotate.

    L’ ingegnere marchigiano di Civitanova Marche, è anche coinvolto in varie iniziative di carattere filantropico a supporto della rinascita dei borghi marchigiani.

    Tra le associazioni presenti, è importate ricordare la MIA, Marchigiani in America. presieduta da Riccardo Lattanzi che ha preso parte attivamente all'organizzazione della serata.

    Si tratta di un’associazione no-profit dedicata alla promozione e celebrazione della cultura e delle tradizioni della regione Marche, attraverso eventi culturali, educativi e culinari.

    Alla base c’è l’intenzione di stringere, fortificare e preservare i legami tra gli USA e il territorio marchigiano.

  • I tifosi del Roma Club NYC
    Fatti e Storie

    Dal Colosseo alla grande mela: Il Roma Club NYC

    Il calcio è qualcosa difficile da spiegare se non lo vivi in prima persona. E' un'esperienza che può migliorarti una giornata o rendertela peggiore, ma una cosa è certa: ti lascia il segno.

    Molti tifosi, però, sono costretti a lasciare la propria città per opportunità di vita e di lavoro diverse.

    Questa è la storia di tanti tifosi che sono emigrati verso l’estero. Oggi parliamo di uno dei due club della Capitale italiana, ossia la Roma.

    Quando si parla di Roma si pensa sempre all’Italia, al suo fascino, alla sua storia, alla sua arte e così via.

    Ma molti sottovalutano che la città di Roma è così caratteristica anche per il suo amore verso il calcio. Immaginate di passeggiare tra le strade della capitale, viverla in tutta la sua storia e poi giungere allo Stadio Olimpico di Roma, nella Curva Sud, tra i colori giallo-rosso. Un'emozione unica.

    Ecco, ora immaginate di dovervi trasferire oltreoceano, negli Stati Uniti.  E la Roma? Come vedere la partita e respirare quell’aria di festa?

    Fortunatamente potete trovare il Roma Club NYC.

    Il Roma Club NYC è nato nel 2008. All’inizio la sede non era fissa, poi si scelse come location il “Ristorante Sora Lella”. Il suo Presidente e fondatore del Club, è Giovanni Peluso. Da due anni, il club, è locato al Grey Bar, un pub irlandese.

    Mr. Peluso vive in America da quasi 30 anni, venuto qui come studente, si è poi affermato in ambito lavorativo come avvocato. Da sempre tifosissimo della Roma, riesce spesso a tornare nella sua città ed allo stadio Olimpico, dove porta lo striscione dedicato al Club di New York City.

    “C’era l’esigenza di creare una comunità di romani e romanisti qui a New York, non è stato facile ma ce l’abbiamo fatta” – ci racconta il Presidente.

    La passione che si percepisce all’interno del locale è davvero tanta: magliette dei giocatori, sciarpe, striscioni e cori. Tutto ciò tra il giallo e il rosso.

    Peluso ci dice che circa 15 persone compongono il comitato esecutivo: c’è chi cura i social network, chi si occupa di fare sventolare lo striscione allo stadio in Italia e chi organizza le trasferte in Italia o all’estero. I soci sono circa quattrocento. Il Club si autofinanzia.

    Si percepisce un leggero disappunto, dalle parole del Presidente, nei confronti della società Roma quando ci racconta che : “Sono circa tre anni che il Presidente della Roma non viene qui, lo invitiamo cordialmente”.

    Qui si vedono non solo romani e italiani, ma anche tanti americani e stranieri che sono presenti anche all’interno del comitato esecutivo.

    E Totti? Come si fa a porgli questa domanda?

    “Viene spesso qui, lui è una bandiera e all’interno della società troverà la sua collocazione” – ci svela mr. Peluso.

    Sembra di stare in una grande famiglia romana, all’ombra del Colosseo. L'atmofera è la stessa dei locali della capitale quando ci si ferma a parlare di calcio o guardare una partita, ma siamo a New York, il che è entusiasmante.

     

     

     

     

     

  • Fatti e Storie

    A New York come a Napoli. Una pizza a soli 5 dollari

    La tradizione ci racconta che la pizza nacque a Napoli nel ‘700 circa. Successivamente nel 1889 venne ideata la famosa pizza Margherita.

    Da allora sono passati secoli, eppure la pizza napoletana è uno dei cibi più diffusi e mangiati nel mondo. E come poteva non arrivare fin qui, oltreoceano, a New York?

    A New York sono oggi presenti molte pizzerie napoletane, alcune veramente buone, ma a dire il vero spesso piuttosto care.

    Eppure la pizza era un piatto povero!  

    Il proprietario e pizzaiolo di Kestè, Roberto Caporuscio, ha deciso di superare anche l'ostacolo economico che rende a volte inaccessibile a tutti una buona pizza, abbassandone decisamente il costo.

    Roberto nasce e vive la sua giovinezza Pontinia, in Italia. A Napoli però “se fatte l’osse” imparando i trucchi della scuola di pizzaioli napoletani, tra questi il mitico Antonio Starita. La sua gavetta lo ha portato a New York City, nel 2009.

    Oggi i suoi locali sono:

    “Kesté Pizza e Vino" presente in diversi posti: uno situato in Bleecker Street, un altro in zona Fulton all'indirizzo 66 Gold St. e l'ultimo a Williamsburg, Brooklyn. 
    Infine il "Don Antonio" locato in 309 W 50th St.

    Appassionato sostenitore dell'industria della pizza napoletana, Roberto è presidente negli Stati Uniti della PAF Pizza Academy Foundation, l'organo che insegna l'arte della pizza napoletana di 300 anni fa.

    In questo viaggio lo accompagna  la figlia Giorgia Caporuscio, spalla anche nel lavoro dell"Accademia, che prevede scuola della pizza napoletana in tutti gli Stati Uniti.

    Grazie a lei finalmente e' evidente quanto sia importante il ruolo delle donne nel mondo della vera pizza napoletana.

    Ma la vera rivoluzione di Roberto e' oggi nella proposta di una pizza popolare. Una pizza accessibile a tutti. Per raggiungere tutti. 

    "Se la pizza Margherita è nata come cibo del popolo, che all’epoca era povero, perché farla pagare cifre più alte e diverse da quelle di Napoli?" ci confida Roberto

    La Margherita della pizzeria Kestè è preparata con una farina di tipo 01, 00 e farina di semola: “E’ un’antica preparazione che si usava a Napoli nell’ ‘800. La rende più leggera e salutare.” - aggiunge poi Caporuscio - “mancava qualcosa, la pizza napoletana c’era, ma il prezzo era diverso. Sarò un pazzo ma questa è la mia idea.”

    La pizza popolare costa 5$, un prezzo molto sotto la media rispetto agli standard delle pizzerie napoletane di New York. Si possono scegliere tre tipi di pizza: la Margherita, la Marinare e la Masto Nicola con basilico, pecorino e lardo. 

    La pizza popolare può essere gustata presso la pizzeria "Kestè Pizza e Vino" di Bleecker Street e Fulton.

    L'opzione "delivery" non è prevista, ma è presente una variante della pizza gluten free.

    I prodotti utilizzati sono di provenienza italiana, uniti alla conoscenza decennale di Caporuscio acquisita tra l’Italia e gli USA.

    Una scelta che farà piacere ai napoletani, agli italiani, agli studenti che vivono qui ed a chiunque voglio gustarsi una vera pizza napoletana ad un prezzo ragionevole.

    Una scelta che avvicinera' molti alla pizza, tutti coloro che poi ai alla fine guardando il prezzo hanno optato per una pizza americana.

    Dunque chiunque la voglia mangiare non deve far altro che recarsi fa Kestè, nelle due location, e gustarsi una pizza buona, sana ed economica.

     

    Per tutte le informazioni ecco il sito ufficiale >>

  • Rosario Procino e Paolo Sorrentino
    Fatti e Storie

    La passione del calcio oltre i confini: Il Napoli Club NYC

    Il calcio, sin dalla sua nascita, ha rappresentato un qualcosa che va al di là della semplice concezione di sport.

    Parliamo di valori, emozioni, aggregazione e divertimento. 

    Chi non ha mai visto una partita di calcio almeno una volta della vita e ne è rimasto completamente inerme? Difficile.

    Il calcio conta milioni di tifosi, ognuno per una squadra diversa, che sia il club della propria città o la nazionale.

    In Italia la tradizione calcistica conta una storia di tutto rispetto: al Nord troviamo il Milan, l’Inter e la Juventus, al centro la Roma, la Fiorentina e la Lazio; al sud il Napoli.

    Quest’oggi vi vogliamo parlare proprio del team primo in classifica del sud Italia. Della città di Napoli e del suo cuore legato alla squadra.

    Pensate che secondo una ricerca commissionata a Nielsen, il numero dei tifosi del Napoli nel mondo è cresciuto smisuratamente: negli ultimi anni ha raggiunto la cifra di circa 35 milioni.

    Andando nel dettaglio, circa 4,6 milioni di tifosi azzurri sono in Italia, 5,1 in Brasile e 1,4 in Argentina. Ma aspettate: ben 7,4 milioni si trovano negli Stati Uniti!

    Ma sempre più napoletani sono costretti ad emigrare e molti di questi si muovono negli States.

    E cosa succede quando non si ha la possibilità di seguire la propria squadra del cuore nella propria città?

    Per rispondere a questa domanda siamo andati al Ristorante  “Ribalta” di Rosario Procino, dove si trova  il Napoli Club di New York City.

    Entrando nella location si può scorgere subito il clima tipicamente italiano, che dico 'campano', con ovviamente un forte richiamo per il sud.

    Nel giorno della nostra intervista a Rosario Procino, Presidente del club e socio-fondatore del ristorante, il Napoli giocava una partita di Champion’s League, la massima competizione calcistica europea, contro la Stella Rossa, squadra serba.

    Non è difficile immaginare l’atmosfera. I tifosi del Napoli accorsi erano davvero tanti, molti pur di vedere la partita sono rimasti in piedi godendosi una buona birra italiana e naturalmente una pizza napoletana.

    In questo clima di euforia abbiamo parlato non solo Rosario ma anche con Marco, un membro che si impegna a fare crescere questo club.

    Il club è nato nel 2010, un periodo di cambiamenti, ma la sua consacrazione definitiva arrivò nel 2013, anno dell’apertura di Ribalta.

    Anche la nomenclatura del club era diversa prima, come ci racconta Rosario: “All’inizio ci riunivamo in vari pub inglesi o irlandesi, col nome di Napoli Club Aurelio De Laurentiis, dato che il Presidente è sempre stato legato per motivi lavorativi agli Stati Uniti”.

    Il club conta circa 700-800 membri, di cui circa duecento residenti a New York e molto attivi.

    Tutto questo successo è avvenuto grazie anche ai social-networks, dove il club è presente sia su Instagram, Facebook e Twitter.

    La sensazione all’interno del locale è che i tifosi e i membri siano per la maggior parte napoletani, turisti o molti migranti.

    “Se la società ci conosce? Certo! Abbiamo dei rapporti e presto ci saranno delle novità, ma aspettiamo le cose formali per annunciarvele!” – ci dice Rosario con un sorriso in volto. Ama parlare del Napoli, potrebbe farlo per ore.

    Il Presidente Procino ci tiene a dirci che non solo i calciatori del Napoli calcio sono venuti a fargli visita nel corso degli anni (Ospina e Albiol i più recenti), ma che anche diversi giocatori italiani di altre squadre.

    La comunità italiana, ma soprattutto napoletana, è necessaria più che mai in una megalopoli come quella di New York, per tutte quelle persone che un po' per scelta e un po' per necessità si sono dovute trasferire qui: “Abbiamo creato una sorta di “piazza”, qui le persone si sentono come a casa. Oltre ad offrire ricette tipiche nella nostra cucina, organizziamo eventi musicali e sportivi”.

    Il futuro del Napoli Club NYC sembra sempre più roseo, anzi azzurro, con tante novità in arrivo. Il Presidente Rosario Procino è più che mai misterioso, strategico da grande uomo di marketing non solo per il suo locale, ormai notissimo, ma anche per tutto ciò che riguarda il Club Napoli e ci dice: “Stay tuned!”.

    Noi aspettiamo di sapere, è difficile che un tifoso (e non solo del Napoli) non abbia la curiosità di entrare almeno una volta per assistere ad una partita in quella che è diventata la pizzeria dello sport. 

    P.S Il Napoli ha poi vinto per 3-1 la partita. Abbiamo portato fortuna!

     

  • Arturo (Vinicio Marchioni) e Guido (Luigi Fedele) mentre praticano la loro passione: la cucina.
    Fatti e Storie

    Oltre la sindrome di Asperger: "Quanto basta" di Francesco Falaschi

    Parliamo della sindrome di Arsperger, conosciuta anche come SA. Si tratta di un disturbo pervasivo dello sviluppo, simile all’autismo.

    Tra i vari effetti però, non c’è la compressione dell’intelligenza, della comprensione e dell’autonomia. La sindrome è considerata un disturbo dello spettro autistico “ad alto funzionamento”.

    Ma quanto è difficile parlare delle diversità e dei problemi che le persone affette da SA devono affrontare ogni giorno? Occorre educare e di sensibilizzare all’argomento.

    Ed è quello che prova e riesce a fare Francesco Falaschi con il suo film intitolato “Quanto basta” proposto alla Casa Italiana Zerilli – Marimò (NYU) o occasione del NICE – New Italian Cinema Events.

    La trama racconta di Arturo (Vinicio Marchioni), uno chef talentuoso ma non più di successo, con una forte tendenza alla critica e alla polemica che hanno finito con l'emarginarlo. 

    I suoi problemi di controllo dell'aggressività lo hanno addirittura fatto incarcerare per rissa. Deve scontare la pena ai servizi sociali tenendo un corso di cucina in un centro per ragazzi autistici dove lavora Anna (Valeria Solarino). 

    Tra i ragazzi di cui si deve occupare Arturo c'è Guido (Luigi Fedele), un giovane che ha la sindrome di Asperger e una grande passione per la cucina. Arturo tratta Guido senza filtri, senza pietismo e in modo istintivo, alla pari, talvolta sbagliando. Ma di fronte alla "neurodiversità", che non è inferiorità, del ragazzo, Arturo tende a poco a poco a mutare il proprio comportamento e a ridefinirsi come persona. 

    Quando le circostanze lo obbligano ad accompagnare Guido a un talent culinario - manifestazione che Arturo odia - si crea un rapporto di amicizia e di fratellanza che cambierà la vita di Arturo e i destini di entrambi.

    La bravura degli attori è tanta, soprattutto quella di Luigi Fedele che ha saputo interpretare un ruolo molto delicato e difficile.

    Inoltre i dialoghi proposti dal regista sono molto autentici, senza necessità di mediazione.

    All’inizio Arturo usa un tono abbastanza aggressivo con Guido, trattandolo come un ragazzetto qualunque, ma si  instaura un rapporto di amicizia che si instaura tra i due.  Questo nonostante i modi talvolta bruschi ma i due protagonisti sono molti veri tra di loro. SI crea un legame sincero.

    Al termine del lungometraggio Stefano Albertini, Direttore della Casa Italiana Zerilli-Marimò e Francesco Falaschi, regista del film, hanno parlato con il pubblico dei diversi temi presentati all’interno della pellicola.

    E' sorto  un dibattito davvero costruttivo ed interessante.

    Innazitutto si è compreso che i malati di Asperger possono apparire distratti, poco empatici e insofferenti alle regole, in alcuni casi possono essere refrattari alle norme igieniche e avere difficoltà ad entrare in una relazione alla pari con gli altri, ma sono in grado di lavorare e soprattutto di comunicare verbalmente. La loro attenzione si concentra spesso su un unico interesse: quello del protagonista di Quanto basta, Guido, è la cucina. 

    Chi è affetto da SA, quindi, può comunque vivere il quotidiano attraverso azioni e pensieri in relazione ad altre persone. Questa Sindrome non condanna chi ne soffre, ma funge da stimolo, proprio come è successo al protagonista Guido.

    In conclusione possaimo dire che il regista mescola il buddy movie al road movie. La sua macchina da presa è al servizio delle emozioni. Il film è un invito alla semplicità, ai buoni vecchi valori che sono un balsamo per i nostri cervelli storditi dai ritmi frenetici della contemporaneità, riuscendo a sensibilizzare i fruitori a un tema così delicato come la Sindrome di Arsperger, presentata non come una condamma ma come uno strumento per dare il cento per cento nella vita come ci ricorda Guido.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

  • Maria Sole Tognazzi e suo padre Ugo Tognazzi
    Fatti e Storie

    Ugo Tognazzi protagonista al MoMa di New York

    L’arte non conosce misure, limiti e forme. Tra i vari volti dell’arte troviamo anche la comicità, l’umorismo e la satira. I più diffcili da comunicare.

    In Italia abbiamo avuto la fortuna di avere uno dei più grandi attori e comici del ‘900: Ugo Tognazzi.
    La sua caratura di attore lo ha reso protagonista della retrospettiva al Museum of Modern Art di New York dal titolo “Ugo Tognazzi: Tragedies of a Ridiculous Man,” dal 5 al 30 dicembre 2018, grazie anche all’Istituto Luce Cinecittà.

     

    Si puo' cosi' avere un ritratto dell’indimenticabile artista, attore, ma anche regista e sceneggiatore, attraverso 25 interpretazioni memorabili dirette tra gli altri da Marco Ferreri, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Dino Risi ed Ettore Scola.

    Istrione del cinema e figura leggendaria Tognazzi ha segnato insieme con Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Nino Manfredi, l’epoca d’oro del cinema italiano.

     

     L'Istituto di Cultura italiano ha organizzato un incontro con Maria Sole Tognazzi che ha raccontato anche del suo documentario “Ritratto di mio padre”, e del libro “Ugo Tognazzi: Story, style and secrets of a great actor.”

     

    Assieme alla regista Maria Sole Tognazzi anche Richard Peña, Professore di Film Studies alla Columbia University.

    La regista ha detto che il documentario le ha consentito di rincontrare suo padre. Racconta che la sua vocazione di regista è venuta solamente dopo, "quando lui non c’era più”.

    Ha ricordato poi con affetto anche il legame con Raimondo Vianello, fondamentale sia dal punto di vista umano che professionale per il padre Tognazzi.

    Il rapporto tra Tognazzi e il teatro è stato discontinuo: incominciò da giovane, ma poi lo abbandonò per riprenderlo solo in età più matura. Questo anche perché il cinema e la televisione erano due mezzi di comunicazione che potevano far esprimere un’artista in diversi modi.

    L'attore era anche un noto appassionato di cucina. Credeva che il pasto fosse non solo un momento di gola, ma anche di aggregazione, per poter passare del tempo di qualità con le persone a cui voleva bene.

    “Nostro padre non ci ha mai influenzato, anzi forse non desiderva che fossimo attori. Con Ricky ed i miei altri fratelli però, si confrontava spesso" - racconta Maria Sole.

    Poi un aneddoto che ha dell’incredibile.

    Ugo Tognazzi e il regista Federico Fellini avrebbero dovuto girare un film insieme, ma improvvisamente il regista si tirò indietro perché una cartomante gli avevo predetto che non avrebbe dovuto girare il film perché altrimenti sarebbe successo qualcosa di brutto. Fu allora che Tognazzi passò  dall’adulazione all’astio nei confronti di Fellini, anche se i rapporti poi si ripresero dopo diversi anni.

     

    Ad inaugurare il 5 dicembre la rassegna ci sarà proprio la figlia Maria Sole Tognazzi.

    "La Tragedia di Un Uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci"  valse a Tognazzi il Premio per la Migliore Interpretazione Maschile al Festival di Cannes del 1981.

    Un doppio omaggio per ricordare due personalità, due protagonisti assoluti: l’interprete e il grande regista scomparso il 26 novembre scorso al quale fu dedicata la retrospettiva al MoMA del 2010/2011.

    Tra gli eventi in programma, sempre il 5 dicembre, anche la proiezione del documentario diretto nel 2010 da Maria Sole Tognazzi dal titolo "Ritratto di mio Padre":

    “E' stata una sorta di ricerca, un modo per ritrovare lui e il rapporto che mi è mancato attraverso le testimonianze di tanti amici. Alcune cose mi sono mancate da piccola, ma oggi da donna, e da grande, mi quadra tutto. Faceva parte del suo modo di vivere i rapporti e del suo essere”.

    Quando Ugo Tognazzi è scomparso, Maria Sole aveva solo 18 anni e negli ultimi anni della sua vita il comico viveva in Francia.

  • Fatti e Storie

    La nevicata memorabile di Olivio Romanini

    Olivio Romanini, giornalista e scrittore italiano, lavora presso il Corriere della Sera ed è caporedattore della sezione bolognese del Corriere della Sera.

    Di origine parmigiana, ma cresciuto a Bologna, "ha calcio nel cuore", cosi ci dice.

    Da poco più di un mese è uscito il suo libro intitolato “Una nevicata memorabile” edito da Minerva. Ma questa volta non parla di calcio.

    Il tour promozionale lo ha condotto in giro per l’Italia, ma data la tematica e l’amore per la città di New York, Romanini ha presentato il suo ultimo lavoro anche al Piccolo Cafè di Manhattan.

    Nel libro infatti viene raccontato un viaggio che si conclude proprio in questo locale dell'Upper West Side, nel corso delle presidenziali americane e delle registrazioni della  trasmissione radiofonica italiana, “Caterpillar”.

    Romanini ci confida di amare profondamente New York. Ormai non conta neanche più le volte in cui è venuto. Il clima della Grande Mela lo travolge in maniera positiva. Probabilmente viene proprio da New York la maggiore ispirazione per il suo ultimo lavoro.

    Nel libro racconta di un viaggio per gli Stati Uniti rincorrendo le  "Presidenziali Americane".

    Si tratta di una storia narrativa dove, ci racconta Romanini, "E- presente anche una storia intima, personale che inizia con una 'nevicata memorabile' che ferma e costringe il protagonista (signor Manfredi)  a fermarsi in un posto di montagna in cui rimane intrappolato.”

    Ma non chiamatelo romanzo - dice l'autore -  è un vero e proprio viaggio quello di Manfredi che si snonda su due itinerari: quello intrapreso negli Stati Uniti nell’autunno del 2016 per seguire le elezioni presidenziali americane e una forzata permanenza in una casa di collina isolata e ricoperta di neve dopo un’eccezionale precipitazione (la neve, una delle passioni di Manfredi e dello stesso autore) che lo costringe a fermarsi, e quindi pensare e ripensare, ebbene sì, quale sia la direzione giusta da prendere nella vita: andare incontro esclusivamente ai sogni o a una vita giusta e autentica, ma necessariamente regolare?

    C’è tanto di Romanini all’interno del suo personaggio, il confine è labile, le sfumature sono richiamo l’uno per l’altro.

    Per l’appunto Pietro, Giulia ed Emma, figli di Romanini, sono anche i destinatari delle lettere scritte da Manfredi. Infatti l'autore ha usato la forma epistolare in questo suo lavoro, e ha scritto ai suoi figi. La struttura delle lettere non è casuale, come ci racconta l’autore: “Cercavo di spiegare ai miei figli un qualcosa, ma come al solito nessuno dei tre mi filava, così ho pensato che se scrivevo prima o poi mi avrebbero capito e ascoltato, e così nasce l’idea delle lettere.”

    Un legame quello di Romanini, ed anche di Manfredi, con la famiglia davvero forte.

    Alla presentazione la moglie, Emanuela Ocello e i suoi pargoletti citati in alto prima, erano fieri di essere lì a supportare lo scrittore come il marito e il  padre.

    Nelle centoventi pagine del libro si parla di Hilary Clinton, di cui Manfredi vede un murale con scritto “sometimes the king is a woman", e di Donald Trump con ironia e divertimento.

    Ma c’è spazio anche per le altre metropoli oltre New York come Miami, Washington e Philadelphia.

    Senza dimenticare l’indagine introspettiva nella casa di collina bloccata dalla neve: sogni giovanili, libri, dischi, film e tutto quanto fa educazione culturale e sentimentale.

    “Il libro nasce inizialmente come report giornalistico sulla base del viaggio che avevo intrapreso, poi con anche l’aiuto di Manfredi” - ha detto Romanini nel corso della presentazione – “si è trasformato in un qualcosa di più, un’eredità da comunicare ai lettori ed ai figli attraverso l’uso delle lettere.”

    “Spero che i lettori si riconoscano all’interno di questo libro attraverso le esperienze e le similitudine tra la vita di Manfredi e le loro, sarebbe una grande soddisfazione”.

    E in fondo, come dice Charles Finch, “Le due cose più belle, l’amore e la neve,  fanno sì che si guardi il mondo con occhi di nuovi puri.”
     

     

     

     

     

     

     

     

  • Arte e Cultura

    La Comunità di Sant’Egidio. L'Arte del vivere insieme

     

    La Comunità di Sant’Egidio è stata fondata nel 1968 a Roma. Oggi è attiva in 73 paesi e include più di 60.000 membri.
    La sua missione è quella di aiutare i più deboli e chi ne ha bisogno, attraverso un dialogo interreligioso e lavorando per ottenere e promuovere la pace.

    Il credo di questa comunità è che tutti noi possiamo vivere insieme aiutandoci, a prescindere dalle etnie e dalla lingua.
    Il suo campo d’azione va dal locale al globale.

    Tra i programmi più importanti c’è sicuramente “DREAM” che affronta il tema dell’HIV/AIDS in Africa.
    Inoltre, a tutela dei “bambini invisibili”, vi è “BRAVO”, una campagna che si batte per la registrazione civile e la cittadinanza.
    Ultimo, ma non per importanza, la campagna “Cities for Life”, che si lotta contro la pena di morte nel mondo.

    Al Consolato Generale d’Italia è stata allestita mostra intitolata “The art of living togheter - Exhibition”.

    Una galleria davvero speciale in onore anche dei 50 anni, compiuti proprio quest’anno, dalla Comunità.
    L’esibizione ha undici opere d’arte realizzate da artisti con diverse disabilità psichiche e motorie, ma parliamo pur sempre di grandi artisti.
    Tutto ciò è stato possibile grazie ai Labs Art, laboratori di arte contemporanea, del movimento degli amici.

    Le opere riflettono temi urgenti sulla nostra società come l’immigrazione, la solitudine e gli anziani.

    Le opere sono state esposte anche al palazzo di vetro, all’Onu.  La Comunità di Sant’Egidio si augura di poter realizzare mostra in diversi paesi, come ci spiega Mauro Garofolo, responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant'Egidio: “La nostra Comunità è presente in ogni Continente e oggi essere qui a New York, anche al Consolato Generale d’Italia, non fa che sancire il nostro legame con gli Stati Uniti”.

    Le opere presentate sono diverse e suggestive.

    “L’Africa spremuta” è quella che sicuramente attira di più i visitatori. Si tratta di un enorme spugna di colore blu che rappresenta l’Africa che, appunto come una spugna, viene deturpata di tutte le sue risorse.
    Un’altra opera degna di nota è quella del Salvador, in cui viene mostrata la storia dell’arcivescovo Romero ucciso più di vent’anni fa dalle “maras” e da uomini armati.
     

    Poi ancora spazio ad un altro quadro che racconta la storia del Mozambico, molto caro alla Comunità di Sant’Egidio per le attività di volontariato connesse ad esso, dove si vede il raggiungimento della pace raggiunta grazie alle trattative eseguite a Roma.

    Il quadro raffigura donne e uomini in fila per poter votare e quindi rivendicare i propri diritti dopo anni di guerra.

    Altro tema importante della mostra è quello dell’ascolto: attraverso una tela bianca, la parola “ascolto” viene ripresa più volte andando a comporre un vortice.

    Il che apre a una riflessione più profonda.

    Al giorno d’oggi tutti parlano, ma pochi ascoltano, o meglio, si limitano a sentire soltanto in maniera superficiale.
     

    Le opere sono state realizzate in base ad una riflessione comune tra gli artisti e i responsabili dei Arts Labs, mentre l’esecuzione e i vari tecnicismi sono state frutto del lavoro singolo di questi pittori così speciali.

     

    Gli artisti dal punto di vista umano hanno subito “una vera e propria crescita”, come ci spiega Garofalo che poi continua: “L’arte contemporanea e astratta permette loro di essere delle persone complete manifestando il loro “Io” interiore”.

    Per la cronaca, le opere possono anche essere acquistate, come già è capitato negli USA.

    Dopodiché abbiamo parlato con Andrea Partoli, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio a New York che ha sede da ben quarantotto anni: “Cerchiamo di rafforzare i rapporti tra gli Usa e l’Italia, tra Roma e New York, grazie anche all’aiuto del Consolato che ci ha ospitato stasera”.

    Partoli tiene anche a precisare che questo legame di amicizia nasce da una collaborazione avvenuta in passato: “Il consolato e il Console Francesco Genuardi ci hanno aiutato nel portare dei pasti cladi ai senza fissa dimora, cosa che facciamo ogni martedì. È stato un bel gesto che ricordo con piacere”.

     

    Le opere d’arte ci raccontano una storia, in questo caso quella di artisti, della Comunità di Sant’Egidio, davvero “speciali”.

    E il nostro compito è quello di ascoltare, sapete perché?

    Perché per vivere insieme abbiamo bisogno di regole.

    La prima regola è ascoltare.

    Tutti parlano.

    Parlare è semplice, ma chi ascolta?

    Finché ci saranno realtà belle come quella di Sant’Egidio, la mia mente e il mio cuore saranno sempre pronti ad ascoltarle.

     

     

  • L'altra Italia

    New Italian Migrations: in cerca di una nuova vita

    In un primo momento, il fenomeno migratorio italiano ha riguardato sprattutto l'Italia Settentrionale e solo dopo il 1880, anche il Mezzogiorno d'Italia.

    Pensate che secondo i dati dei registri di Ellis Island, gli italiani ammessi negli U.S.A tra il 1899 e 1931 sono stati circa quattro milioni: seicentomila unità dal nord della penisola e più di tre milioni dal sud Italia.
     

    Poi dal 1945 assistiamo a scenari diversi.

    "New Italian Migration to the United States", nasce da un’idea di Laura E. Ruberto e Joseph Sciorra.

    Laura E. Ruberto è una professoressa di studi umanistici presso il Berkeley City College nel Dipartimento di Arti e Studi Culturali, Joseph Sciorra è il direttore per i programmi accademici e culturali presso l'Istituto americano italiano John D Calandra al Queens College, City University of New York.
    I loro percorsi accademici li hanno portati ad analizzare le diverse connessioni tra i diversi periodi di migrazione italiana, riconoscendo così la necessità di parlare in modo più coeso del movimento italiano negli Stati Uniti. Da lì poi è nato, nel 2008, un progetto collaborativo che ha portato alla nascita del libro.
     

    Il testo è diviso in due parti: nel primo volume il focus è sulla politica e sulla storia.

    Partendo dal 1945 si propone di offrire un radicale ripensamento della periodizzazione storica convenzionale sulla migrazione italiana.
    Tutto ciò attraverso una rivalutazione del significato politico, sociale e culturale dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti dalla seconda metà del ventesimo secolo, fino ai giorni nostri.

    Questo lavoro interdisciplinare ha riunito un gruppo di studiosi, per esaminare i modi in cui gli italoamericani si mobilitarono contro le restrizioni dell'immigrazione, la politica del McCarran-Walter Act del 1952, i suoi effetti sulle donne e il funzionamento transnazionale dei mediatori politici.
     

    Nel secondo volume si presta attenzione sull’arte e sulla cultura. Viene intrapreso un viaggio su tutti gli aspetti che sono cambiati all’interno della società americana grazie alla presenza degli immigrati italiani dal 1945. L’arte italiana diventa un segno contraddistintivo di una nazione in cerca di riscatto. Nel volume trovate excursus su come la cultura italiana si ramifichi all’interno della società statunitense attraverso la radio, il cinema, la stampa e in seguito la televisione. Per non dimenticare la grande tradizione culinaria italiana esportata negli States.

    Nella serata evento a Casa italiana Zerilli-Marimò, i due curatori del libro hanno voluto presentare un quadro riassuntivo sugli aspetti più importanti del fenomeno migratorio italiano dal 1945 ad oggi, con riferimento alla terza generazione di immigrati.

    Innanzitutto cominciamo col dire che la maggior parte degli italiani appartenevano alla cosiddetta “working-class”, la classe lavoratrice per intenderci.
    Tutti erano “in cerca di una nuova vita”, cosa possibile negli U.S.A ora come oggi.

    Gli italiani si integrarono gradualmente e questo segnò un passo importante per la storia della società americana.

    Naturalmente gli usi e i costumi italiani e statunitensi si mescolarono dando vita a qualcosa di unico.
    Nel 1954 si contavano circa due milioni di americani con origini italiane, solo a New York.

    All'introduzione è seguito un focus singolo da parte dei due ideatori del libro.

    Josep Sciorra ha condotto uno studio basato su “La Grande Famiglia”, radio show di quindici minuti trasmesso dal 1948 al 1961 dalla WOV-AM, una stazione di New York con un ampio palinsesto in italiano. Il tutto era nato da un’idea di una compagnia di cibo italo-americano, la Progresso Italian Food Corporation, per una campagna di marketing. Il format era basato sulla trasmissione di audio di ogni tipo registrati dall’Italia, soprattutto quelli da parte delle famiglie rimaste in Italia e che tentavano di mettersi in contatto con i parenti oltre oceano.
    “La Grande Famiglia” arrivava anche a Miami, New Britain, Pasadena e Pittsburgh, e si quantifica che mezzo milione di famiglie parteciparono a questa comunicazione internazionale.

    Successivamente Laura Ruberto ha illustrato il fenomeno della migrazione attraverso la lente del cinema di Hollywood e in particolare sulla figura femminile.
    L’italianità, nei primi 15 anni dopo la seconda guerra mondiale, veniva espressa attraverso la sensualità femminile.

    Ruberto, nella sua presentazione, si è soffermata sul film “Teresa”, del 1951. Qui una giovane donna italiana arriva a New York, dopo aver sposato un soldato americano, per ricongiungersi a lui; la protagonista è poi costretta a lottare per tenere insieme un matrimonio nato durante la guerra, in un Paese che non è il suo.

    Grazie a questo e a molti altri esempi, la professoressa è riuscita a creare un filo conduttore di analisi rispetto a come Hollywood ha capitalizzato per decenni il ruolo delle celebrità italiane; e su come le imprese americane stavano guardando alla cultura italiana, grazie anche ai vantaggi fiscali.

    Come Pier Angeli, attrice di “Teresa”, anche molte altre attrici – tra cui Anna Magnani, Pier Angeli, Sofia Loren – furono trasformate in immigrate “ipersessualizzate”. Erano provocatorie, presentate umoristicamente come rifugiate di guerra, orfane o prostitute. “Sono vogliose sessualmente, esotiche”, e la loro sessualità è accentuata dai corpi e dai comportamenti lascivi. Ma allo stesso tempo, ciò che non bisogna dimenticare è la loro indipendenza. Le donne italiane rappresentate nei film del dopo guerra non si riconoscono nella comunità italo-americana che incontrano nel nuovo continente, e questo fa di loro dei personaggi rimangono, nonostante tutto, fortemente indipendenti. E questi connotati, insieme, “influenzano altamente il modo in cui gli italo-americani sarebbero stati visti nei decenni successivi”, ha terminato Ruberto.

    I due volumi contribuiscono alla crescita del sapere accademico riguardo alla conoscenza generale degli italo-americani.

     

     

Pages