Articles by: Domenico Logozzo

  • Copertina del libro ed il suo autore, Goffredo Palmerini
    L'altra Italia

    Per L'Aquila. Per una città coesa e solidale

    C’è come sempre grande attesa per l’uscita dei libri di Goffredo Palmerini, speciali annuari che acquisteranno valore nel tempo come giacimenti di memoria, di storie, di personaggi, di avvenimenti che riguardano la più bella Italia, dentro i confini e nel mondo. E’ prossima la presentazione – il 5 dicembre - dell’ultimo nato “Grand Tour a volo d’Aquila” (One Group Edizioni), a L’Aquila, presso l’Aula magna del Gran Sasso Science Institute. Alla sua Città, con la maiuscola, Palmerini riserva sempre la “prima” presentazione delle sue opere. E’ la Città che egli ha servito per tre decenni come amministratore civico, e che continua a servire con una sapiente comunicazione attraverso la stampa, in Italia e all’estero, mettendone in luce la storia, la tradizione culturale, le meraviglie artistiche e architettoniche che ne fanno una tra le città d’arte più belle e singolari d’Italia, e oltre. A Goffredo Palmerini, a qualche giorno dalla vetrina che illuminerà la sua ultima creatura - ormai siamo felicemente abituati a festeggiarne una ogni anno -, rivolgiamo alcune domande cui volentieri egli si presta a rispondere.

     

    A pochi mesi dal decennale del sisma che il 6 aprile 2009 provocò 309 morti a L’Aquila e danni ingenti a tutto il comprensorio, esce il suo nuovo libro "Grand Tour a volo d'Aquila", che nel titolo e nell’immagine di copertina fa esplicito riferimento al capoluogo abruzzese. «A ciascuno di noi aquilani - lei ha scritto - è assegnato una parte d’impegno nella ricostruzione morale ed etica della nostra città, perché la qualità delle relazioni umane presieda a riedificare il connettivo d’una comunità più forte, perché più unita nei suoi valori fondanti. È il modo migliore per ricordare ed onorare degnamente le 309 vittime del terremoto dell’Aquila». Tutto questo sta avvenendo? L’Aquila è effettivamente di nuovo in volo?

     

    In parte sì. Sono un ottimista e mi auguro il meglio per L’Aquila, la “nostra” Città, che è diventata universale dopo la tragedia di 10 anni fa. La ricostruzione privata sta andando avanti bene, quella pubblica incespica e mostra un qualche ritardo. Non mi nascondo che il terremoto del 2009, se da un lato ha permesso a tanti aquilani di dare il meglio di sé, per altri, certo una piccola minoranza, ha esaltato il lato peggiore, con miserie morali e comportamentali talvolta assai vicine allo squallore. Ecco perché l’attenzione, a mio parere, non deve essere rivolta alla sola ricostruzione materiale, ma soprattutto alla ricostruzione del senso di una comunità fondata sui grandi valori civici ed etici. Una ricostruzione morale che attraverso la cultura e l’impegno sociale, generoso e gratuito, ridisegni una Città coesa e solidale, meno abbandonata alle polemiche sterili e più protesa a costruire un futuro, con una visione di ampio orizzonte. In fondo, si tratta di recuperare al meglio lo spirito che nella propria storia plurisecolare ha fatto dell’Aquila la sua forza, la sua resilienza, la sua indole, persino la sua alterigia intellettuale. Ma ora è necessario che esca dal recinto privato anche la sua anima profonda, quella dei sui tanti cittadini orgogliosi della propria Città e disposti a portare - ciascuno il suo - in ogni campo il loro impegno positivo, l’intelligenza, la voglia di futuro, l’attenzione verso gli ultimi, il desiderio di partecipare ad un’impresa comunitaria ed identitaria fondata sui valori, più che sull’interesse. Ecco, se questo potrà essere il cammino che s’intraprende - e sarebbe in linea con i valori civili e spirituali che hanno animato la nostra storia civica -, avremo onorato al meglio le nostre 309 vittime, perché potremo avere L’Aquila migliore di com’era.   

     

    Nella prefazione Tiziana Grassi evidenzia come, con la sua fitta rete di collegamenti in tutti i continenti, lei abbia dato “il via a un’imponente gara di concreta solidarietà e generosità tra tutti gli Abruzzesi nel mondo e delle loro Associazioni in favore della popolazione aquilana e dei borghi colpiti dal terremoto”. Ci fu una risposta immediata e corale. Ma cosa l’ha maggiormente colpita in quei terribili giorni e quale è l’episodio che ricorda in maniera particolare?

     

    Sì, tutte le comunità abruzzesi nel mondo si mobilitarono subito in nostro aiuto, e catalizzarono anche le iniziative delle comunità italiane e persino degli Stati, com’è successo in Canada e Australia. Dalla notte del terremoto non lasciai l’Aquila neanche un giorno. Mi chiamavano anche di notte per sapere quale realmente fosse la situazione, talvolta non fidandosi di quanto veniva rappresentato sui mezzi di comunicazione. E nell’impossibilità di avere un contatto diretto con i vertici delle istituzioni (Comuni, Provincia, Regione) impegnati dall’emergenza post sisma trovarono in me un interlocutore affidabile ed attento, capace di fare da ponte con il sistema istituzionale, anche per i miei trascorsi d’amministratore pubblico. Fu così che iniziarono le loro visite programmate ai centri colpiti dal terremoto, li accompagnavo e prendevo gli appuntamenti per gli incontri. E si parlava di come, dopo l’emergenza, avessero potuto contribuire alla ricostruzione e per fare cosa. E’ stata davvero una gara di generosità che ha operato nel pubblico, ma anche verso il disagio privato. Tanti gli episodi significativi. Ma se ne debbo citare uno in particolare, ricordo quello che riguardò il presidente dell’associazione Abruzzesi in Friuli Venezia Giulia, messosi subito in moto per una famiglia bisognosa che aveva avuto la casa distrutta. Trovato un donatore che offriva la sua roulotte, si partì di notte con lui per portarla all’Aquila a consegnargliela. Ma gesti di generosità e vicinanza ce ne sono stati a migliaia. Abbiamo scoperto il volto più bello degli italiani, qui in patria e all’estero. 

     

    “Un volume che parla di emozioni e di sentimenti osservati, vissuti e condivisi a cui l’autore partecipa sempre intimamente, restituendo all’essere umano la sua centralità”, evidenzia nella Presentazione Hafez Haidar, scrittore e poeta di origine libanese, candidato al Premio Nobel per la Pace e per la Letteratura. La definisce “un vero missionario della cultura del dialogo, che si adopera incessantemente per tenere vivo il legame degli emigrati italiani (abruzzesi, in primis) sparsi nel mondo con la terra natia”. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo straordinario cammino sociale, culturale e umano di Ambasciatore dell’Abruzzo e della più Bella Italia nel Mondo?

     

    Il desiderio, quando lasciai il Comune nel 2007, di continuare in altro modo a servire L’Aquila - città che avevo avuto l’onore d’amministrare per quasi 30 anni - operando per farne conoscere bellezze artistiche e le singolarità oltre i nostri confini. Si è poi aggiunto l’Abruzzo, regione incantevole ma pressoché sconosciuta all’estero, e poi ancora l’Italia nella sua provincia più profonda, così ricca ed intrigante di bellezze artistiche, di colori e sapori, di costumi e tradizioni, che all’estero non arriva quasi mai, perché là vendono solo pacchetti turistici preconfezionati con solo una decina di luoghi, sempre gli stessi. Quest’opera di ambasciatore si avvale della straordinaria rete di giornali e network in lingua italiana nel mondo, sui quali scrivo con assiduità e frequenza, raccontando eventi culturali, viaggi, storie e personaggi. Ma anche di incontri con le nostre comunità all’estero, che vado a visitare, profittando in quelle occasioni di incuriosire e stimolare le terze e quarte generazioni della nostra emigrazione a conoscere le meraviglie della terra natale dei loro nonni e avi.

     

    Tiziana Grassi sottolinea in Prefazione al volume che “la salda tenuta della sua attitudine mentale e ideale ci introduce a uno dei fondamentali dell’esistenza: la fraternità, uno spirito di fratellanza peraltro richiamato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano oggi nella diffusione e nella pratica attuazione di questo principio fondamentale? E quale ruolo hanno i nostri emigrati?

     

    La conoscenza della nostra storia di popolo, particolarmente nell’ultimo secolo e mezzo dell’Italia unitaria, dovrebbe farci conoscere anche la storia dell’epopea migratoria italiana, di quei 30 milioni circa di connazionali che in poco più d’un secolo hanno lasciato il loro Paese per le terre d’emigrazione, la più immane diaspora nazionale che la storia abbia conosciuto. Conoscere questa parte di storia nazionale, ora poco o per niente conosciuta, ci aiuterebbe a capire meglio le migrazioni che ora ci riguardano, a superare pregiudizi e stigmi, quelli che tanti italiani hanno dovuto subire prima di potersi integrare nelle società di mezzo mondo. Ci aiuterebbe ad aprirci al senso dell’accoglienza e dell’apertura alle diversità culturali, che sono un valore e non un problema. Tiziana Grassi nella sua splendida Prefazione di questi temi ne dà un saggio molto efficace e profondo, lei che della materia è una studiosa di grande valore e prestigio. I nostri emigrati possono avere un ruolo importante, attraverso la prima generazione dell’emigrazione ancora vivente, nella testimonianza diretta delle loro esperienze verso chi voglia conoscere, indagare e raccontare la vera storia dell’emigrazione e non la patina soltanto.

     

    Nel suo libro ha ringraziato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il discorso tenuto lo scorso anno a Buenos Aires, perché ha “richiamato con nettezza lo straordinario contributo dato dai nostri emigrati allo sviluppo dei Paesi che li hanno accolti e all’onore che hanno reso e rendono ogni giorno all’Italia”. Quale passaggio di Mattarella l’ha maggiormente impressionata?

     

    Ho ringraziato il Presidente Mattarella per tutto quello che ha detto l’8 maggio 2017 a Buenos Aires. Non avevo mai letto o ascoltato da rappresentanti delle Istituzioni parole così chiare e documentate sulla nostra emigrazione, soprattutto così lontane dal rito della consuetudine e della retorica. Ecco perché gli scrissi quella lettera e perché quel discorso va letto e meditato. Per questo motivo ho pensato di pubblicarlo integralmente nel libro. Secondo me rappresenta un autentico discrimine nell’approccio al tema dell’emigrazione.

     

    I grandi valori del volontariato, dell’associazionismo culturale, dell’accoglienza senza barriere, sono stati e continuano ad essere costantemente al centro del suo impegno, prima come amministratore dell’Aquila e successivamente come giornalista e scrittore, sempre molto apprezzato. A testimoniarlo i tanti premi e attestati di benemerenza ricevuti in Abruzzo, in Italia e nel Mondo. Per Tiziana Grassi “il suo nuovo volume, come i precedenti, costituisce luogo privilegiato di riflessione su un’idea comune della natura dell’uomo, e su un sentimento di comunità, di condivisione che abbatte distanze e confini”. Un libro di grande importanza, dunque. Da far conoscere alle nuove generazioni e soprattutto promuoverlo nelle scuole. Nelle diverse conferenze e nei numerosi incontri che ha avuto in tutti questi anni in Abruzzo, in Italia e nel Mondo, quanto interesse ha riscontrato nei giovani verso questi argomenti?

     

    Sì, questo libro, come i precedenti d’altronde, può essere un utile strumento che avvicina alla conoscenza di queste tematiche, specie per i giovani, specie per le scuole. Credo che l’efficacia del messaggio risieda nel fatto che questi libri non si presentano come “saggi” densi di numeri e statistiche, ma ricchi di fatti e di persone, di testimonianze e di luoghi. Il fatto poi che ogni capitolo sia una storia a sé, apparentemente diversa eppure così compresa in un mosaico, dove ogni storia è una tessera, rende la lettura interessante e coinvolgente, lasciando semi di curiosità e approfondimento ulteriore. D’altro canto, dovunque io vada a parlare, che si tratti di conferenze o conversazioni, osservo un grande attenzione a questi temi, in tutte le fasce di età, ma soprattutto nei giovani, che spesso mai ne hanno inteso parlare. Alla fine degli incontri la cosa più bella è la maturata consapevolezza e l’orgoglio d’essere parte di un grande Paese fatto da 140 milioni d’italiani, 60 dentro i confini e 80 in ogni angolo del mondo.

     

    Ha scritto l’ottavo libro e promette che andrà ancora avanti. “Una serie che spero possa impegnarmi ancora negli anni, fin quando mi sarà dato tempo, giacché volontà e passione non mancano. D’altronde questo impegno lo sento come il piacere d’un colloquio, come un racconto ad amici di storie accadute, in un anno o poco più, di persone incontrate, di luoghi visitati. Tanti reportage e racconti di viaggio tra le meraviglie del Belpaese”. E viene fuori il volto della Bella Italia, che gli italiani dovrebbero amare ancor di più e tutelare e valorizzare meglio. All’estero ci invidiano le nostre bellezze. E ammirano il nostro Bel Paese. Qual è il complimento più bello per l’Italia e per gli italiani che ha avuto modo di leggere o di ascoltare in questi anni di Ambasciatore dell’Abruzzo e della più Bella Italia nel Mondo?

     

    All’inizio del nuovo anno comincerò a preparare il nono libro, per continuare questo colloquio con i lettori, in Italia e all’estero. Spero, mi auguro proprio che questo mio modesto impegno contribuisca a far crescere la fierezza d’essere nati nel posto più bello del mondo, che detiene i due terzi del patrimonio artistico dell’intero pianeta, che questo patrimonio dovrebbe essere tutelato e valorizzato, diventando il vero cespite su cui investire per lo sviluppo del Paese e dare un futuro a tutti i nostri giovani. All’estero ammirano l’Italia, le sue bellezze, lo stile italiano. Ma il giudizio più gratificante verso l’Italia e gli italiani è quello che riguarda il nostro “modo di vivere”, quello che in America è definito a meraviglia nella locuzione “Italian way of life”. Ecco, se sapessimo un poco mettere a frutto lo scrigno delle nostre ricchezze, il nostro futuro sarebbe già disegnato splendidamente. Governi permettendo.

     

    Buon proseguimento del "Grand Tour a volo d'Aquila" !

     

  • Antonio e Lucia Zampini nel 1975 a Providence, negli Stati Uniti
    L'altra Italia

    Tre secoli di storia in una famiglia molisana

     Con umiltà e intelligenza. Iniziamo a sfogliare le prime pagine dell’album della memoria di una famiglia di emigranti molisani con nonna Dori, che abbiamo conosciuto in uno dei più moderni locali di ritrovo degli Stati Uniti: una caffetteria della famosa catena “Starbucks”. Il casuale e interessantissimo incontro una mattina di maggio ad Issaquah, graziosa cittadina di quasi quarantamila abitanti, nello Stato di Washington, vicino a Seattle, dove ci trovavamo in vacanza io e mia moglie, ospiti di nostro figlio Francesco. “Scusate se mi intrometto. Sento che state parlando in italiano”, ci dice una gentile signora avvicinandosi al tavolo dove stiamo facendo colazione con tre amici originari del Sudafrica, che sono stati in Italia e hanno avuto una bellissima esperienza. Sono Eugene Olivier, Colleen Le Roux e la figlia Myrl Venter. In particolare Myrl, ci tiene molto ad imparare bene la nostra lingua. Per questo il nostro colloquio avveniva in italiano.
     

    Rispondo alla signora: “Io e mia moglie siamo italiani, originari della Calabria e viviamo da oltre 30 anni in Abruzzo”. Mi sorride ed in un italiano un po’ stentato, con tante pause, per ricordare le parole giuste, dice: “Io sono nata negli Stati Uniti, ma sono di origine italiana. Mi chiamo Dori Robinson, abito qui ad Issaquah dove ho insegnato nel liceo. Mia nonna Lucia Vigliotti, è nata a Campobasso; mio nonno Antonio Zampini è nato a Frosolone, in provincia di Campobasso, un paese noto per la produzione di coltelli, da dove sono emigrati nel secolo scorso quelli che poi sono diventati i principali produttori di coltelli degli Stati Uniti. Mia nonna è morta a 101 anni, mio nonno a 97. E di loro ho un magnifico ricordo”.

     

    L’Italia che si ama. Che si fa amare. Dori comincia così a sfogliare il bel libro dei ricordi. E fa piacere ascoltarla. E fa piacere questo suo amore per la terra d’origine. “I miei nonni, Antonio e Lucia, erano arrivati a Ellis Island nell'estate del 1906. Con tanti sogni. Molti li hanno realizzati. Mia madre mi parlava e mi parla ancora oggi della storia della famiglia. Ha 93 anni. E’ lucidissima. Viviamo in città lontane, ma ci teniamo costantemente in contatto. Spesso ci scriviamo con la posta elettronica. Mia madre sa usare molto bene le nuove tecnologie”. E poi fa questa riflessione: “Sulla mia famiglia c’è tanto da dire. Ma proprio tanto. Si potrebbe scrivere un libro di storia”. Dico a Dori: “E allora scrivila la storia della tua famiglia, come nel 1992 ha fatto il grande narratore italo-americano Gay Talese con il romanzo Unto the sons (pubblicato poi nell’edizione italiana con il titolo Ai figli dei figli). Intense pagine di storie familiari e del paese paterno, Maida, in provincia di Catanzaro”. Il viso di Dori si illumina: “Sì, sì lo farò”. E ci salutiamo con questa sua promessa.

     

     

    Promessa mantenuta. Rientrato in Italia, ricevo qualche giorno fa questa mail: “Molte grazie per avermi incoraggiata a scrivere la storia della mia famiglia. Volevo farlo da molto tempo. Mia madre, mia figlia ed io abbiamo ricordato in queste settimane la vita dei miei nonni in Molise e poi negli Stati Uniti. Mia figlia è scrittrice e insegnante di inglese a Pittsburgh, e le ho chiesto per questo di fare le opportune modifiche per rendere più scorrevole il racconto. Spero che tu possa fare una buona traduzione, e spero che ti piacerà leggere la nostra storia. Penso di stamparlo questo libro di memorie e di regalarlo per Natale ai miei sei magnifici nipoti”. Mi allega il testo in inglese della “Storia familiare Dal Molise all’America”, raccontata da Marie Zampini Hawkes (figlia di Lucia e Antonio Zampini); scritta da Dori Robinson (figlia di Marie). Editore: Jennifer Monahan (figlia di Dori). Inizia con il ricordare gli interessi anche culturali della nonna materna: “Mia nonna, Lucia Vigliotti, aveva avuto il privilegio di assistere alle grandi opere liriche e agli spettacoli che venivano messi in scena a Campobasso sul finire dell’Ottocento. La madre, Gaetana, era una sarta di talento, molto apprezzata, e spesso cuciva i costumi per i protagonisti. Nonna Lucia e le sue sorelle avevano il compito di consegnare i costumi in teatro. Le attrici, sapendo l'amore di mia nonna soprattutto verso le opere liriche, le riservavano sempre posti di riguardo vicino al palco”. Era una famiglia felice. “A Campobasso la vita era buona per mia nonna e le sue sorelle. L’attività andava bene. Sartoria affermata. Abiti ben fatti, buona clientela e le ragazze indossavano vestiti alla moda e in più avevano il privilegio del parrucchiere personale, che ogni mattina andava a casa loro per pettinarle”.

     

     

    Dalla felicità al dramma. “La vita è cambiata in un attimo per la giovane Lucia e per tutta la famiglia. Un tragico incidente sul lavoro. Suo padre, Luigi, famoso artista, perse la vita per il cedimento di un ponteggio sul quale stava lavorando per ultimare l’affresco del soffitto di una chiesa di Campobasso. Era molto apprezzato. Aveva eseguito lavori di altissimo pregio nei maggiori santuari del Sud Italia”. Lucia rimase profondamente segnata da quel terribile evento familiare. “Fu uno dei momenti più tristi nella vita di mia nonna. Perdere suo padre significava la fine della vita serena che aveva conosciuto. Fu costretta a lasciare la scuola, che tanto amava. Rimase a casa per cucire e occuparsi dei fratelli più piccoli, mentre Gaetana lavorava per sostenere la famiglia”. Tempi duri. Molto duri. Così “dopo diversi anni di lotta a Campobasso, Gaetana decise di spostarsi con i suoi figli in un piccolo villaggio di montagna, a Frosolone, vicino ad Isernia. Continuò a cucire costumi per le compagnie teatrali. Lucia e le sorelle, Nanina, Peppina, Amelia e Assunta la aiutavano nella confezione degli abiti e anche nella cura dei fratelli minori, Alfredo, Pasquale e Andrea. Andrea, il più piccolo, era stato colpito dalla polio. Anche se non poteva camminare, era orgoglioso di aiutare l'azienda di famiglia, realizzando con molta precisione e bravura i bottoni per ogni capo di abbigliamento. Purtroppo, a causa della sua malattia, Andrea è morto a 15 anni. Un altro grave lutto. Andrea è stato sempre ricordato con molto amore dalla famiglia”.

     

     

    Il passaggio dalla città al piccolo borgo non fu semplice. Tra i pregiudizi e le incomprensioni che inizialmente non aiutarono purtroppo l’integrazione. “Mentre molti a Frosolone erano stati accoglienti, alcuni non vedevano di buon occhio i nuovi arrivati, quelle ragazze attraenti della "grande città". Le ragazze locali criticavano le loro acconciature fantasiose, sussurrando che portavano i capelli "kinde le vicce"(come i tacchini). Alcuni erano certi che questi “intrusi” erano cittadini snob e che avrebbero guardato con distacco le persone del paese”. Ironia della sorte, tra le donne “poco contente” di questi nuovi arrivi, c’ era anche Concetta Zampini, la mamma di un giovane che sarebbe poi divenuto il marito di Lucia. “Lei e il mio bisnonno Giovanni, possedevano un bottega sulla strada principale del paese. Erano anche proprietari di una piccola fabbrica di coltelli, una delle tante che esistevano a quel tempo a Frosolone, dove si era formati tanti bravi artigiani poi emigrati negli Usa”. Alcuni di loro avevano fatto fortuna, mettendo a frutto quello che giovanissimi avevano imparato dai maestri artigiani del borgo molisano. Riprende Dori: “Antonio, mio ​​nonno, era un giovane intelligente e molto conosciuto. Aveva avuto la fortuna di frequentare la scuola del villaggio con gli altri ragazzi fino a 14 anni, quando l’aveva dovuta lasciare per fare coltelli con il padre. A scuola era apprezzato dagli insegnanti. Con orgoglio ci raccontava che non l’avevano mai fatto sedere sulla "cattiva sedia", un piccolo sedile inchiodato alla parete a cinque metri dal pavimento. Questo richiedeva non solo un eccellente equilibrio, ma anche una concentrazione ininterrotta, per evitare di cadere giù e riportare gravi lesioni o anche peggio! Antonio non era perfetto, e occasionalmente gli piaceva saltare la scuola per andare in un vicino stagno e catturare le rane per il pasto serale della famiglia. C’era poco da mangiare e la mia bisnonna non perdeva niente dei “contributi di cibo” che venivano da mio nonno”.

     

     

    Nella realizzazione dei pregiati coltelli “Antonio ben presto era diventato un artigiano esperto”. Lavorava sodo e “la mattina presto la sorella Teresa scendeva in officina per aiutarlo. Non c'era la corrente elettrica a Frosolone. Per azionare le macchine, Teresa spingeva con i piedi un pedale, che faceva girare la cinghia di affilatura. Teresa era una ragazza e le ragazze non era previsto che lavorassero in fabbrica, né che venissero obbligate a farlo. Ma siccome vedeva che Antonio aveva molto da fare, lei si era impegnata ad aiutare il fratello maggiore”. Senso di responsabilità e grande sensibilità. Ragazza forte, generosa e sfortunata. Purtroppo. Teresa, operata di appendicite, pur non essendo ancora del tutto guarita, fece l’imprudenza di andare con le sue amiche in pellegrinaggio nel santuario alla Beata Vergine Maria che si trovava in montagna. “Quando tornò a casa, si ammalò e morì in pochi giorni per una fatale infezione della ferita che non si era ancora rimarginata”. Una perdita dolorosa. “A mio nonno mancava molto Teresa. Diventava triste ogni volta che parlava della sua amata sorella”.

     

     

    Dori racconta come è sbocciato l’amore tra nonna Lucia e nonno Antonio. “Mia nonna e le sue sorelle aiutavano la madre anche nel lavare i panni presso la Fontana in pietra, che si trovava nel centro del paese. Un giorno, mentre mia nonna camminava sulla strada principale di Frosolone con il suo cesto di panni, nonno Antonio la vide dalla finestra della bottega e rimase colpito dalla sua bellezza. La leggenda famigliare dice che in quel momento Antonio promise a se stesso: “Sarà mia moglie, la compagna di tutta la mia vita". Quella fontana che ha fatto nascere il lunghissimo e solidissimo amore tra i nonni, Dori l’ha vista un secolo dopo, quando per la prima volta nel 2006 è venuta in Italia. “Avvicinandomi a piedi alla grande fontana nel centro di Frosolone, mi sono emozionata. Tanto, ma proprio tanto. Ho ripensato al lontano passato. Ai miei cari nonni. Sono sensazioni che è difficile descrivere, mettere su un foglio di carta. Vengono dal profondo del cuore. Diventano incancellabili. Restano per sempre dentro. Come l’accoglienza che ho ricevuto nel Molise, una terra che non avevo mai visto prima. Confesso di essermi sentita nella mia terra, come se fossi a casa mia”. Ricorda altre emozioni vissute in quel viaggio del 2006 con il marito. “Sul treno per Campobasso, vedendo dal finestrino quelle case e quei campi che avevo immaginato attraverso le storie che mi raccontava mio nonno, sono rimasta affascinata. Sognavo. Mi domandavo: Quella vecchia casa sarà appartenuta ai miei bisnonni? Forse la mia nonna ha giocato in quei campi?”

     

     

    Ritorniamo al racconto del fidanzamento dei nonni. “Come si usava allora, Antonio si fece aiutare da alcune amiche del paese per organizzare l’incontro con Lucia e con la sua famiglia. Si racconta che appena Lucia lo vide, decise che sarebbe stato l’uomo della sua vita. La madre aveva però un piano diverso: un ricco signore, più anziano, che aveva espresso interesse per la mia bella nonna. Gaetana disse alla figlia: "È meglio essere la bambola di un vecchio ricco, invece che serva di un giovane povero". Lucia rifiutò i tentativi della madre di organizzare il matrimonio. La vita in casa divenne difficile. Ma alla fine l'amore trionfò. Lucia e Antonio si sposarono nel dicembre del 1905 in una piccola chiesa di Frosolone”. Gli inizi furono difficili per via delle interferenze dei genitori di Antonio. “Vivere con la madre e il padre di Antonio non era il modo in cui Lucia sperava di iniziare il suo matrimonio. Concetta, la madre di Antonio, non era felice per la scelta del figlio. Continuava a spettegolare nel paese. Parole non belle nei confronti della famiglia della nuora. Quando mia nonna venne a saperlo ci rimase molto male, tanto che ci fu anche una piccola crisi familiare. Mio nonno era molto arrabbiato con la madre. Le disse che non doveva mai più parlare male della moglie, altrimenti non le avrebbe permesso di uscire di casa”. E dalle parole Antonio passò anche ai fatti. “Inchiodò la porta, ma per poco tempo”. Una “lezione” che diede i risultati sperati: “Concetta da allora fu più attenta e non fece più commenti negativi”.

     

     

    Qualche tempo dopo in casa Vigliotti arrivò la bella notizia. “Mia nonna aspettava un bambino. Con mio nonno cominciarono a pensare al cambiamento, ad una nuova vita, in un altro Continente. E non era una decisione facile da prendere. Antonio e Lucia sapevano che erano stati in tanti che avevano cercato un lavoro in America, ma erano tornati a casa solo con storie tristi. Tra questi il loro cognato Luciano, marito di Peppina”. Luciano in America non fece fortuna. La sua amarezza la affidò ad una canzone autobiografica, in dialetto molisano, dal titolo “Song of Luciano”. Iniziava così: “Pens 'a la mia moglia abbracciatta (Sto pensando all'abbraccio di mia moglie). E mii figli accompianiatta. (E la compagnia dei miei figli)”. Concludeva: “Pens a l'Italia bella (Penso alla bella Italia). Sanni io calzone, aggio torna’ (Anche se senza i miei pantaloni, tornerò)”. E Dori ora ricorda che Luciano “tornò a casa solo con gli abiti che indossava, grato, a quanto pare, di avere quelli”.

     

     

    Antonio era già stato in America ed il padre, che aveva vissuto a lungo oltre Oceano, oramai anziano, era rientrato in Italia e l’aveva incoraggiato a ripartire. Nel Sud in quegli anni c’era tanta miseria e non esistevano opportunità di lavoro tali da consentire di portare decorosamente avanti la famiglia. Il viaggio della speranza di Antonio e Lucia iniziò nel maggio del 1906. “Altri due figli del Molise, partirono dal porto di Napoli con tanti sogni. Viaggio attraverso l'Oceano Atlantico per costruirsi una nuova vita negli Stati Uniti”. Nei primi tre mesi furono ospitati da una zia di Antonio. Poi si trasferirono in un loro appartamento. Nell’inverno del 1906 è nata la prima figlia, Concetta, alla quale era stato dato il nome della nonna. Poi sono nati Giovanni, Luigi, Gaetana (Ida), Guido e Marie, la mamma di Dori. “Antonio, facendo affidamento sull’esperienza lavorativa di Frosolone, aveva trovato lavoro nelle industrie di coltelli di Providence, capitale dello Stato del Rhode Island. “Alcuni suoi amici compaesani avevano fatto fortuna dando vita anche a industrie di grande successo come Imperial Knife Company e Colonial Knife Company. Produzione qualificata, livelli altissimi, notorietà mondiale. Il figlio di un suo amico, William D'Abate, a Frosolone finanziò la realizzazione della rete elettrica. E per dimostrare la loro gratitudine, i molisani di Providence gli intitolarono una scuola”.

     

     

    Dori è orgogliosa di mamma Marie. “E’ stata la prima della famiglia a frequentare il college e laurearsi nel 1944. Sul finire degli Anni Quaranta incontrò mio padre Al, che si convertì al cattolicesimo per potersi sposare in chiesa nel 1950. L’anno dopo nacqui io, quindi mio fratello e poi mia sorella”. Una famiglia unita, nel rispetto delle tradizioni. “Ricordo gli incontri domenicali con le zie, gli zii e i cugini nella casa dei nonni a Providence. Deliziose cene con spaghetti, tanto sugo, polpette, carne di maiale, pollo, agnello e pane croccante. "Un dito di vino” anche per i più piccoli. Tante storie familiari che venivano raccontate in belle conversazioni e tante risate. E sempre una partita di baseball in TV!”. Ricorda il giorno del matrimonio con John. “I miei nonni, novantenni, sembravano ragazzini. Avevano ballato tanto. In pista solo loro, applauditi festosamente da tutti gli invitati. Tanta gioia. Sì, proprio una bella festa. Lacrime di felicità nel vedere quella dolce coppietta di anziani. A quell’età, tanta vitalità! Abbiamo avuto due figli, Jennifer e John, che ci hanno regalato la gioia di essere nonni felici di sei nipoti”. Durante l’incontro nella caffetteria “Starbucks”, Dori ci aveva spiegato perché aveva problemi nel parlare la nostra lingua. “A nessuno di noi figli mia madre ha insegnato l’italiano. Diceva che quando era bambina le coetanee la prendevano in giro perché parlava “una lingua diversa”. Perciò voleva che noi parlassimo solo in americano. E allora feci una promessa a me stessa: quando sarò grande imparerò l’italiano”.

     

     

    E così è stato. “Ho seguito le lezioni di italiano al Bellevue College, lo stesso che ha frequentato la vostra amica Myrl Venter”. Dori ha anche voluto coronare i lungo sogno di conoscere i luoghi molisani da dove erano partiti gli adorati nonni. E nel 2006 il sogno è divenuto: dall’America al Molise dopo essere stata a Verona, Firenze, Campobasso e infine a Frosolone. “Nel Molise tutti gentili e disponibili. Ci hanno accolto come vecchi amici. Nella coltelleria di Rocco Petrunti, fondata nel 1800, ho acquistato i regali da portare negli Stati Uniti. Mi sono commossa al pensiero che la famiglia di Rocco Petrunti aveva conosciuto la mia oltre cento anni fa”. E con quest’ultima emozione, ben custodita nell’album della memoria, è ritornata negli Stati Uniti” con l’Italia nel cuore. L’Italia ben raccontata dal giornalista e scrittore abruzzese Goffredo Palmerini, nel suo recente libro che porta questo magnifico titolo, omaggio “agli 80 milioni di italiani che amano il nostro Paese più di noi che vi abitiamo”. E la conferma ci viene da questa storia d’amore per le radici che ci ha raccontato Dori. Per questo, come ha scritto Palmerini, dobbiamo “amare, rispettare e trasmettere a chi verrà, possibilmente più bello e migliore, il nostro meraviglioso Paese”.

     

     

    *già Caporedattore TGR Rai

     

     

     

     

     

     

     

     

  • Arte e Cultura

    Bellezze, meraviglie e storie esemplari nel libro di Goffredo Palmerini

    Beautiful Italy!” Nel mio recente viaggio in America, quando dicevo che ero italiano, un sorriso illuminava il viso delle persone. E mi ripetevano: “Beautiful Italy!” Sì, è bella l’Italia! Mi è capitato tante e tante volte. E’ bello incontrare tante persone che ammirano la tua terra, la nostra terra. L’appartenenza. La fortuna di essere nati in un Paese che il buon Dio ha creato e fatto crescere con tanta bellezza. Che non dobbiamo dissipare. Ma conservare bene. Perché è un bene che tutto il mondo ci invidia. L’ho percepito, poi verificato, poi ho avuto una infinità di conferme. Camminando nei boschi, nei parchi, intorno ai laghi, nelle strade, entrando nei negozi di Seattle (Stato di Washington).

    E non solo. E ogni volta era per me una grande gioia. Giovani e meno giovani, americani, cinesi, giapponesi, tedeschi, sudafricani, brasiliani, gente di tutto il mondo, tutti sorridenti. Che ammirano l’Italia. Perché il nostro è un Paese che con le sue enormi bellezze, la storia, la cultura, la buona cucina, la cordialità e la genialità, dà un senso di serenità. Di gioia. E il mio cuore si riempiva d’orgoglio. L’Italia è amata. Amiamo l’Italia. Le nostre belle radici. Pensavo e ripensavo ai nostri tesori, che non sempre valutiamo e rispettiamo e valorizziamo. Come dovrebbe essere logico e giusto.

     

    Cosa che fa in maniera esemplare il giornalista e scrittore Goffredo Palmerini, che recentemente ha ricevuto il Premio internazionale di giornalismo “Gaetano Scardocchia” con Medaglia del Presidente della Repubblica. E’ appena uscito il suo ultimo libro “L’Italia nel cuore” - Sensazioni. Emozioni. Racconti di viaggio (edizioni One Group). 352 pagine di narrazione, con storie coinvolgenti e 276 belle immagini. Libro d’amore per l’Italia e di gratitudine per gli italiani all’estero che con la loro intelligenza, caparbietà, genialità e cultura tengono alto il nome dei paesi, delle città, delle regioni da dove sono partiti con la speranza di poter concretizzare idee e progetti purtroppo difficilmente realizzabili nei luoghi d’origine. Scrive Palmerini: “Tutti i miei libri, di cui ad altri è dato giudicare la forma e la scrittura, sono densi di amore e passione per le cose belle dell’Italia e degli italiani, per il nostro meraviglioso Paese. Che dobbiamo amare, rispettare e trasmettere a chi verrà, possibilmente più bello e migliore. Noi, nel nostro piccolo, rendiamo il nostro contributo”.

     

    Il libro verrà presentato a L’Aquila mercoledì 21 giugno nell’Aula Magna del Gran Sasso Science Institute. Dopo il saluto del rettore, prof. Eugenio Coccia, interverranno Luisa Prayer, docente del Conservatorio “A. Casella” e direttore artistico dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese; Carlo Fonzi, presidente dell’Istituto Abruzzese di Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea; Franco Ricci, docente di Arte e letterature Moderne all’Università di Ottawa(Canada); Francesca Pompa, presidente della casa editrice One Grup. Modererà gli interventi il giornalista e scrittore Angelo De Nicola. Palmerini ha dedicato questa sua ultima fatica al fratello Corradino. “Un grazie affettuoso a Corradino per il suo scritto sulla Storia degli Alpini. Un ringraziamento che si tinge di tristezza per l’immatura sua scomparsa, avvenuta il 4 novembre 2016. Ma anche di cristiana speranza che egli sia ora insieme a tutti gli Alpini “andati avanti” nel Paradiso di Cantore, laddove la sua generosità e il bene seminato a piene mani gli hanno meritato un posto in prima fila”.

     

    Palmerini ci consegna un’altra preziosa opera “da leggere e rileggere” come ho scritto lo scorso anno in occasione della presentazione del libro “Le radici e le ali”. Pagine di storia e di cultura. “Ero presente, all’Università di Teramo, insieme a un folto pubblico - scrive nella presentazione la prof.ssa Luisa Prayer - il giorno in cui Elio Di Rupo è stato insignito della laurea honoris causa. Ero presente alla sua bellissima lectio, che è rimasta nella mia memoria come altissimo ed emozionante momento di consapevolezza rispetto ai principi e ai valori che ci fanno dire: siamo europei. Ritrovo qui, nel libro di Goffredo Palmerini, che mi ricordo salutai con gioia nell’Aula magna quella mattina, tutta la lectio di Di Rupo: meraviglioso poterla rileggere e davvero confortante sapere che grazie a Goffredo essa verrà conosciuta da moltissimi che non erano lì con noi quella indimenticabile mattina”.

     

    La conoscenza, la diffusione in tutto il mondo, l’ottimismo, la capacità di raccontare con lucidità l’Italia dentro e fuori. Tutto ciò si coglie perfettamente sfogliando le pagine del libro che lo scrittore ci ha cortesemente fatto pervenire nella versione digitale, in attesa di poter toccare con mano ed apprezzare il profumo dell’inchiostro (sì, l’inchiostro un… profumo che per tanti anni ha accompagnato il mio cammino giornalistico nel mondo della carta stampata, prima di approdare alla Rai, ma il primo amore non si scorda mai…), dicevo il profumo dell’inchiostro dell’elegante edizione cartacea e ammirare le tante belle foto scelte con molta cura. Ambasciatore dell’Aquila, dell’Abruzzo e dell’Italia nel mondo. “Goffredo è un testimone avido di positività - sottolinea ancora la prof.ssa Prayer - è un narratore di storie esemplari che hanno come protagonisti quegli italiani e quelle italiane che hanno vissuto la condizione di migranti e emigrati come una opportunità, e grazie al loro impegno e al loro talento hanno vinto una sfida difficile ma importante. È innamorato delle storie che racconta, delle persone che incontra”.

     

    Amore che trasmette al lettore. E lo coinvolge. E lo spinge a leggere. Ed emoziona. Come evidenzia nella prefazione la prof.ssa Carla Rosati. “Quando prendo tra le mani un libro di Goffredo Palmerini e inizio a leggerlo, non posso non emozionarmi perché ne conosco già il protagonista: l’Abruzzo, nostra comune terra di origine. Non è di sé che vuole parlare Goffredo, infatti non si mette in primo piano e non indulge nemmeno a riferimenti personali o autobiografici se questo non è funzionale al racconto e soprattutto se non serve a narrare quello che gli sta più a cuore: l’Abruzzo appunto e gli abruzzesi con le loro storie di vita”. E con l’Abruzzo nel cuore “ci prende per mano e ci accompagna in giro per il mondo”. E’ coinvolgente. “Annota con finezza di scrittura le sue sensazioni ed emozioni, descrivendo luoghi, paesaggi, persone” tanto che “il lettore ha l’impressione di stargli accanto e di viverle con lui”.

     

    Un libro che come gli altri sei scritti dal 2007 ad oggi merita di essere nelle biblioteche di tutte le scuole dell’Abruzzo - e non solo - perché serve effettivamente a capire la realtà attuale, con testimonianze del passato che si proiettano sul futuro. Scritti che hanno valore storico, culturale e anche sociale. E voglio perciò qui ricordare le parole di papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali. “La comunicazione, i suoi luoghi e i suoi strumenti hanno comportato un ampliamento di orizzonti per tante persone. Questo è un dono di Dio, ed è anche una grande responsabilità. Mi piace definire questo potere della comunicazione come “prossimità”. L’incontro tra la comunicazione e la misericordia è fecondo nella misura in cui genera una prossimità che si prende cura, conforta, guarisce, accompagna e fa festa. In un mondo diviso, frammentato, polarizzato, comunicare con misericordia significa contribuire alla buona, libera e solidale prossimità tra i figli di Dio e fratelli in umanità”.

     

     * Domenico Logozzo: Giornalista e Caporedattore TGR Rai

  • Fatti e Storie

    8 marzo. Nonna Caterina, 104 anni e viva la civiltà contadina

    Nel libro-inchiesta “Donne e industrie nella provincia di Reggio Calabria”, 110 anni fa ne esaltava il ruolo fondamentale per “una nuova industria che potrebbe ben sorgere e prosperare, là dove, in condizioni peggiori, ha potuto fiorire l’antica”. Intraprendenti, forti, laboriose, coraggiose.
     

    Ed anche in questo 8 marzo 2016 la mente torna ai luminosi esempi delle donne calabresi del primo Novecento. Come la nonnina di Gioiosa Jonica Caterina Papandrea, che il 4 aprile prossimo spegnerà 104 candeline.

    Una vita non facile la sua. Duro lavoro nei campi. Cinque figli: Rosa, Maria Grazia, Rocco, Antonio e Salvatore Martino. Purtroppo Rocco e Salvatore sono morti in due tragiche circostanze. “Lavoro e guai. Se raccontassi la mia vita…”. E fa un gesto con la mano accompagnato dallo sguardo come ad indicare il lontano passato, che nella sua mente è sempre lucidamente presente.

    Le chiediamo di raccontare, di sfogliare l’album della memoria. “E che debbo dire?” Con l’interrogativo riaffiora nell’ultracentenaria la riservatezza alla quale le ragazze di un tempo venivano educate dalle mamme. “I fatti vostri teneteli in famiglia. Non raccontateli in giro. A nessuno”. Nonna Caterina si passa la mano sulla fronte. Chiude per un attimo gli occhi e poi con voce lenta, intrisa di forte commozione, decide di aprire il libro dei ricordi iniziando con un confidenziale e famigliare “caro nipote mio”. 

    E poi: “Tante storie. Non so proprio da dove iniziare. Quante ne ho viste, quante ne ho passate. Ho cominciato a lavorare in casa da bambina. Appena più grandicella aiutavo i miei genitori nei campi. A 22 anni mi sono sposata. Lavoro in casa e in campagna. Poi la guerra, mio marito militare, lontano per 8 anni, prigioniero in Albania. Sola, con tre bimbi piccoli: Rosa, Maria Grazia e Rocco”. Sofferenze e paure affrontate con coraggio. 

    “Raccontategli quel giorno che siete salita sulla quercia e non riuscivate a scendere…”. Il suggerimento con l’uso del rispettosissimo “voi”, arriva dalla figlia Maria Grazia, che il 26 marzo compie 78 anni e che vive con il marito, il notissimo maestro calzolaio Rocco Totino,92 anni, nel centro di Gioiosa Jonica. Maria Grazia Martino continua ad occuparsi della campagna, curandola personalmente.  

    “No, la terra non si deve abbandonare. Ora ci sono le comodità: la strada, guido la macchina, ho il cellulare sempre con me. Oggi ho piantato venti chili di patate”. All’invito della figlia gli occhi della nonnina si inumidiscono. “Eravamo negli anni terribili della guerra. Vivevamo nella contrada Perru, lontana dall’abitato di Gioiosa Jonica”. Praticamente nell’isolamento totale. Non c’era l’acqua, non c’era la luce, non c’era la strada. Tanta miseria e 3 bimbi da sfamare”.

    E ci fu un giorno in cui si trovò senza più legna. Non poteva accendere il fuoco per cucinare. Si arrampicò su una quercia. “Tagliai e buttai giù tanti piccoli rami”. Quando i figli le dissero “Mamma questi bastano, ora puoi scendere”, guardò giù e fu presa dal panico. Era salita troppo in alto. “Ho avuto paura. Dio mio cosa faccio? Aiutami tu! e mi misi a piangere. Disperata. Non riesco a scendere, non riesco a scendere! urlavo”. Ma nessuno poteva sentire, nessuno la poteva aiutare. 

    I bambini erano troppo piccoli per fare qualcosa. “Anche loro incominciarono a piangere: Mamma scendi,scendi! Immaginate voi che momenti brutti”. Mamma Caterina trovò il coraggio di affrontare la discesa. “Abbracciai il tronco. Centimetro dopo centimetro, scivolai lentamente. Ce la feci! Quando misi i piedi per terra scoppiai a ridere. Anche i bambini si misero a ridere”. Lieto fine. “Portammo la legna in casa; accesi il fuoco e cucinai”. I tre bimbi anche quel giorno ebbero un piatto caldo. E fu festa nell’umile casetta di mamma Caterina, un nido d’amore, dove tre bimbetti aspettavano con ansia il ritorno di papà, che in Albania si rigirava tra le mani la foto di famiglia che gli era stata mandata da Gioiosa Jonica. E’ la bella foto degli affetti. La figlia Maria Grazia ce la fa vedere. Un prezioso scatto degli anni Quaranta, custodito gelosamente. 

    Nonna Caterina ricorda ancora la grande paura provocata dall’aereo che, per un guasto agli strumenti di bordo, nella notte del 21 marzo 1942 si schiantò contro la montagna, in località Prunia, non lontano da dove abitava con i suoi tre bimbi. “E’ passato bassissimo proprio sulla nostra casa”. Morirono tutti gli occupanti del velivolo militare. “Ricordo come fosse oggi. Un grande bagliore. Una cosa tremenda, che non si può dimenticare”, dice la figlia Maria Grazia, che allora aveva 8 anni. Aggiunge: “Tante persone della località Prunia scapparono e vennero a casa nostra. Mia madre accolse tutti con grande affetto”. Un’altra significativa testimonianza della solidarietà del mondo contadino.

    “I servizi non erano in casa e nel buio della notte andavamo fuori. Era così in quei tempi”, dice ancora Maria Grazia. “Una sera ero con mia sorella Rosa che ha visto qualcosa di strano. “Mamma ci sono due “lumere” (lucette) nel buio! Vieni, vieni a vedere”. Mia madre arrivò immediatamente. Aveva infatti capito che un lupo si stava avvicinando a noi. Ci prese in braccio e ci portò in casa. Chiuse bene la porta, prese il fucile, salì su una sedia, tolse una tegola e si mise a sparare per aria per far andare via il lupo. L’indomani trovammo tutte le galline uccise”.

    Donna forte, con un grande cuore. Mamma Caterina andava a prendere l’acqua alla sorgente. Sentieri pericolosi. Tanto cammino a piedi. Tanta fatica con la pioggia o sotto il sole cocente. Per prendere fiato, le contadine ed i contadini diretti in montagna si fermavano sempre nello spiazzo attiguo alla casetta della famiglia dell’ultracentenaria. Stanchi e assetati. Ricorda Maria Grazia: “Mia mamma dava da bere a tutti. Dopo anni ho incontrato tante persone che si erano dissetate a casa nostra. Mi hanno detto: “Abbiamo pensato e continuiamo a pensare sempre con gratitudine alla bontà, alla generosità di tua mamma. Si privava dell’acqua che aveva faticosamente portato a casa per darla a noi”. Mi hanno pure detto di sentirsi in colpa. Come se avessero approfittato della bontà di mia mamma”.

    Donna di fede. E’ felice che uno dei tantissimi nipoti, Rocco Agostino, si è fatto prete. “Ha fatto una cosa buona. E’ venuto a trovarmi con il vescovo di Locri mons. Francesco Oliva e con padre Michele. Mi ha fatto tanto piacere parlare con il vescovo. Una brava persona”. La fede l’ha aiutata a risollevarsi da tante avversità. I grandi dolori per la tragica morte di due figli e i problemi di salute. “Sono stata operata di ulcera, mi sono fratturata la gamba e il femore… Per due volte i medici mi hanno “licenziata”, mi avevano detto che non c’era più nulla da fare. Grazie a Dio sono ancora qui”. Da qualche tempo è costretta a letto per le conseguenze di una caduta. Spera sempre in un nuovo miracolo: “Vorrei poter ritornare a camminare. Ci sono tanti che hanno superato i 100 anni e camminano bene”. 

    Non lo dice con invidia ma con ammirazione. Perché lei è una donna che ha sempre pensato al bene comune e non egoisticamente al proprio tornaconto. La nonnina di Gioiosa Jonica ci ha raccontato tanto altro ancora. Una lunga, commovente, affascinante lezione di vita. Un libro di sofferenza e saggezza e voglia di fare. Mai un segno di cedimento e di rassegnazione. Un’altra grande lezione che ci consegna la civiltà contadina.

    La Donne umili della storia scritta con i fatti. Da raccontare, far conoscere e spiegare alle giovani generazioni. L’hanno fatto illuminate donne di cultura come Clelia Pellicano che agli inizi del Novecento scrisse così delle calabresi: “Alla definizione che diede di esse il Courier: Noires dans la plaine; blanches sur les montagnes; amoureuses partout” aggiungerei quell’aggettivo di “laboriose” che tanto le onora, e darei loro uno dei primi posti fra le belle, utili, rigogliose piante femminili (sebbene men coltivate), di cui il giardino d’Italia si adorna”. 


    *Domenico Loggo lavora come Caporedattore TGR Rai 

  • Fatti e Storie

    Mia Nonna

    Oggi è la festa dei nonni. Sono stato un bambino fortunato, un papà felice, ora nonno felicissimo. Ho avuto la fortuna di crescere con l’esempio e i buoni consigli di nonna “Mara Tiresa”, come affettuosamente la chiamavo quando ero bambino.

    Mi ha dato tanto. Le sue radici, innanzitutto. Radici fortissime. Mi hanno fatto crescere con
    l’orgoglio delle origini. Che conservo. Gelosamente. Mia nonna era una donna forte. Straordinariamente dolce. Comprensiva. Mi affascinavano i suoi racconti di bambina, che nei campi doveva aiutare i genitori, che dava da mangiare alle galline, che nel pollaio andava a raccogliere le uova e che accudiva anche il paziente asinello che andava a trovare nella stalla. Non c’erano giocattoli.

    Leggendo qualche tempo fa uno scritto di Corrado Alvaro dal titolo “Il nipotino”, pubblicato dalla Stampa il 18 novembre 1927, ho ripensato a mia nonna e a quello che mi diceva negli anni Cinquanta. Scriveva Alvaro: “Nella stalla gli occhi dell'asino si spalancarono su di noi come occhi dell'oscurità.

    Cesarino rideva e batteva le mani. Salì sulla groppa della bestia che seguitava a ruminare accosciata sulla paglia, e fece proposito di molti viaggi: Io credo, diceva, che abbiamo fatto bene a venire qui. Non pensava più di ripartire, ma rideva di un riso nuovo, il riso elementare dei ragazzi dei campi, aperto, grosso, senza ragione, che non si sa di dove nasca se non dalla felicità di trovarsi in un mondo dove i giocattoli sono animati da un soffio di vita”.

    Un soffio di vita. E debbo dire che io mi divertivo tanto da mia nonna. Aveva ancora le galline. Ed era bello correre sui campi, all’aria aperta. A volte erano stati appena zappati e seminati. Quindi “vietati”. Ma la gioia era tanta che il divieto spesso lo ignoravo. Cosa vuoi che sia una sgridata od un ceffone. E vai, di corsa, a pieni polmoni, felicemente! Mia madre mi sgridava. E qualche volta arrivava anche qualche ceffone. La nonna, no. “E’ cotraru, fallu u ioca” (E’ un bambino, fallo giocare).

    “Mara Tiresa” tutta la vita ha lavorato nei campi. Me la ricordo con la schiena piegata in due, le mani segnate dalla fatica. Il volto sempre sereno. Non l’ho mai sentita lamentarsi. Dalla bocca di mia nonna non è mai uscita una parola che non fosse d’incitamento per chi era in difficoltà e di elogio per chi aveva fatto bene. Non sapeva cos’era l’invidia. Sapeva cos’era il rispetto. E sapeva cos’era il bisogno. Dava a chi non aveva. Non si è mai lasciata prendere dallo sconforto. Lutti gravissimi. Ha perso un figlio nella Prima Guerra Mondiale, ha avuto tre figli con gravi problemi di salute, è rimasta vedova con otto figli da crescere (quattro femmine e ad ognuna di loro ha preparato anche la dote “obbligatoria” a quei tempi per le ragazze che si dovevano sposare).

    Mio nonno era morto di crepacuore negli anni Venti. L’alluvione aveva fatto straripare il torrente Cafia. Le acque tumultuose avevano devastato tutti i terreni circostanti. Il florido campo ben coltivato da tutta la famiglia dei miei nonni completamente distrutto. Alberi sradicati. Pietre su pietre. Niente era più rimasto. Le fatiche di un anno spazzate via. Appena mio nonno si è affacciato sull’uscio di casa ed ha visto quello scempio ha avuto un urlo di rabbia e poi si è accasciato a terra. Il suo cuore non ha retto.

    Mia nonna con l’aiuto di tutta la famiglia quel terreno l’ha riportato di nuovo ad essere produttivo. E’ stata costretta a far ricorso all’aiuto di altri contadini, che pagava alla giornata. E tra questi per lungo tempo c’è stato anche il padre del giovane Francesco Logozzo che sarebbe poi diventato suo genero, sposando la figlia Giuseppina, mia madre.

    Il vasto terreno agricolo si trovava nel cuore del paese. Era di proprietà del barone Macrì. Mia nonna, colona, morta ultranovantenne, vi era rimasta fino a quando l’amministrazione comunale non decise di costruire su quel terreno il nuovo edificio delle scuole elementari. Andò via senza ricevere neanche una lira di indennizzo. Mio padre insegnava nella Scuola di Avviamento Professionale ed era al vertice del comune. Era stato lui a voler dare ai ragazzi di Gioiosa Jonica finalmente un edificio scolastico. Era stato lui in pratica a far andare via mia nonna dalle terre che aveva coltivato per decenni. Mia nonna neppure in questo caso si lamentò. Lei, analfabeta, aveva mandato a scuola soltanto l’ultima delle figlie, mia madre. Fino alle elementari.

    Venne a vivere per sempre a casa nostra con mia zia Giuditta, avendo dovuto lasciare la casa colonica demolita per costruire il nuovo edificio scolastico. Negli ultimi anni rimaneva soltanto fino al tardo pomeriggio nella casa colonica e poi veniva a dormire con noi. E questo per non farla rimanere sola di notte, sia per l’età avanzata che per qualche problema di cuore. Qualche centinaio di metri dividevano casa nostra dal terreno coltivato dalla nonna. Per me fu una grande gioia. Nelle sere d’inverno ci sedevamo tutti intorno al braciere. Io, i miei fratelli Nicola, Pompeo e Vici l’ascoltavamo. Con piacere.

    Quella sua voce calma, quel suono poetico, quell’incisività del dialetto gioiosano che purtroppo non c’è più. Sogno spesso la notte nonna “Mara Tiresa”. Sogni che mi fanno ritornare bambino. Ma mi fanno anche riflettere e mi aiutano. Da lei ho avuto grandi lezioni. La ricchezza dei valori della cultura contadina. Esempi. Fatti concreti. Prove difficili, superate con l’umiltà della ragione. La costanza e la coerenza. Lezioni che mi sono servite. E mi servono ancora. “Mara Tiresa” mi ha dato tanto amore. L’ho amata e la amo tanto.  

  • Fatti e Storie

    Locri. La nostra terra ha bisogno di una più intelligente politica





    GIOIOSA JONICA - “Il mio compito non è politico. Ma credo che la nostra terra abbia bisogno di una più intelligente politica di sviluppo e programmazione”. Ad affermarlo  è  mons. Francesco Oliva, vescovo calabrese di Locri-Gerace, in una intervista che appare nel numero di giugno del giornale della diocesi  “Pandocheion. Casa che accoglie”, diretto da Giovanni Lucà. “I problemi del territorio sono tanti e necessitano di progetti di ampio respiro”, ha aggiunto mons. Oliva, affermando che “le nostre  gravi povertà necessitano l’impegno di tutti. Non si può stare a guardare e neanche ci si può attendere la soluzione dagli altri, piangendosi addosso. Ognuno deve fare la sua parte”. Il vescovo invita tutti a partecipare al processo di cambiamento, per una programmazione dal basso, direttamente dal territorio. “Non possiamo pensare che i nostri problemi possano essere risolti da politici esterni. Certo qualche buon commissario aiuta a risolvere certi problemi. Ma non ci si può cullare. Sono convinto che nella nostra terra una maggiore coscienza cooperativistica possa essere di grande beneficio”.



    L’intervista a mons. Oliva è inserita nella pagina di “approfondimento” sulla nascita dell’Unionedei  comuni della Valle del Torbido. Il consiglio dell’Unione dei sei comuni (Gioiosa Jonica, Mammola, Marina di Gioiosa Jonica, Martone, Grotteria e San Giovanni di Gerace) ha recentemente eletto presidente l’arch. Antonio Longo. Per il  neo-presidente “è una scommessa del territorio i cui risultati non possono essere raggiunti in breve tempo ma se, come è stato manifestato in vari incontri istituzionali, la volontà è quella di perseguirla con convinzione, i frutti non dovrebbero tardare ad arrivare. Per adesso l’Unione sicuramente è la vera novità in questo segmento di terra calabra, che si piange sempre addosso sperando che la soluzione dei nostri problemi dipenda solo da un altrove. Noi vogliamo che la nostra storia non ce la raccontino gli altri: e questa è un’esortazione per le nuove generazioni”.



    E a questo proposito il vescovo ha detto: “Sono convinto che di fronte ai problemi del territorio occorre fare rete, oserei dire “fare partito”, creare convergenze, unirsi tra comuni e per aree d’interesse. I campanilismi non portano sviluppo”. La politica del fare, partendo dai servizi indispensabili, vitali. “Più che perdersi sui massimi sistemi - sottolinea  il vescovo di Locri -, il buon politico affronta i disagi di un territorio in cui difettano i servizi più essenziali. Se manca l’acqua nelle case, è inutile pensare a grandi progetti. Altrove si parla di ‘alta velocità’, qui ci si deve contentare se ancora transita l’antica ‘littorina’, o non chiude l’ufficio postale o rimangono aperte le scuole”.



    A proposito della mancata presentazione delle liste, con il clamoroso caso di Platì e tutte le conseguenti polemiche, il vescovo afferma: “Ha molto sorpreso il fatto che in qualche paese non si è riusciti a formare neanche una lista in tempo elettorale. E’ vero: il fenomeno è segno di allontanamento della gente dalla politica e persino di sfiducia in essa, ma è non meno segno preoccupante di disinteresse alla cosa pubblica. Va recuperata la consapevolezza che si può governare mettendo da parte ogni tornaconto personale, che affrontare i problemi comuni ed impegnarsi in tal senso è nobile”. Richiamo ai guasti provocati dalla cattiva politica. “Il facile guadagno o il guadagno ad ogni costo, lo spaccio, la tangente, la raccomandazione, quanto più sono di moda, tanto più frenano lo sviluppo e tolgono la speranza nel futuro”.



    E a proposito di speranza negata, il vescovo è preoccupato per  la mancanza di lavoro . “Sì, la grave disoccupazione, giovanile e non solo, è il grande problema della nostra terra”. La Locride, che sta girando in lungo e in largo, a quasi un anno dall’insediamento la descrive così: “Non mi è sfuggita la povertà di una terra troppo esposta alle calamità naturali, spesso costretta a lasciare emigrare i propri figli in cerca di pane e lavoro”. E sottolinea: “Tante cose mi hanno colpito favorevolmente. In particolare, l’affabilità e accoglienza della gente semplice, la vicinanza e preparazione dei sacerdoti, la bellezza del territorio, il grande patrimonio di arte e cultura presente nelle nostre chiese, la genuinità della pietà popolare, le diverse cooperative attivamente impegnate nel promuovere le risorse del territorio”. Insieme per lo sviluppo, con atti concreti, per sconfiggere le forze antisociali. “E’ difficile pensare che fenomeni come la ‘ndrangheta, la malavita organizzata, possano essere superati prescindendo da un’azione strategica contro le tante condizioni di povertà presenti”, conclude mons. Francesco Oliva.

    *già Caporedattore del TGR Rai

  • L'altra Italia

    Tanta auguri nonno della Calabria!

    “Sono seriamente preoccupato per  il diffondersi di Ebola, io che agli inizi del secolo scorso sono riuscito a scampare alla terribile “Spagnola”. Mia madre e mio fratello erano stati infettati. Erano gravissimi. I nostri  parenti avevano già preparato le bare. Poi si sono miracolosamente salvati. Quanti morti, però ! Ero ragazzino ed andavo a trovare quelli che erano ammalati:molti di loro non ce l’hanno fatta. Io sono sfuggito alla “Spagnola”, a due guerre mondiali, ma ora sono molto allarmato per questa nuova peste mondiale. Ho paura”.

    A parlare così è Salvatore Caruso, il nonnino della Calabria che domenica 2 novembre, a Molochio, ha compiuto 109 anni.

    Lucidissimo. Per le sue straordinarie capacità, oggi figura nell’elenco mondiale dei “longevi da studiare“.

    Rappresenta uno dei casi più rari di “lunga vita in buona salute”, che la comunità scientifica internazionale da tempo sta esaminando.

    L’attenzione viene posta sull’importanza della dieta povera di proteine. La ricerca è coordinata da Valter Longo dell’University of Southern California di Los Angeles, figlio di emigranti di Molochio, che lavora in collaborazione con il gruppo di genetica dell’invecchiamento e della longevità dell’Università della Calabria, diretto da Giuseppe Passarino.  

    National Geographic  ha condotto lo scorso anno una inchiesta sulla “Longevità al di là dei 100”. La prestigiosa rivista scrive: “Quando a Caruso è stato chiesto cosa abbia fatto per essere cosi longevo, ha risposto con un sorriso: "No Bacco, no tabacco, no Venere". E ha aggiunto di essere cresciuto più che altro mangiando fichi e fagioli e di non aver quasi mai mangiato carne rossa.

    Ai ricercatori ha detto di essere in buona salute, e in effetti la sua memoria sembra prodigiosamente intatta”.

    Gli abbiamo fatto gli auguri per la festa dei 109 anni. “Grazie, altrettanti anni auguro a voi, anzi vi auguro di più: 110 anni!”, ci ha risposto l’arzillo nonnino, felicissimo per la festa che hanno organizzato il figlio Ottavio, la nuora Grazia Franco ed i nipoti Salvatore e Giovanni. “Grazie, nonno Salvatore, ma 110 anni sono veramente troppi…”. Non ci dà il tempo di continuare. “Si può, si può arrivare e andare anche oltre! Guardi in Israele a quanti anni è arrivata quella donna…“. Lo interrompiamo: ”Eccezioni rare…”. Ancora il nonno: “Si può, si può!”, insiste convinto. “E allora ci dica: ci sono altri ingredienti nell’elisir di lunga vita, oltre a quelli sulla sana alimentazione che ha già confidato agli scienziati che sono venuti a Molochio?"  Non ha un attimo di esitazione: “Bisogna vivere senza eccessi. I troppi divertimenti fanno male. Logorano. E si muore prima. Insomma, divertirsi con moderazione”.

    Se lo dice lui dall’alto dei 109 anni… E a proposito di "lunga vita", un nipotino di Grazia Franco, Mattia, di 12 anni, che frequenta seconda media a Taurianova, durante la festa si è avvicinato al nonnino e gli ha detto: “La sa una cosa? Anche io diventerò un ultracentenario! Ho risposto alle domande di un quiz. Il risultato? Vivrò fino a 105 anni” .  “E il nonno ha sorriso molto compiaciuto”, ci dice papà Rosario, che ha scattato la foto dei grandi sogni e della realtà. Il bambino felice che guarda lontano ammirando il volto sereno  dell'anziano. Un nonnino che viene da lontano e vuole andare ancora più lontano. Il vecchio e il bambino. E’ l’immagine dell’ottimismo! 

    Il caso di Salvatore Caruso ha attirato l’attenzione degli scienziati a livello internazionale, che grazie a lui hanno pure scoperto che Molochio è uno dei paesi del mondo dove si vive più a lungo e dove c’è stato finora il più alto numero di ultracentenari. Il prof. Longo suggerisce perciò di “adottare la dieta che Salvatore e i molochiesi o molochiari (come si dice lì) hanno seguito per la maggior parte della vita:  basso apporto di proteine e la dieta a base di fagiolini verdi, olive e pane integrale. Quando poi vanno a vivere con i figli, perché  diventati troppo vecchi per poter stare da soli, debbono essere aumentate le proteine principalmente da fonti vegetali”.

    Salvatore Caruso legge i giornali (“conserva gelosamente la raccolta della "Domenica del Corriere" e  ogni settimana dobbiamo comprargli “Cronaca Vera”, che segue puntualmente fin dal primo numero”, ci dice la nuora Grazia Franco), scrive libri (due già pubblicati, il terzo sulla “Fine del mondo” in via di ultimazione), guarda la tv senza bisogno di occhiali, suona la chitarra, si diverte a cantare le celebri melodie di un tempo, accompagnato spesso dal nipote Giovanni. Senza alcuna difficoltà  controlla l’orario su un piccolo orologio da polso. Usa con grande abilità il telecomando. Ci tiene ad essere informato su quello che avviene in Italia e nel mondo. Segue attentamente i telegiornali. E il “caso Ebola” è quello che in questo momento lo inquieta. Pensa alle drammatiche conseguenze che potrebbero esserci per tutti. Ce lo conferma il figlio Ottavio: ”Sì, è molto preoccupato. Teme che il virus mortale possa estendersi a tutto il mondo”. Pensa anche ai giovani e al lavoro che non c’è. “E’ una brutta crisi “, dice. Sconsolato: “Le nuove generazioni non hanno speranze, non hanno futuro. Sino a quando ci siamo noi vecchietti un piatto per mangiare ce l’hanno di sicuro. Li aiutiamo per quello che possiamo. E poi?“. Un interrogativo inquietante al quale i politici e gli amministratori calabresi sono chiamati a dare una risposta seria e precisa. A partire dal nuovo Consiglio Regionale della Calabria. 

    *già Caporedattore del TGR Rai

  • Fatti e Storie

    E' tempo di "cose nuove" per la Calabria. Storico insediamento del vescovo di Locri

    LOCRI - “Cose nuove”. Questo ci si attende dalla riunione della Conferenza Episcopale Calabra. E non potrà essere diversamente. Dovranno venire risposte chiare. "Cose nuove”, detto in parole povere ma incisive, si aspettano i calabresi, dopo  quello che è accaduto a Oppido e non solo a Oppido. Purtroppo.

    Quello che è avvenuto il 2 luglio scorso non è un caso raro, ma ce ne sono stati e ce ne saranno
    altri ancora se non si troveranno le giuste soluzioni. Senza più  ambigui, contraddittori e pilateschi comportamenti. Serve una linea comune e compatta. Tutta la Chiesa calabrese deve usare le stesse regole. Senza se e senza ma. L’ ”inchino” è una vergogna. Da condannare e da analizzare attentamente. Chi ha sbagliato deve pagare. Farà i conti con la giustizia divina, ma anche con quella terrena. Ha pienamente ragione chi osserva che quello oppidese “è certamente un evento che aprirà una feconda riflessione nella Chiesa sul senso delle manifestazioni religiose”.

    La Conferenza Episcopale Calabra ha in questo momento un ruolo molto delicato. E decisivo per contribuire alla rinascita della Calabria con le forze sane che si battono per la legalità e la convivenza civile. La politica è praticamente assente. Una rissosità esasperata tra i partiti ed all’interno dei partiti da troppo tempo paralizza ogni cosa. Sfascio generale.

    E indifferenza intollerabile. La Chiesa deve far sentire la sua voce in una regione dove tutto va a rotoli, dal crollo occupazionale ai disastri della sanità. Tagli, tagli, tagli. Non si parla d’altro. Ma i privilegi dei “potenti” restano tutti. Intoccabili. A discapito dei poveri che diventano più poveri e degli ultimi, sempre più emarginati. Fuggono i cervelli. Proprio ieri il “Quotidiano del Sud” ha raccontato la storia di uno studioso cosentino, il prof. Francesco Rubino, di 42 anni, che in Inghilterra ha ottenuto importanti riconoscimenti:la chirurgia per curare il diabete sviluppata da Rubino  nelle linee guida del Sistema Sanitario Nazionale. Promosso dagli inglesi, ignorato dagli italiani. La ricerca umiliata. La sanità penalizzata. Ancor di più in Calabria.

    Centri oncologici  di eccellenza, come quello di Germaneto, vengono chiusi, gli ospedali ridimensionati, con il chiaro intento di smantellarli definitivamente, come si profila per Locri. La gente non ne può più. La protesta parte in questa domenica di luglio  proprio da Locri, ad una settimana dall’arrivo del nuovo vescovo, mons. Francesco Oliva. Mobilitazione di tutto il comprensorio per dire no agli sciagurati progetti di distruzione di una delle più importanti strutture della sanità calabrese.  La Locride non può essere ulteriormente mortificata. Finalmente si copre un  sensibile vuoto nella Diocesi, dopo la promozione ed il trasferimento a Reggio di mons. Morosini. L’arrivo di mons. Oliva rappresenta senz’altro una positività rilevante per questa fetta di terra ricca di storia e di cultura, purtroppo devastata dalle forze antisociali, che hanno potuto spesso impunemente realizzare i loro sporchi affari, seminando terrore e morte .

    E’ tempo di “cose nuove”. E certamente una novità storica è rappresentata proprio dall’insediamento di mons. Oliva. Il prof. Enzo D’ Agostino, illustre studioso di Siderno che con scrupolo da anni compie ricerche anche negli archivi delle parrocchie e delle diocesi calabresi, sull’ultimo numero dell’ ”Avvenire di Calabria”, il settimanale delle Diocesi di Reggio-Calabria-Bova e Locri-Gerace, ha scritto una documentatissima nota storica sui vescovi locresi. “Il 22 settembre 1913 la Cattedrale di Gerace ospitò, verosimilmente per la prima volta nella sua millenaria esistenza, un’ordinazione episcopale, quella di mons. Cosma Agostino, allora arciprete di Mammola, il quale era stato elevato alla cattedra di una sede lontana, Lacedonia, oggi unita ad Ariano Irpino.

    Il 20 luglio 2014, nella medesima Cattedrale verrà celebrata un’altra consacrazione episcopale, ma questa volta la sacra cerimonia riguarderà il 73° vescovo eletto della nostra stessa diocesi, mons. Francesco Oliva, e si tratterà di un evento senza precedenti, dal momento che, per quel che si sa, mai un vescovo di questa bimillenaria diocesi è stato consacrato nella sua sede, neppure l’ultimo pastore indigeno, Giuseppe Maria Pellicano, arciprete di Gioiosa, chiamato sulla cattedra geracese il 21 dicembre 1818 e fattosi ordinare a Roma, sei giorni dopo, dal cardinale Lorenzo Litta”.

    Lo studioso spiega che “allora avveniva quasi sempre così, come nei primi tempi della cristianizzazione, quando il vescovo di una comunità veniva eletto dal clero e dal popolo quasi sempre nel proprio seno, talvolta anche individuandolo altrove, ma sempre con la riserva della ratifica del Papa, presso il quale l’eletto doveva recarsi per essere esaminato, confermato  e consacrato”.

    Il prof. D’Agostino aggiunge che “non tutto sempre filava liscio. Alla fine del VI secolo, morto il vescovo Dulcino, i Locresi elessero il successore (a noi non noto) e lo mandarono a Roma perché fosse confermato e consacrato dal Papa, che era Gregorio Magno, il quale, non avendolo trovato per nulla degno (“minime  dignus”) della cattedra, lo rispedì in Calabria, invitando i Locresi a una scelta più oculata. Il nuovo eletto fu Marciano, sacerdote della Diocesi di Taureana, allora profugo in Sicilia per paura dei Longobardi, e quella volta la scelta fu approvata e l’eletto fu consacrato”.

    Tante e rilevanti le notazioni storiche contenute nell’articolo dello studioso, che conclude il suo appassionante scritto con questo augurio: ”Negli annali della nostra diocesi  speriamo che l’evento del 20 luglio, oltre ad essere ricordato per avere datato la prima consacrazione di un nostro vescovo, venga ivi segnato “melioribus lapillis”, per essere portatore di un episcopato duraturo felice e proficuo, quale merita la veneranda età della nostra diocesi”.

    In effetti è l’auspicio di tutta la Locride, che si sta preparando ad accogliere il nuovo vescovo con grande calore e speranza. Mons. Oliva è un pastore che conosce a fondo la realtà calabrese. Molto amato dai suoi parrocchiani, come dimostrano le continue attestazioni di stima e di rimpianto anche su Facebook.

    Gli abbiamo chiesto qualche tempo fa l’amicizia e con molta cortesia ce l’ha concessa. Ci siamo scambiati alcuni messaggi attraverso fb. Molto significativi. E  abbiamo avuto la conferma che il Papa ha fatto proprio la cosa giusta, nominandolo vescovo di Locri. Mons. Oliva analizza la realtà calabrese e parla del suo impegno per il rispetto della legalità e dell’onestà: ”Mi rendo conto dei tanti problemi che a affliggono la nostra terra e delle tante attese di riscatto. Nessuna soluzione ci verrà dall'esterno.

    Credo molto in quei tanti calabresi che si guadagnano la vita con onestà e impegno. Sono veramente tanti. Dovremo essere capaci di far emergere le cose belle della nostra terra. Il male non è solo nella Locride. Guai se ci lasciamo prendere dalla rassegnazione e dallo sconforto.

    Se non ci pieghiamo a vecchi schemi e al sistema della raccomandazione, se ciascuno fa la sua parte, il nostro mondo andrà meglio. Farò di tutto perché prevalga sempre il rispetto per  la legalità e l'onestà. Odio i sotterfugi e le menzogne. Con l'aiuto del Signore proverò a fare quanto in mio potere”. Sulle orme di Papa Francesco. La Locride potrà riprendere a camminare sulla strada della rinascita!

  • L'altra Italia

    Libri. "Terremotività"

    L’AQUILA - E’ da poco in libreria “Terremotività”, un romanzo che si ispira “in maniera emozionale” ai terremoti ed anche ai “terremotati dell’anima”. In copertina la foto scattata all'Aquila da Emiliano Dante qualche giorno dopo il disastroso sisma. Il finale  del libro ha per scenario  la zona rossa del capoluogo abruzzese. L’autore del romanzo è Marco Lombardi, critico cinematografico ed enogastronomico. Scrive sul Messaggero, sul Sole24 Ore e sul Gambero Rosso oltre ad insegnare all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, alla Scuola Nazionale di Cinema di Milano, al Master del Gambero Rosso di Roma e di Napoli e alla Scuola Holden di Alessandro Baricco.
     

    Lombardi, lei parla di una storia veramente accaduta nella zona rossa dell’Aquila.
    Quale?
     
    La vicenda di una donna che doveva essere evacuata a 80 km di distanza ,ma s'era rifiutata di abbandonare la sua casa pericolante. Questa vicenda però ispira solo l'ultima parte del romanzo, quando la protagonista - una volta entrata nella zona rossa - scopre una casa pericolante dove si è rifugiato - clandestinamente - un ragazzo, e  lì dentro vive con lui una storia drammatica e di passione. Ma il romanzo si ispira in maniera molto più emozionale, cioè non cronachistica, all'esperienza che ho vissuto 4 anni fa quando sono stato diverse volte nella tendopoli di Collemaggio, all'Aquila, per coprodurre e cosceneggiare con Emiliano Dante il documentario "Into the blue". Lui l'ha infatti girato e montato tutto all'interno di quella tendopoli in cui ha vissuto per 6 mesi.
     
    Chi sono i personaggi?
     
    La protagonista è Claudia, una donna di 35 anni insoddisfatta della propria vita e del proprio lavoro che fa volontariato nel tentativo di dare un senso ai suoi giorni. Appena una città vicino a lei viene colpita da un terribile terremoto lascia tutto per andare là. Poi - a Roma - c'e' sua madre, una vedova che sta vivendo con mille paure una storia d'amore (seria) con un ragazzo. Infine Finny, una ragazza di vent'anni che fa volontariato insieme a Claudia ed è un mix di adolescenza e immaturità. Infine c'è una montagna, forse quella che ha determinato il terremoto, che osserva la vita degli uomini come se volesse diventare una di loro. I personaggi principali sono tutti femminili. 
     
    Come si concluderà?
     
    In maniera drammatica, ma tutto sommato con un finale aperto e in parte positivo. I finali mai si raccontano del tutto.
     
    Quale messaggio vuole dare con questo romanzo a 5 anni dal disastroso terremoto?
     
    Nessuno in particolare, non ho la presunzione di poter dare delle "ricette", soprattutto perché non sono aquilano. Il riferimento a L'Aquila è poi molto tenue, e mai esplicito, più che altro il romanzo si ispira all'idea astratta del terremoto, visto che negli ultimi anni purtroppo di terremoti ne capitano in tutto il mondo. In più il terremoto ha anche una valenza simbolica ed esistenziale, visto che tutti i personaggi sono a loro modo un po' "terremotati nell'anima". Pure la nostra civiltà è terremotata. In più il personaggio della montagna suggerisce l'idea di una natura che da un lato vorrebbe ribellarsi, dall'altro vorrebbe essere umana - cioè imperfetta - come gli uomini”.
     
    La  foto della copertina è dall’aquilano Emiliano Dante. Insegna Storia dell'Arte Contemporanea presso la facoltà di Lettere dell'Università di Cassino. ”Prima del terremoto - si legge su “cinemaitaliano.info” - insegnava Cinema, Televisione e Fotografia presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università dell'Aquila. I suoi interessi artistici sono iniziati con la fotografia, coinvolgendo nel tempo però anche la musica, la pittura, il teatro e il cinema. Come film-maker indipendente, Dante ha prodotto dieci cortometraggi e il film ibrido “Into The Blue”, in concorso tra gli altri al Torino Film Festival, al Sanfic di Santiago del Chile, in cartellone a New Filmmakers New York e premio internazionale Emilio Lopez per il miglior documentario girato in Abruzzo nel 2009-10. Ha scritto i saggi Merda d'Artista (Roma, 2005) e Breve Saggio sulla storia e sulla natura degli audiovisivi. (Roma, 2008), oltre al diario di Terremoto 09 - diari da un sisma (L'Aquila, 2009). Ha tenuto mostre personali in Italia, in Francia e in Cile”.
     
    Una foto per un romanzo d'amore nella città distrutta. Ci può spiegare il significato dell’ immagine di copertina del libro di Lombardi?
     
    È una foto fatta pochi giorni dopo il terremoto del 6 aprile 2009. Ritrae la vetrina di un negozio, i manichini sono crollati appunto per il terremoto. Si tratta naturalmente di un crollo anche simbolico, visto che alle loro spalle esiste la foto di due modelli giovani e belli, ineccepibili da un punto di vista estetico. È come se insieme a loro fosse crollato quel modello di vita là. Bionico.
     
    Lei è un profondo conoscitore della realtà aquilana. A cinque anni del terremoto, quale è il suo giudizio su quello che si è fatto nel post-terremoto e soprattutto sulle possibilità di ridare l'antico splendore al martoriato centro storico?
     
    La situazione è ferma da tempo, il centro non viene ancora ristrutturato a dovere. Ed è un peccato mortale perché era uno dei centri più belli d'Italia. Sul terremoto  ho fatto il documentario  "Into the blue" (Marco Lombardi l'ha cosceneggiato con me e coprodotto), ma ora ne sto realizzando uno che fotograferà la situazione a distanza di anni”.
     
    *già Caporedattore del TGR Rai
     
     
     
    ("Terremotività "  Iacobelli Editore  pagine 208 -  marzo 2014 - prezzo di copertina 14,00 €)

  • Arte e Cultura

    Da L'Aquila a Matera, Vittorio Storaro, mago della Luce, nella città dei Sassi

    “Sono disponibile per progetti sulla luce a Matera come ho fatto a L’Aquila”. Vittorio Storaro, il maestro del cinema potrebbe ripetere la magica esperienza abruzzese anche nella città dei Sassi. E’ rimasto affascinato da Matera che “è un’opera d’arte”, ha detto. Aggiungendo: ”L’Italia intera è un grande museo a cielo aperto. Se solo i politici lo capissero: in questo Paese di cultura non solo si potrebbe mangiare ma vivere”.

    Le luci del vincitore di tre Oscar potrebbero dunque ulteriormente impreziosire Matera che aspira alla nomina di Capitale Europea della Cultura 2019. Storaro, definito nei lontani anni Ottanta “re della fotografia in film”, diceva: ”Sono un violino, suono con la luce“. E la sua luce è pronta ad accendersi sui Sassi. Ne ha parlato nel corso del seminario Emozioni di luce, presentando il libro “L’arte della cinematografia”, omaggio ai 150 fotografi che hanno fatto la storia del cinema. Una lunga lezione. Ha consigliato ai giovani che affollavano la sala: “Bisogna prepararsi bene e bisogna studiare sempre”. Lui che allo studio ci ha tenuto sempre .

    E a L’Aquila nei primi anni Ottanta è stato tra gli “illuminati” che hanno dato via ad una inedita esperienza di cultura cinematografica che purtroppo oggi sta vivendo una situazione molto difficile. In una intervista a Guido Alterocca del quotidiano La Stampa, Storaro nel 1988 diceva: ”Se uno vuol fare lo scrittore frequenta Lettere, ma se io voglio occuparmi di audiovisivi dove studio? Per questo motivo sono stato tra i fondatori, quattro anni fa, dell'Accademia per le Arti e le Scienze dell'Immagine all'Aquila, la prima Università di questo tipo. Ci insegno, tengo un corso intitolato proprio "Scrivere con la luce". La mia aspirazione è far sì che i giovani abbiano una preparazione a più facce, ricca di stimoli. Ho ben presente quel che ho studiato io, anche al Centro Sperimentale: mi è stato insegnato il mestiere, etichettato ancora con le vecchia formula di direttore della fotografia, ma nessuno mi ha educato a conoscere la differenza tra Mozart e Beethoven, tra Pavese e Faulkner, tra Platone e Aristotele. Mi hanno trasmesso una tecnica cieca, senza cultura. Mi sono sentito ignorante... Mi ha spinto papà a studiare fotografia. Era proiezionista della Lux Film, proiettava i film in una saletta della casa di produzione. Il suo sogno, di realizzare lui quelle immagini che faceva soltanto scorrere, lo ha proiettato su di me. Da bambino mi sedevo sullo sgabellone accanto a lui e lì ho cominciato a vivere l'incantesimo del cinematografo, il fascio di luce nel buio, il pulviscolo e i suoni, le voci degli attori. Lì ho cominciato ad avere fantasie sulla pellicola che scorre, sui volti e sui paesaggi che può racchiudere. Mi piaceva guardarmi in giro per avere impressioni, ricordi. Mi sentivo all'interno di un gioco e nello stesso tempo al di fuori, distante. Senza saperlo, coltivavo la visione, la mia vista”.

    “Matera in luce” con Storaro. ”Progetto da approfondire e definire”, commenta con molto interesse il direttore della Lucana Film Commission, Paride Leporace. In un anno di intensa e creativa attività ha fatto ottenere posizioni di prestigio all’ultima nata tra le Film Commission italiane. Illuminare Matera come L’Aquila è una bella idea. Chi ha assistito alla fantastica serata aquilana, come la giornalista Rai Maria Rosaria La Morgia, che è stata anche presidente dell’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica”, oggi racconta: ”Ricordo ancora l’emozione di quando si accesero le luci intorno al Forte Spagnolo e la difficoltà di raccontarla da cronista in un servizio televisivo. Forse ci riuscirono la magia dei colori e le parole di Storaro”. Parlando qualche anno dopo di quell’evento, il direttore della fotografia disse: ”E’ stata una esperienza che ho voluto fare insieme agli studenti del 4° anno dell'Accademia dell'Immagine dell’'Aquila, ove insegno Scrivere con la Luce”. Gli inviati dei grandi giornali italiani e stranieri seguivano con molta attenzione quello che avveniva nel “laboratorio del cinema” dell’Aquila. Ernesto Baldo, sulla Stampa del 24 ottobre 1982, così scriveva:

    ”Ore 9.30, Aula Magna dell'Università, lezione di luce: in cattedra Vittorio Storaro (due Oscar per la fotografia di Apocalypse now e di Reds). Di fronte sugli scanni, in silenzio per quattro ore, 400-500 studenti. Sono gli allievi della Scuola di cinematografia di Roma, Milano, Parigi, Atene e Bruxelles. “Se il regista è il direttore d'orchestra — sostiene Storaro — il direttore della fotografia è il primo violino. Il cinema è il linguaggio delle immagini che noi scriviamo con la luce”.(…) ”. Il soggiorno aquilano di Storaro si è concluso al Parco del sole (ma il sole c'era e non c'era) nella valle di Collemaggio con una dimostrazione pratica sul “come si può plasmare la luce naturale”. Questa esercitazione ha coinciso con l'ultimo ciak del film “La casa nel parco”, una storia d'amore (attualizzata dalle difficoltà per due giovani di trovare oggi casa) scritta e interpretata da studenti liceali, e fotografata “a singhiozzo” dai maestri della luce succedutisi negli ultimi otto giorni sulla cattedra universitaria dell'Aquila: da Storaro a Garrett Brown (premiato con l'Oscar per “Steadycam” ( la cinepresa mobile da lui inventata), da Romano Albani (direttore della fotografia di Troisi per “Scusate il ritardo”) a Danilo Desideri (sta girando a Roma con Magni “State buoni se potete”), a Luciano Tovoli che proprio in questi giorni ha debuttato in grande stile nella regia con un film interpretato da Marcello Mastroianni, Anouk Aimè e Michel Piccoli”.

    Erano gli anni felici di una città e di una regione tenute in grande considerazione nel mondo della cultura e del cinema internazionale. Ricorda La Morgia che proprio “nell’ottobre del 1982 un inviato di Le Monde cita nello stesso articolo (“Une ville des Abruzzes saisie par les caméras ) il film prodotto dalla struttura programmi della sede Rai abruzzese “Sciopèn”, Leone d’oro a Venezia, e il festival “Una città in cinema”. Un ricordo felice per chi come me ha vissuto entrambe quelle esperienze come giovane programmista – regista della terza rete. Raccontava Louis Marcorelles nel suo articolo dei grandi che avevano trasformato piazze e strade del capoluogo abruzzese in set: Vittorio Storaro, Giuseppe Rotunno, ma c’erano anche Luciano Tovoli e Marcello Gatti, c’era Garrett Brown con la sua steadycam”. Il capoluogo dell’Abruzzo diventava un centro di sperimentazione senza precedenti. Progetti innovativi. Grandi maestri per giovani talenti. “L’Aquila fu la prima a raccontare i mestieri del cinema “, sottolinea La Morgia. ”Divenne un punto di riferimento nel mondo per professionisti, studenti e appassionati. Cito ancora Marcorelles: L’idea di base dell’organizzatore, Gabriele Lucci, animatore del cineclub locale e lui stesso cineasta, consiste nel coniugare l’aspetto artistico con la professionalità di tecnici di alto livello”. Dieci anni di Festival, la nascita dell’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica”, poi nel 1995 la fondazione dell’Accademia dell’Immagine. Per anni la presenza costante dei grandi del cinema”.

    E tra i grandi del cinema un ruolo da protagonista l’ha avuto proprio Vittorio Storaro. Amava la città. E la città lo amava, tanto da tributargli il massimo riconoscimento. “Divenne cittadino aquilano” - racconta ancora la giornalista Rai. - Un esercizio di memoria il mio che potrebbe durare a lungo, ma rischierebbe di diventare rimpianto per come il cammino si è interrotto”. Dalla grande gioia alla grande amarezza. Il bel sogno finito male. “Problemi, tanti e di diversa natura, poi cinque anni fa la tragedia del terremoto. Vorrei usare la memoria in senso positivo, penso alle radici che quell’iniziativa ha messo, alla vita che ha generato. Oggi ci sono giovani professionisti in giro per il mondo che si sono formati a L’Aquila, qualcuno come Alessandro Palmerini vede il suo talento riconosciuto anche con prestigiosi riconoscimenti, come il David di Donatello. Ci sono tanti cinefili che rivorrebbero quel festival che aveva favorito il dialogo, l’incontro ben prima che nascessero altri festival che oggi fanno la stessa cosa in altri settori, dalla letteratura alla filosofia. Non passerelle, ma dialogo, scambio di idee e di saperi”. Non tutto è finito. Maria Rosaria La Morgia elogia le positività che ancora ci sono e vanno sostenute: ”Sono rimasti i giovani che continuano a lavorare nel mondo del cinema a L’Aquila e la straordinaria Cineteca dell’Istituto Cinematografico. Dopo il terremoto del 2009 la Lanterna Magica ha ripreso il suo lavoro, forte di un passato che apre la strada per nuove sfide”.

    *già Caporedattore del TGR Rai

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