Articles by: Carlo Di stanislao

  • Arte e Cultura

    Oscars. Vincite e perdite


    Ha completato nella notte la sua marcia trionfale che ha lasciato stupiti e perplessi i francesi, innamorato gli americani e gli inglesi e dimostrato che la critica italiana non sa neanche giudicare del valore di ciò che commenta e, in conseguenza, dare utili linee di condotta a chi voglia cimentarsi con un cinema che sia di valore ma anche di successo.

     
    Dopo il Golden Globe ed il BAFTA e dopo tre lustri di digiuno amaro ed ostinato per il cinema tricolare, “la grande bellezza” ci riporta in cima alla classifica del cinema mondiale, con un Oscar atteso e combattutto, che Paolo Sorrentino, l’autore, ha condiviso con il produttore ed il protagonista ed ha dedicato a Fellini e Scorsese, ma ancvhe a Maradona, esempio di salite verticali e discese disastrose, mertafore di un’arte che non sa adeguarsi alla vita e, nel bene e nel male, è sempre imperevedibile e fuori dal coro.

     
    Ha detto Sorrentino, emozionatissimo, salito sul palco del Dolby Theter insieme a Tony Servillo e al produttore Giuliano:  "Grazie a Toni e Nicola, grazie agli attori e ai produttori. Grazie alle mie fonti di ispirazione, i Talking Heads, Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona, che mi hanno, tutti, insegnato come fare un grande spettacolo.

     
    Ed ha aggiunto con la voce rotta dalla commozione che è lo spettacolo alla base del cinema e che è possibile racconrtare la bellezza solo se si sono conosciute città come Napoli e a Roma e persone comr la moglie Daniela, da cui ha avuto due figli, ma soprattutto il giuisto equilibrio in un universo completamente squilibrato.

     
    Intanto impazzano i festeggiamenti sui social media, ed arriva, puntualissimo, il messaggio di di Giorgio Napolitano, che scrive: "Si è giustamente colto nel film di Sorrentino il senso della grande tradizione del cinema italiano e insieme una nuova capacità di rappresentazione creativa della realtà del costume del nostro tempo. E' uno splendido riconoscimento, è una splendida vittoria per l'Italia".

     
    Vive da tempo a Roma anche lui, il presidente, che è di Napoli e della generazione di La Capria e di Rea, una generazione che ha visto il tracollo di ideali e l’imbarbarimento dei riti singoli e collettivi e che, pertanto, meglio di altri ha saputo cogliere l’anima coraggiosa del film.

     
    The Great Beauty, titolo con cui il film è uscito negli Usa, ritratto appassionato e amaro di una Roma bellissima e decadente, che ha per protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo, attore feticcio di Sorrentino), viveur di sessantacinque anni e scrittore di un solo libro che si muove tra cultura alta, mondanità e situazioni surreali in una città santuario di meraviglia e grandezza, è una riuscita metafora di questi anni, accolta senza entusiasmi sulla Croisette, ma che poi si è rifatto con un susseguirsi di premi.


    Quattro Efa (gli Oscar europei: miglior film, migliore attore, miglior regista e miglior montaggio); il Golden Globe come miglior film straniero (non accadeva dal 1989 con Nuovo cinema paradiso di Tornatore) e il Bafta (l'Oscar del cinema inglese) battendo ancora il rivale Kechiche che lo aveva superato a Cannes.

     
     “Spero che questo film e questa vittoria siano una porta aperta affinché il cinema italiano diventi più cinema per il mercato internazionale" ed anche noi ce lo auguriamo, raccomandado ai nostri cineasti di scriverli bene, fotografarli in modo accorto e curarne i dettagli, per produrre qualcosa di dignitoso e vendibile non soltanto nelle patterie sale.
    Nella stessa, indimenticabile notte, Steve McQueen, 45enne regista britannico di "12 anni schiavo", conquista il premio più ambito, con una lezione di storia sulla schiavitù nel periodo precedente la Guerra Civile americana, che oltre a quella per il miglior film, ne ottiene altre due: quella di Lupita Nyong’o (migliore attrice non protagonista) e quella per la migliore sceneggiatura, oltre al fatto che rimarrà nella storia di Brad Pitt, finalmente salito sul palco per raccogliere il premio come produttore del film (il suo primo dopo cinque nomination). 

     
    Ancora, Gravity, del regista messicano Cuaron, ha portato a casa sette delle statuette cui aspirava: oltre a quella come migliore regista, una prima assoluta per una regista latino-americano, anche il miglior montaggio -ancora a Cuaron insieme a Mark Sanger- migliore fotografia (Emmanuel Lubezki), miglior colonna sonora originale, migliori effetti visivi, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro.

     
    Mentre grande perdente è  David O. Russell, il cui "American Hustle" esce di scena a mani vuote, come anche "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio che anche stavolta torna a casa senza alcun riconoscimento.

     
    La gioia per il premio a Sorrentino e ad un cinema intelligente e non pedante, innovativo nei modi narrativi e nei risvolti, è in parte offuscata dalla morte, sabato, di Alain Resnais, il Proust del cinema francese, figlio di farmacista, e vecchio leone, col ciuffo ribelle di capelli bianchi e gli occhiali scuri a celare uno sguardo sempre dolce e curioso, con cui salutò per l'ultima volta il pubblico - tutto in piedi - del festival di Cannes dove ebbe il suo ultimo riconoscimento (un premio speciale alla carriera legato al suo film del 2009 "Les herbes folles"), che con la sua opera ha saputo adattare l'idea di "tempo sensibile", quella percezione del reale che nella mente si accende a tratti, si illumina per un ricordo, una sensazione, una associazione di idee scomponendo e ricomponendo senza fine la presunta linearità della vita, alla necessità spettacolari e narrative del cinema.

     
    La mia generazione lo rircoderà per sempre, a partire dai due dai due documentari “Notte e nebbia" dedicato all'orrore di Auschwitz e "Tutta la memoria del mondo" dedicato al senso universale della biblioteca), che ne fecero l'artista di riferimento della Nouvelle Vague, ma che per la sua inossidabile libertà espressiva, non aderirà mai veramente al movimento, preferendo a quella rivoluzione estetica (cui rende omaggio con "Muriel", 1963).


    Un impegno civile più diretto, ispirato dal sodalizio con lo sceneggiatore spagnolo Jorge Semprun di cui girerà "La guerra è finita" (1966) e poi, dopo l'adesione ai movimenti pacifisti della sinistra francese e l'insuccesso del film successivo "Je t'aime, je t'aime", che prerirà vivere per due anni New York, dove sopre e scopre una cultura anglosassone che si addice perfettamente alla sua anima rigorosa e al primato della ragione, che lo porterà, tornato in patria nel 1974, a girare con un incredibile Belmondò, un film-capolavoro: “Stavinsky”, con cui cambia prepotentemente stile e ricostruisce la vita di un grande truffatore della Belle Epoque, ricongiungendo il suo passatto di artista con la tradizione del racconto a soggetto.


    Ma anche questa è appena una parentesi, perché da quel momento il suo cinema diventa macchina di ricerca. Prende a pretesto i temi che gli sono cari: la memoria in "Providence" con Dirk Bogarde (1977), la scienza con "Mon oncle d'Amerique" (1980), interpretato dallo scienziato Henri Laborit, il melodramma con "La vita è un romanzo" (1983), il racconto d'appendice con "Mélo" (1986), il fumetto con "Voglio tornare a casa" (1989), il teatro con uno dei film più popolari "Smoking/No smoking" (1993).

     
    Ed è proprio l'incontro con il commediografo inglese Alan Ayckbourn ad appassionarlo negli anni dell'ultima maturità, tanto da ricorrere ai suoi testi ben tre volte, fino al film del congedo.
    Certo con la sua scomparsa si chiude il secolo del soggettivismo e del dubbio: scompare la coscienza secolare della cultura europea e si apre il tempo dell'incertezza, che nelle sue opere è anticipata e vissuta senza dramma, con il distacco della ragione e la malinconica nostalgia della passione. E che forse Sorrentino ha ereditato più di quanto lui stesso creda.

     
     Nel 2006 Resnais ha girato Cuori con i suoi soliti attori ma anche la nostra Laura Morante che, addolorata lo ricorda così: "I suoi film sono in una gamma dal bello al sublime e io da attrice non avrei mai voluto lasciare il suo set. Se mi avesse chiesto di girare film solo con lui lo avrei fatto. Era uno sperimentatore, ha osato cose che molti registi giovani non osano, era lieve e profondo insieme".

     
    Si potrebbe dire lo stesso per Servillo, autore di film gelogici, stratificati, complessi, che a partire da “L’uomo in più” (Vincitore come opera prima a Roseto e a Sulmona, nel segno di una regione, l’Abruzzo, che il grande cinema sa subito intercettarlo), che sembrano trenini che non portano da nessuna parte perché documentano una crisi di valori a cui solo il ricordo del passato può portare rimedio.

     
    La grande bellezza, come il miglior film di Resnais, è abissale, con un approccio volutamente anti-narrativo, che cita continuamente Celine e il suo Viaggio al termine della notte, che sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano all'altro, da una situazione all'altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti, con uno sviluppo in cui alla storia si preferisce l'elzeviro, l'affondo veloce, la critica sferzante e al dialogo preferisce un monologo straordinariamente punteggiato, creato grazie anche alla bravuro del cosceneggiatore. 


    Quell’Umberto Contarello che è l’autore degli script del migliore cinema italiano degli ultimi anni, ma anche l'uomo che ha deciso di nascondersi dietro i titoli di testa, ma che non si nasconde affatto nelle scelte sociali e politiche, come ricorderà chi lo ha visto programma Piazzapulita su La7, magari nella puntata tutta fuoco e fiamme in cui cercava di esprimere delle opinioni a favore di Matteo Renzi trovando un ostacolo insormontabile non in Vittorio Sgarbi ma in Carlo Freccero, raffigurazione plastica delle anime diverse della sinistra, fieramente portato alla Leopolda con anima, corpo e una cravatta multicolore, dopo essere stato al confine tra la vita e la morte, con l'infarto che però ha dato vita al romanzo pubblicato da Feltrinelli nel 2005 e diventato un film di Francesca Archibugi qualche anno dopo, dove c'è la sequenza commossa degli amici, Carlo Verdone, Paolo Sorrentino, Daniele Luchetti, Stefania Sandrelli e Paolo Virzì, che vanno a trovare Albanese/Contarello in ospedale, lasciando di stucco il compagno di stanza, il carrozziere interpretato da Rossi Stuart.

     
    Ha firmato i film più belli di Mazzacurati, ha avuto un infarto da cui è uscito cambiato, come cambiato è il suo credo politico di oggi, che lo ha portato da militante Pci iscritto nel 1982 ad interessarsi di Renzi e della sua politica del fare.

  • Opinioni

    Stregati dall’ovvio


    Pronostici rispettati allo Strega 2013: vince con “Resistere non serve a niente” Walter Siti, secondo Alessandro Pasinotto con “Le colpe dei padri” e terzo, con Mandami tanta vita”, Paolo Di Paolo.

     
    Fuori da podio le due donne: Romana Petri con "Figli dello stesso padre" e Simona Sparaco con "Nessuno sa di noi" .

     
    Eccellente nel ruolo di presentatore-intervistatore Antonia Capranica, grande lettore ed appassionati di libri che, da poc, o ha pubblicato un nuovo interessante saggio per Sperling & Kupfer: "Ci vorrebbe una Thatcher“, in cui racconta, con eccellente stile, della Lady di Ferro che, con una fede incrollabile nel liberismo, somministrò al Regno una medicina amarissima, fatta di tagli alla spesa, privatizzazione delle aziende statali e deregulation, ma che si rivelò grandemente efficace.
    Tornando allo Strega, giunto alla sua 67esima edizione, introdotto da Terza Pagina, il programma settimanale di Rai Educational che si occupa di illustrazione, lettura e commento delle principali pagine culturali della stampa italiana, con una lunga puntata dedicata ai cinque scrittori finalisti, con, in studio, accanto al conduttore Paolo Fallai, giornalista del Corriere della Sera, Franco Cordelli, scrittore e critico e Andrea Caterini, scrittore, con numerosi contributi video, anche storici, che hanno illustrato le più importanti edizioni del premio, gettando nel contempo uno sguardo alle polemiche che ogni anno investono l’iniziativa; ha prodotto anche quest’anno  i soliti malumori, con un duro attacco di Aldo Busi, rimasto fuori col suo “El especialisti de Barcellona”, che ha riempito di contumelie il libro di Siti, si è rifiutato di partecipare alle tappe di presentazione dei dodici candidati e infine ha accusato la propria casa editrice, la Dalai, di non averlo appoggiato a sufficienza.
    Poi, la solita tirata generale sul fatto che, come in tutti i premi letterari (con la eccezione, si dice, del Calvino), tutto è deciso dagli editori, sicché, dopo la vittoria 2012 di Piperno (Mondadori), era normale quella di Siti (Rizzoli).
    Qualche mormorio si era già levato con l’abbandono della giuria da parte di Emanuele Trevi, secondo classificato dello scorso anno, motivato con l’insostenibile insistenza delle case editrici sulla selezione di finalisti e vincitori. E Inge Feltrinelli si era accodata, accusando l’organizzazione dei candidati allo Strega di essere “un po’ mafiosa”. Comunque il libro di Siti è meritorio e gli altri quattro piuttosto interessanti.
    Ciò che più ha colpito, invece, è stata l’assenza al Ninfeo, per la serta finale,  del nuovo sindaco di Roma Marino, mentre erano presenti due ex sindaci: Alemanno e l’abbrozantissimo (come la moglie Palombelli) Rutelli, oltre che al solito Meli e a tutto l’apparato RCS che, dopo un digiuno di due lustri, è tornato a vincere.
    Per la verità, senza voler aizzare le polemiche e tenendo conto che il libro di Siti l’ho trovato folgorante, già prima della selezione dei dodici finalisti, si parlava dell’abbinata Siti-Rizzoli (l’anno scorso il premio era andato a Piperno-Mondadori e Rizzoli non vinceva, come detto, da 10 anni), ma, comunque, tra i cinque nomi arrivati in vista del traguard,  Siti si è meritatamente aggiudicato i 50 mila euro messi in palio e la magnum di liquore Strega, dalla quale per tradizione il vincitore beve dopo la proclamazione.
    Chissà perché, però, dopo la diretta in tv,  ho avuto voglia di rivedermi “Hansel e Gretel cacciatori di streghe”, uscito a maggio, con il belloccio Jeremy Renner e la ancor più belloccia Gemma Arterton, un trash/ splatter che, appena dietro la porta di marzapane che, ghiotti, non vediamo l’ora di assaporare, nasconde un rovesciamento letterario che, strizzando l’occhio allo steam-punk, riesce ad essere molto più convincente ed originale di tanti altri prodotti del filone recente “fiabe modernizzate”.
    Ora, siccome tutto ha un senso, mi sono chiesto il perché abbia sentito la voglia, dopo Lo Strega, di riguardarmi il DVD “pirata” di questo film e una spiegazione me la sono data,  dicendomi che ciò che cerco (e spesso non trovo) nelle espressioni (letterarie e artistiche più in generale), anche quando sono di buona fattura, è una  “visione postmoderna” che possa definirsi “anniventizzata”, capace cioè di superare quella che Fredric Jameson chiamava “cinquantezza” e che lega la letteratura e l’arte,  a modi, forme e contenute di mezzo secolo fa.
    Uno che ci ha provato ad essere diverso è stato Tabucchi, non a caso dimenticato in Italia e amato in Francia, con pochi o forse nessun erede capace di credere ancora alla forma romanzo, ma anche di lasciare che la letteratura sia invasa da altri linguaggi.

    Forse lo fa Andrea Bajiani che, non a caso, su “Il grande spot” in “Scrivere sul fronte occidentale” (Feltrinelli), avverte che bisogna: “ridare alla letteratura quel che era suo: la possibilità di agire nel mondo, di avere un impatto all'esterno. […] Deve tornare a farlo. Reinventarsi un linguaggio che non sia de-realizzante, ma iper-realistico. Sfondare, uscire dal suo giardino, abbattere le transenne. Far sobbalzare. Mettere sotto shock. Ecco il nuovo realismo che passa attraverso il caos”.

    Ora, in parte, nel libro di Siti questo tentativo di linguaggio iperealistico e caotico c’è, ma non c’è, ad esempio, né in Pasinotto né in Di Paolo, soprattutto in quest’ultimo, che con uno stile curatissimo e un romanticismo ai limiti del retorico, ha scriito un romanzo zuccheroso e senza perturbazioni e che ancor più irrita chi, come me, ha amato Gobbetti, il suo antifascismo antiretorico e culturale, che avrebbe meritato una narrazione ucronica, una visione postmoderna e non imprigionata in una dimensione edificante.

    Come edificante e trita è l’idea del doppio che muove Perisinotto nel secondo classificato: “Le colpe dei padri”, storia vagamente pirandelliana, attraverso la quale si fanno  rivivere le atmosfere culturali, industriali e post-industriali di Torino: dagli anni sessanta, passando per gli anni di piombo, sino ai drammatici giorni della crisi odierne, con intersezioni psicologiche, socio-economiche e storiche che imbastiscono una vicenda personale tragica ma risaputa, prevedibile e senza veri sussulti.  

     
    Anche la tecnica narrativa (come per Siti) è arcinota: è lo stesso Perissinotto che racconta, senza però le finezze sorprendenti dei suoi grandi concittadini Pavese o Natalia Ginzburg.

     
    Né mi ha convinto di più Romana Petri con “Figli dello stesso padre”, dove la narrazione stenta a trovare un ritmo capace di conquistare, con dialoghi quasi teatrali, intervallati da accurate descrizioni, che hanno l’unico pregio di allontanare chi legge dall'empatia verso i protagonisti.

    Chi mi è piaciuta di più è stata la “tabucchiana” (non a caso), Simona Sparaco, che vive tra Roma e Lisbona, viaggiando sempre con il suo gatto Ulisses, trovato 3 anni fa in un sacchetto di plastica azzurra accanto a un cassonetto; scrittrice e traduttrice, finalista allo Strega anche nel ‘98 con “Alle case venie”; giunta ultima della cinquina con “Nessuno sa di noi” (che però è il libro più venduto fra i finalisti di quest’anno), racconto di una esperienza dolorosa e riflessione sulla natura e sulla vita che sono entrambe potenti e, a volte, feroci.

    “Nessuno sa di noi” è una travolgente storia d'amore tra un uomo e una donna e tra una donna e un figlio che non c'è, raccontata con coraggio e scritta senza enfasi, per non schiaccare la storia con le parole, per andare oltre il ricatto del contenuto e trasformare la testimonianza in altro. 

     
    Interessante è il non-stile del racconto, in cui si mescolano, con acume innovativo, una serie di luoghi comuni, espressioni colloquiali, frasi e metafore kitsch, per comporre una archittettura verbale che, simulando una dimensione letteraria, è quella che facilmente si potrebbe trovare su una timeline di facebook o su qualche messaggio scambiato su WhatsApp.

     
    Anche la punteggiatura è straordinariamente e volutamente sbagliata ed antiletteraria, composta come quella delle mail, fatta per enfatizzare i dialoghi da cose televisive a cui, ormai, noi tutti, comunque, facciamo riferimento nel nostro quotidiano.

     
    Ho trovato bellissima in “Nessuno sa di noi”, l’idea di alternare ai capitoli le lettere del forum o quelle inviate alla protagonista, dalle lettrici della rubriche che lei, giornalista, gestisce su un settimanale e profondissima la riflessione secondo cui: si può donare la vita ma non la sopravvivenza, preparata come in un film, con parole che compongono immagini in avvicinamento, con piano sempre più stretti sulla protagonista.

     
    Non a caso la Sparaco è anche sceneggiatrice e dopo aver preso una laurea inglese in Scienze della Comunicazione, spinta dalla passione per la letteratura, è tornata in Italia e si è iscritta alla facoltà di Lettere, indirizzo Spettacolo, per poi frequentare diversi corsi di scrittura creativa, tra cui il master della scuola Holden di Torino.
     
     
     


  • Arte e Cultura

    Ospetek, in ritardo



    E’ uscito a marzo dello scorso anno, piuttosto in sordina e riconosco, colpevolmente, di averlo perso, anche se Ospetek è un regista a me caro e i 9 Nastri D’Argento avrebbero dovuto tenermelo in evidenza.

     
    L’ho visto ora e debbo dire, per prima cosa, che “Magnifica presenza” è un film davvero poco italiano, elegante, curato, intellettualmente evoluto, formalmente ineccepibile, una storia non facile da maneggiare, che ha per protagonisti dei fantasmi, col giovane catanese Pietro Ponte (Elio Gremano) “salito” a Roma per fare l’attore, che intanto si accontenta di infornare cornetti la notte.

     
    Trova ad un prezzo abbordabile un vecchio appartamento in una tranquilla e fin troppo borghese zona di Roma, la parte vecchia di Monteverde. Si dedica anima e corpo a restaurare l’appartamento. Ha bisogno di una dimora che gli assomigli, nella quale fare finalmente i conti con se stesso e la propria identità sessuale, poiché, come sempre nel cinema di Ospetek, Pietro è l’ennesimo gay del repertorio di celluloide, tanto per non distaccarsi dalla dominante tematica del regista-esteta, cantore dell’omosessualità.

     
    Ma il ragazzo è un gay ancora confuso, solitario, educato, lavoratore, rispettoso, che ha vissuto una sola notte d’amore con un uomo e ci ha capito davvero poco.

     
    Ovviamente nel corso del film, come d’abitudine, appaiono altri gay, ma di sfuggita, figure metafisiche, in un sogno a metà tra l’onirismo del Fellini di “Otto e ½” e gli incubi sanguinari in maschera del Kubrick di “Eyes Wide Shut”, con il ritratto di un grande sapiente, o veggente, signore del passato e del futuro, incarnato da Maurizio Coruzzi, stavoltas senza la maschera di Platinette.

     
    Un inquietante ruolo (splendido nella recitazione) è affidato ad Anna Proclemer, il cui volto ancora è capace di attrarre e spaventare. Bravi anche Margherita Buy, Beppe Fiorello, Paola Minaccioni, Vittoria Puccini, Andrea Bosca, Alessandro Roja, Claudia Potenza, Monica Nappo, Gea Martire, Bianca Nappi e Massimiliano Gallo, mentrte è magnifica la musica di Pasquale Catalano, già compositore della colonna di film come , La kriptonite nella borsa”, “Mine vaganti”, “L’uomo in più”, e Le conseguenze dell’amore”

    Non so decidermi, a caldo, se il film mi è piaciuto fino in fondo, ma sono felice (dopo averlo trascurato), che sia stato scelto per la terza edizione di Cinema Made in Italy, festival organizzato dall’ Istituto Luce Cinecittà e dall’Istituto italiano di cultura a Londra, accolto con favore da critica e dal pubblico.

     
    In fondo, credo, continua, con altra storia, lo stesso tema di “Mine vaganti”, con al centro il senso del dovere che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri e sulle catastrofi che possono accadere quando i due doveri non collimano.


     
    Forse ciò che mi lascia titubande è come la sensazione che la storia non sia fatta decollare, che stia trocco raccolta e quasi schiacciata da una fotografia troppo calda, ricercata e patinata. 
    D’altra parte neanche Eastwood ci era piaciuto con la sua incursione nel metafisico, considerando “Hereafter” una delle sue prove meno riuscite, fra i titoli più recenti.
    E cito quel film non ha caso, perché un elemento in comune con l’ultimo di Ospetek c’è l’ha, nella convinsione (condivisa con Totò di “A livella”) che solo nella morte si è uguali, mentre la vita è incentrata sulla differenza.

    E come l’ottuagenario Eastwood, nel 2011, riusciva a superare il lutto con un dialogo fra la vita e la morte, Ospetek, in chiave di commedia, ci accompagna in un universo segreto, dove confluiscono eroi ed antieroi , come si conviene nella dimensione più autentica del melodramma, ovvero di una sorta di spettacolo drammatico nel quale l'elemento centrale (qui la differenza e l’aldilà) viene chiamato, di tanto in tanto, a rinforzo dell'effetto delle singole scene.

     
    Non è un caso, infatti, che Ospetek sia considerato il più melodrammatico fra i nostri registi di oggi e che di melodramma sia parlato, fra nostalgia, suoni d' Oriente e smarrimento, nella giornata a lui dedicata il 23 maggio 2010 nello Spazio Oberdan di Milano. 

     
    Ultima notazione sul film, è ricordare che di fantasmi che rivivono dal passato Ospetek si era già occupato in “La finestra di fronte”, ma qui lo fa in maniera troppo barocca e sfarzosa, certo con delle belle trovate stilistiche, ma che ammiccano troppo dichiaratamente al suo portato religioso, con varie parte che appaiono come meri esercizi retorici, privi di autentico spessore.
    La sceneggiatura che, nelle intenzioni, voleva  attingere, con grazia e leggerezza, al senso dell’assurdo come stile narrativo, perde di significato affastellando, scena dopo scena, situazioni e personaggi la cui eterogeneità si converte in un colorito guazzabuglio. Gli omaggi e le citazioni si susseguono ma, in luogo della leggiadria del richiamo, il film si indebolisce nel rimando grossolano alle suggestioni letterarie e cinematografiche. Così come non è sufficiente esasperare una prospettiva per essere Dalì, qui non basta lasciarsi andare ad un eccesso cromatico per diventare Almodovar. “Magnifica presenza” tenta di imboccare più di una strada ma finisce per non arrivare in fondo a nessuna. Il sogno artistico del protagonista si mescola e si confonde tra i diversi livelli narrativi che Ozpetek vuole esplorare e, nonostante Elio Germano riesca ad infondere al suo Pietro l’autenticità di un ingenuo smarrimento, l’atmosfera degli eventi resta, inesorabilmente, alla superficie del grottesco.

     
    Nato in Turchia e in Italia da quando aveva 17 anni, Ospetek ha iniziato, a maggio, le riprese di un nuovo film: “Allacciate le cinture di sicurezza”, che parla del rapporto tra la sua patria e la nostra nazione.
     


  • L'altra Italia

    Verità nere fra vita e letteratura. Con Dicker il giallo volta pagina

    Solo che fra l’autore svedese di “La ragazza che giocava con il fuoco ,” "Uomini che odiano le donne” e “La regina dei castelli di carta” ed il giovane svizzero divenuto caso letterario in Francia ed ora in Italia con il suo "La verità sul caso Harry Quebert", vi è una profonda differenza.

    Larsson è  un comunista combattente che denuncia le ingiustizie di una società corrotta e, neanche troppo occultamente, si propone di cambiarla; mentre Dicker è, per dirla ancora con Welles, uno che usa “l’'arte come menzogna che ci fa capire la verità”. “La verità sul caso Harry Quebert” (Bompiani, pagg. 784, 19,50 euro) ha fatto gridare al miracolo la critica francese e ha già venduto centinaia di migliaia di copie in Francia, Svizzera Belgio ed Italia, frutto di due anni di lavoro e di trenta stesure che infine hanno prodotto ciò può essere definito un whodunit, (contrazione di Who has done it?), ovvero un giallo deduttivo, dove si  disegna una scena editoriale competitiva, in cui oggi sei un Dio in terra e domani rischi di trovarti fallito e citato in giudizio per inadempienze contrattuali, il tutto giocato  con l’ architettura di un thriller che si compone di piani sovrapposti,  in cui la letteratura e la scrittura rimangono però sempre al centro, dove si parla  di boxe e di letteratura, del bisogno di scrivere, delle  idiosincrasie degli scrittori  (il blocco, il terrore della pagina bianca, ecc.),  e dei dogmi, degli intrecci ed osmosi tra i libri e la vita.  

    Nel libro c’è un manoscritto, Le origini del male (il capolavoro di Harry Quebert), legato in qualche modo alla sparizione della quindicenne, uno scrittore (Marcus Goldman) che indaga sul caso e che su questo caso scrive a sua volta un romanzo. Molti hanno visto nel “La verità sul caso di Harry Quebert “un omaggio a “La macchia umana” di Philip Roth (amicizia tra due scrittori, riabilitazione del proprio mentore, ambientazione nella provincia americana), mentre altri vi hanno intravisto, in tralice,  il Nabokov di “Lolita”.

    Ciò che è certo è che la scrittura fila via come una rasoiata e l’intera storia si divora (e ci divora), d’un fiato.

    “ La verità sul caso Harry Quebert” è un fiume in piena, che travolge il lettore e lo calamita dalla prima all’ultima pagina.

    Come ha scritto De Cataldo su Repubblica, trainate dal trionfo degli archetipi, le pagine scorrono inquiete e veloci. Tanto febbrili che, se non sapessimo che Dicker esiste veramente, penseremmo alla beffa di una sofisticata intelligenza meccanica, un raffinato "software" di ultimissima generazione che si diverte a edificare una monumentale epopea post-moderna avulsa da qualsivoglia seduzione del realismo. Ma Dicker c'è, e del senso dell'opera è lucidamente e onestamente consapevole: voleva scrivere proprio questo, un romanzo "voltapagina", sedotto dalla meticolosità narrativa di serie televisive come “Homeland”.

    Nato a Ginevra nel 1985, Joël Dicker è al suo secondo romanzo,dopo “ Les derniers jours de nos pères”, che ha ricevuto il Prix des écrivains genevois nel 2010.

    Questo noir medidabondo e con “anime stropicciate”, ha ottenuto il Grand Prix du roman de l’Académie Française 2012 e, nello stesso anno,  il Prix Goncourt des lycéens 2012, per poi esere tradotto in 25 lingue.

    Ne avvessi la possibilità ne acquisterei i diritti di sfruttamento cinematografico e ne caverei un film in bianco e nero (ma alla maniera di “Collateral” di  Michael Mann),  con minimi movimenti di macchina (alla Ozu), ispirandomi a “Il mistero del Falco” di Preminger  e “La donna del ritratto di Fritz Lang, ma aggiornato con un montaggio sincronico come nei film di Dassin, Melville e Chabrol e vari flashback come ne “ I cattivi non dormono in pace” di Kurosawa.

    Ed anche con un basso budget ed un regista appena attento,  ne verrebbe fuori qualcosa di superiore e diverso rispetto anche ad ottimi titoli recenti, come:   “Violent cop, Sonatine, Hana-bi” di Takeshi Kitano; “The Departed” di  Martin Scorsese e la cosidetta triologia della vendetta (“Mister Vendetta”, “Oldboy” e “Lady Vendetta”)  di Park Chan-wook.

  • Fatti e Storie

    Addio Sirena


    A 15 anni aveva vinto tutte le gare disputate in California nei 100 metri stile libero femminili. Conquistò il titolo di campionessa della Costa del Pacifico.

     
    Nel 1940 si preparava a partecipare alle Olimpiadi, ma lo scoppio della seconda guerra mondiale fece saltare due edizioni consecutive dei Giochi.Non completò gli studi universitari e si mise subito a lavorare come commessa e indossatrice. Fu scritturata dalla MGM; recitò il suo primo film nella parte della ragazza di Mickey Rooney (La doppia vita di Andy Hardy, 1942), ma il successo arrivò due anni dopo, con Bellezze al bagno.
    E’ stata la sirena di Hollywood , la regina assoluta dei musichall acquatici girati in Technicolor, campionessa di nuoto dal fisico mozzafiato e stella di prima grandezza del cinema degli  anni 40 e ’50.

     
    E’ morta ieri a 91 anni, dopo essersi ritirata nel 1962, a seguito il matrimonio con Fernando Lamas e dopo aver tentato ruoli non acquatuici che però furono un flop rispetto a  ”Easy to Wed” e “Neptune’s Daughter“.

     
    Il suo più grande successo è stato, nel 1944, Bellezze al bagnodi George Sidney, ma vanno ricordati anche  Ziegfeld Folliesdel grande Vincente Minnelli (1945), Facciamo il tifo insieme di Busby Berkeley (1949), La figlia di Nettunodi Edward Buzzell ( sempre del ‘49), La ninfa degli antipodidi Mervyn LeRoy (1952) e Nebbia sulla Manica di Charles Walters (1953).
    Il suo ultimo film è stato Il grande spettacolo (The Big Show) del 1961, dopodiché ha preferito uscire dal mondo della celluoide per dedicarsi ad atività benefiche e filantropiche, prestandosi anche come insegnante di nuoto per bambini ciechi.

     
    Il suo film più importante è La ninfa degli antipodi (Million Dollar Mermaid, 1952) in cui per la prima volta, non si limitò al ruolo di brillante star della rivista, mostrando un insospettato talento recitativo che, a ben vedere, riemerge anche in Vento di passione, girato in Italia nel 1956, con Jeff Chandler.

     
    Comunque il mio film preferito è il suo primo alla Universal (dopo la lunga fase MGM), un thriller tratto da un soggetto di Larry Marcus e Rosalind Russeil, in cui sosteneva il ruolo di un'insegnante di musica che rischiava di essere assassinata da un giovane psicopatico, intitoolato Mister X, l'uomo nell'ombra (The Unguarded Moment, 1956),che al’epoca ottenne uno straordinario successo e le fece guadagnare i maggiori riconoscimenti come interprete.
    Ho semprer avuto un sogno: un musichall con lei diretto da Bob Fosse, che certamente sarebbe stato spettacolare, una totale e convincente (più di quanto accade oggi negli USA) della struttura del genere, con un 'alternanza tra la dimensione tragica e il ritmo di numeri jazz.

     
    Ora, magari, riuniti in cielo, stanno già programmando la prima stesura.


  • Fatti e Storie

    Premi a Cannes, Giannini torna alla regia e… non solo

    Sorrentino non c’è l’ha fatta, ma lo stesso “La grande bellezza” è stato fra i film più applauditi e ammirati della 66° edizione del Festival di Cannes, più di Soderbergh e di Refn, anche se meno di “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche, Palma D’Oro e di “Inside Llewyn Davis” dei fratelli Coen, Premio Speciale della Giuria, che ha anche premiato, come attori, Brucer Dern per “Nebraska” di Payne e Bérenice Bejio per “Le Passè” di Asghar Farhadi.

    Ci consoliamo pensando alla Menzione Speciale della Giuria Ecumenica a “Miele” della Golino P { margin-bottom: 0.21cm;Ci consoliamo pensando
    alla Menzione Speciale della Giuria Ecumenica a “Miele” della
    Goli(ex aequo con “Soshite Ci Chi Ni Naru” di Koore-Eda Hirazuki) e alla vittoria al Grand Prix e al Prix Rivelation France 4 della Semaine de La Critique, di “Salvo”, docufilm firmato da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, forse la sorpresa più notevole del palmeres, assieme al Premio alla Regia per il messicano Amat Escalante, autore di Heli.
     

    In un Festival che premia film che mostrano l’incertezza del mondo (crisi economica in occidente e conflitti senza fine nel resto “povero” del globo), con la palma principale ad un film sessualmente esplicito e incentrato sulle differenze negate, interrotte, difficili da vivere e quella “speciale” all’iraniano Asghar Farhadi, che ci dice in che modo si può assumere le proprie responsabilità per gli errori del passato, raccontandoci la vita quotidiana di una famiglia ricomposta, dove i segreti di ciascuno e la complessità delle relazioni si rivelano a poco a poco, basandosi sul concetto che solo la verità ci farà liberi; non tanto il premio a “Miele”, quanto quello a “Salvo” dei due esordienti registi siciliani Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, in concorso alla Settimana della Critica, dove l’Italia mancava da sette anni, che racconta il sottobosco della mafia a fatta di galoppini spietati, invisibili, pericolosi e senza scrupoli,che uccidono con una freddezza inimmaginabile; diventa emblematico e significativo.
     

    Forse ancor più de “La grande bellezza” di Sorrentino, dotto, sontuoso, complesso, dove Roma è metafora dell’Italia tutta, paese logoro e decadente, popolato di nobili e squattrinati, nani, ballerine, santi, prelati, prostitute, cocainomani, dove il protagonista si interroga sulla vita che passa, sulla vecchiaia, sul cupo dissolvi, la noia, l'inconcludenza di un mondo popolato di ricchi e viziati, o presunti tali e tuttavia profondamente infelici.
     

    Film grande, autentico capolavoro certamente, ambizioso e volutamente imperfetto, misterioso, affascinante nella sua visionarietà, ma troppo intellettuale, ricercato e letterario, potente, complesso, forse troppo in anticipo sui tempi, anche rispetto ad un Festival “avanti” come Cannes.
     

    Sorrentino descrive una realtà decrepita e lo fa in modo visionario, ma non surreale se si guarda a quando accade sotto i nostri occhi, con l'ex ministro Nicola Mancino, che prima dell'inizio dell'udienza sulla trattativa Stato-mafia, che ha preso il via questa mattina a Palermo e in cui è imputato di falsa testimonianza, dichiara: “io ho sempre combattuto contro la mafia e non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia” e chiede, indignato, “uno stralcio”.
     

    Una Nazione nella quale proprio nel giorno del ventesimo anniversario della strage di via dei Georgofili a Firenze, avvenuta il 27 maggio del 1993 e che fu l’ennesimo messaggio di Cosa Nostra alla politica, a oltre mille km di distanza, prende il via, nell'aula bunker del carcere palermitano di Pagliarelli, davanti ai giudici della corte d'assise, il processo sulla trattativa tra Stato e mafia, con, sul banco degli imputati, proprio lo Stato, assieme con Cosa nostra: i capimafia Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, ma anche l'ex senatore Marcello Dell'Utri, l'ex Presidente del Senato Nicola Mancino, gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il pentito di mafia Giovanni Brusca e il collaborante Massimo Ciancimino, accusato di concorso esternoin associazione mafiosa e calunnia all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre Mancino, ex Ministro degli Interni, deve rispondere di falsa testimonianza.
     

    Al centro del processole telefonate tra l'ex consigliere giuridico del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, Loris D'Ambrosio, morto la scorsa estate, e l'ex Presidente del Senato Nicola Mancino, colloqui iniziati il 25 novembre del 2011 e proseguiti fino al 5 aprile del 2012, tutti intercettati dalla Procura di Palermo, che vuole chiamare a testimoniare persino il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
     

    Surreale Italia, con la sua storia, la società, le ombre numerose che si affastellano negli angoli bui della sua coscienza di Paese alla ricerca di una trasparenza che non arriva, mentre aumentano i disagi, le sperequazioni, le fratture fra le componenti della comunità, sempre più esposta, tentennante ed insicura.
     

    Torna alla regia dopo 25 anni in questa Italia (“Ternosecco”, il suo primo film come regista è del 1987), Giancarlo Giannini, e lo fa con un thriller girato in lingua inglese, ma ambientato in Canada, fuori dall’Italia per parlare però di questa, delle sue atmosfere lugubri e violente, in cui nulla è come appare e nessuno può dirsi immacolato.
     

    Ti ho cercata in tutti i necrologi” ha per protagonista Nikita (lo stesso Giannini), uomo che, una sera, si ritrova coinvolto in una partita a poker in una sperduta villa fuori Toronto e per poter estinguere il suo debito di gioco, accetta di partecipare ad una caccia all'uomo in cui venti minuti separano lui dai creditori che, con i fucili in mano, avranno quel lasso di tempo per stanarlo ed ucciderlo, mentre se riuscirà a salvarsi estinguerà il suo debito. Sopravvissuto, Nikita entra in una nuova intima dimensione dove il terrore e la follia si insinueranno lentamente e misteriosamente, a tal punto da non riuscire a desistere dal desiderio di essere “cacciato”.
     

    Interpretato anche da F. Murray Abraham, Silvia De Santis, Jeffrey R. Smith, Jonathan Malen e Jeffrey Knight, il film uscirà nei cinema il 30 maggio, distribuito da Bolero Film e, pare, si gioverà di un ritmo intenso con grande lavoro su sonoro e montaggio, che evocano un capolavoro di John Woo: “Senza tregua”.
     

    Più scaltro di Sorrentino Giannini, che si rifà a stereotipi internazionali e di successo, per non rischiare di non essere compreso e presentarsi agguerrito anche sul mercato internazionale.
     

    La prima del film a Torino, al cinema Massimo, nella città in cui sono state girate le uniche scene italiane e soprattutto in quella delle onoranze funebri “Giubileo” che è (non si tratta di uno scherzo) fra gli sponsor più cospicui del film.
     

    Presentandolo con la protagonista Silvia De Santis, Giannini ha detto di aver già scelto la sua bara: di pino marittimo, come quella di Giovanni Paolo II e, naturalmente, targata “Giubileo”; un modo davvero macabro di sostenere uno sponsor, ma forse l’unico, in una nazione ormai cimiteriale.
     

    “Mafiosi convertitevi, contro di voi don Puglisi ha vinto", ha ammonito Papa Bergoglio riecheggiando l’anatema lanciato ai boss da Wojtyla vent’anni fa, in occasione dell’anniversario della morte del coraggioso prete di Brancaccio, mostrando ancora una volta la sua propensione ad orientare la Chiesa verso le periferie del mondo, per farle presenti alla coscienza di tutti.
     

    Da domenica Don Puglisi, il primo martire della mafia, è beatificato e in 80.000 lo applaudono a Palermo, col cardinale Paolo Romeo, che dice che è stato ucciso 'in odium fidei', in odio a quella fede in Cristo, che è amore e che promuove l'uomo, all'opposto di quello che invece cosa nostra vuole.
     

    E' impressionante il colpo d'occhio davanti all'altare al Foro Italico, con le spalle al golfo di Palermo illuminato da un sole caldo, affiancato da una gigantografia di un don Puglisi con il suo sorriso di sempre, dai 45 vescovi e dagli 800 sacerdoti che concelebrano il rito, cui fanno corona migliaia di fedeli.
     

    Ma lo spirito di '3P', come veniva chiamato Padre Pino Puglisi, pare distante e lontano, con un sorriso incupito da ingiustizie continue e continue dimenticanze verso quegli umili che ha sempre difeso e protetto.
     

    "Pino lo avrei preferito vivo piuttosto che santo”, ha detto il fratello ed una sferzata di gelo si è abbattuto sul cuore di tutti i presenti, quelli che oggi dichiarano, applaudono e festeggiano, ma che Pino hanno lasciato solo, come accaduto tante volte in Sicilia e in altri luoghi di questo strano e straziante Paese.
     

    Un paese senza speranze per i giovani e senza accoglienza per gli stranieri, un Paese descritto senza alcuna pietà in “Mare chiuso” di Stefano Liberti e Andrea Segre, in cui la gente umile è senza diritti e senza vie d’uscita, in cui la costituzione è continuamente negata e la politica si riempie solo di belle parole.
     

    Dice Mc Luhan: “La fotografia è una forma di automazione capace di eliminare i procedimenti sintattici della penna e della matita”. E prima: “Con la fotografia gli uomini hanno scoperto il modo di presentare rapporti visivi senza una sintassi”. Poi cita Joyce, che chiama la fotografia “scrittura automatica”.
     

    Quindi, secondo tale visione, l’errore di Sorrentino è di aver introdotto una sintassi, un pensiero, dentro la semplice fotografia che, invece, doveva crudamente rappresentare la realtà di una Nazione che fa acqua da tutte le parti.
     

    Ma il merito (o demerito se si vuole) di Sorrentino, è di aver concepito e realizzato un film che, come il corpus fotografico di Eriberto Guidi, si presta senza mezzi termini alla messa in discussione delle tesi mcluhaniane, con una storia ed una realizzazione dal vago sapore pitagorico, con una eterna ed inutile lotta fra il pari e il dispari, fra il femminile e il maschile, che si traduce nel contrasto fra cromatismi opposti, con l’occlusione determinata della infinita varietà di grigi, nella cocciuta, inesauribile convinzione che il messaggio non debba finire con l’identificari o soccombere al medium, ma il narratore è come il poeta dei “Fiori del male”, con la stessa fofania naturale dissimulata di metafore surreali, che crea l’incontro con l’ “insieme non visivo di relazioni”, che fa trapelare, dall’informe caos dei segni, un discorso coerente sulle radici strutturali della materia osservata e amaramente criticata.
     

    Così, guardando Sorrentino con sguardo attento, si accorgiamo che la nostra democrazia è in pericolo, non a causa di un regime autoritario, non per un tiranno che tenta di usurpare il potere della Repubblica, bensì per una lenta, progressiva, insorgente forma di cultura della non cultura, di appiattimento della proprietà di riflessione contro un nulla su cui riflettere, una “tecnica del kapò”, contro cui occorrerebbe fare molta attenzione, perché è la maniera più subdola con la quale il tiranno riesce a sviluppare delle contrapposizioni fra i suoi sudditi, perché è in grado di dividere, separare, contrapporre, delegando un nulla per non risolvere nulla, per mantenere i motivi che ci portano sempre a rivolgerci al lui e chiedergli di essere aiutati, dolcemente, dominati dai sorrisi che nascondono soprusi.

  • Arte e Cultura

    Cannes 2013: Tre Film ed Uno Spacco

    La Vie d’Adèle”, il nuovo lavoro di Abdellatif Kechiche, il regista e sceneggiatore tunisino di opere osannate come “Venere Nera” e “Cous Cous”, che arriva in concorso per la prima volta a Cannes, è un progetto ambizioso e molto personale, diviso in due capitoli, che narra di un amore saffico, con vicenda tratta dalla graphic novel “Il blu è un colore caldo”, storia di formazione sessuale, ma ancor prima di vita, che segue l’amore tra due persone dello stesso sesso, ma assai diverse fra loro.

    Il film, elegantemente narrato, con un fondo di pacata poesia, con una strepitosa interpretazione della giovane attrice francese Adèle Exarchopoulos e quella della più nota co-protagonista Léa Seydoux, già vista in “Midnight In Paris” di Allen, ha convinto la stampa, anche nelle difficili scene di sesso che il regista non ha voluto omettere nelle tre lunghe ore di girato, che passono però in fretta, fra momenti di semplicità e grazia ea lunghe scene carnali, che appaiono caste rispetto al secondo nudo “involontario” (si fa per dire), di Eva Longoria, ex casalinga disperata ed ora consulente di Obama, che non contenta di aver mostrato le sue grazie ai Golden Blobe, sul red carpet di presentazione del film Jimmy P.: Psychotherapy of a Plains Indian (pessimo ed inasulso), arriva con un lungo abito Atelier Versace, ricamato, color acquamarina e mentre sale la scalinata scopre lo spacco fino al luogo da cui origina il mondo, secondo il celebre quadro di Coubert conservato al Musée d’Orsay.

    Tornando a cose più serie, splendido “Nebraska” di Alexander Payne, girato interamente in bianco e nero per rendere più cupa l’atmosmera da “grande depressione”, in cui non ci sono né i soleggiati vigneti californiani di Sideways né i paradisi hawaiani di The Descendants – Paradiso amaro, ma solo gli infiniti spazi di nulla nel cuore dell’America rurale, come quel Nebraska da cui lo stesso regista proviene e in cui è ambientata questa sua nuova opera in concorso al fwestival, in cui narra il viaggio di un padre anziano e un po’stordito, Woody (un 76enne Bruce Dern in forma da Oscar), convinto di dovere incassare un milione di dollari a una lotteria che non ha vinto e di suo figlio David (il comico del Saturday Night Live Will Forte), che per il bene del genitore decide di assecondarne l’illusione accompagnandolo (e ritrovandolo) in questo cammino.

    Non si pensi però ad un film solo drammatico: come accade per i Coen e per Sorrentino, la sapiente ironia di Payne riesce a mescolare disciplinatamente umorismo e malinconia, sarcasmo e umanità, riuscendo a divertire e intenerire (molto) allo stesso tempo.

    Tra violenze disumane e lirici silenzi si sviluppa, infine, “Only God Forgives “(Solo dio perdona, titolo italiano che accompagnerà l’uscita nazionale dal 30/5), ultimo lavoro del regista cult Nicolas Winding Refn, che è riuscito, al solito, a spezzare la critica affollata al 66° Cannes, con una leggera sovrabbondanza di delusi, persino arrabbiati, specie tra chi del regista è cultore assoluto o chi – conoscendolo meno – si aspettava un sequel di Drive, mentre qui il 43enne cineasta danese non concede attenuanti agli sguardi superficiali di spettatori pavidi.

    Il film è dedicato ad Alejandro Jodorowsky ed è il racconto dio un uomo deciso ad affrontare Dio ed anche del rapporto fra madre e figlio, un film dispwerato che trova nella la disumanizzazione l’unico mezzo per una vita “altra”, con una emblematica e terribile scena colò figlio che penetra con la mano l’utero del cadavere materno, al fine di riappropriarsi di se stesso, e prepararsi al sacrificio espiatorio di una spirale di dolore.

    Il primo proprietario del richiamato quadro “L'Origine del mondo”, con ogni probabilità il committente stesso della tela, fu il diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey (1831-1879), personalità eccentrica della Parigi bene degli anni sessanta del XIX secolo, che mise insieme, prima di essere rovinato dai debiti di gioco, un'effimera ma sorprendente collezione, dedicata alla celebrazione del corpo femminile.

    Il quadro, che è opera d’arte sensibile e doorosa e non già la descrizione quasi anatomica dei genitali femminili pure rappresentati senza nesumna attenuazione o artificio storico o letterario, non è la prima prova di pornografia artistica, ma, grazie al grande virtuosismo di Courbet, alla raffinatezza della gamma delle tonalità ambrate, sfugge allo statuto d'immagine pornografica, con una schiettezza ed audacia e novità di linguaggio che tuttavia, come in Refn e Jodorowki, non escludono un legame con la tradizione.

    Il risultato, nel caso di Coubert, fu una pennellata ampia e il ricorso al colore ricordano della pittura veneziana,con un appello diretto a Tiziano e al Veronese, al Correggio e alla tradizione di una pittura carnale e lirica e nal caso del film, un’opera nutrita di sospensioni liriche, dialoghi rarefatti, con colonna musicale straordinaria (firmata da Cliff Martinez, ex batterita Red Hot Chilly Peppers e autore di soundtrack per film come Spring Breakers, Contagion.., suo “litigioso” compagno di viaggio già per Drive), in costante sotto/soprafondo, per illustrare una violenza che è manifesta e in cui tutto è “segno”, come nella intera filmografia di quest’autore, che considera l’arte stessa un atto di violenza, una penetrazione sessuale, come era accaduto in passato per Bunuel e, più di recente, con le sue atmosfere ipnotizzanti lungo labirintici corridoi rossi, le alternanze di rallentamento/accelerazione improvvise, i tagli di luce, l’estetizzazione al limite del sopportabile, l’ossessione per la profanazione del sacro, per David Lynch e Wong Kar Wai, autori immaginifici e coraggiosi, con cui, come per Refn, o essere d’accordo o totalmente contro.

  • L'altra Italia

    Una nazione di polvere rossa

     

    Sessanta anni di storia, dal 1949 al 2005, di una nazione complessa, la Cina, raccontati attraverso i fatti minuti degli abitanti di uno dei quartieri più antichi e popolari di Shanghai. Un padrone di casa  presenta il quartiere ad uno studente appena iscritto al college, lo invita ad ascoltare le conversazioni sociali che vi si svolgono ogni sera, con protagonisti decine di personaggi, le loro fortune e sfortune, casi e caos, andate e ritorni, contingenze e lunghe durate.

    Gli abitanti del quartiere hanno infatti la consuetudine di riunirsi per una conversazione serale, creando storie a partire da qualunque spunto, “come se fosse un modo di vedere il mondo in un granello di sabbia”. Dal 1949, quando il Partito Comunista prese il potere, attraverso gli anni della Rivoluzione Culturale, fino alla riforma economica di Deng e al socialismo "alla cinese", con l’operaio della accaieri che diventa poeta socialista, per poi ricadere nel nulla e nell’oblio e l’insegnante in pensione che impazzisce per i granchi che non può più permettersi o un uomo che fa del suo smisurato appetito l’elemento del suo successo.
     
     

    Scritto da Qiu Xiaolong, nato prioprio a Shanghai nel 1953 e che dopo i fatti di Tienanmen è rimasto negli Stati Uniti dove insegna Letteratura cinese alla Washington University, autore di successo di gialli incentrati sul personaggio dell’ispettore Chen, protagonista di una fortunata serie tradotta in 12 Paesi “Il vicolo della polvere rossa”, da noi edito nel 2010 da Marsilio, è la sua prima opera francamente narrativa, pubblicata con grande successo a  puntate sul quotidiano Le Monde e riedita in Italia quest’anno.

    Con una prospettiva panoramica unica sulla storia di formazione e trasformazione sociale della Cina, Qiu Xiaolong fa del Vicolo un microcosmo a immagine di un intero Paese, di cui ci permette di afferrare più di mezzo secolo di vita quotidiana, offrendoci ancora, come nei suoi raffinati polizieschi, uno sguardo penetrante e lucido sulla Cina moderna.

    Nei ventinovi capitoli-racconto, l’autore ci offre uno spaccato sulla storia della Cina attraverso le vicende paradossali della gente comune, come Bai Jie, la giovane infermiera volontaria durante la guerra in Corea nel 1954, data per morta e celebrata come eroina popolare nel vicolo, che quando rientra in patria, è boicottata da tutti e da tutti guardata con sospetto. Oppure la storia di Mimi, giovane soldatessa dell'Esercito di Liberazione del popolo, qualifica che durante la Rivoluzione culturale faceva ottenere considerazione sociale e garantiva, anche dopo il congedo, un buon lavoro. Ma negli anni '80 le cose cambiano.

    Conoscere bene l'inglese diventa più importante che indossare una divisa. Così, Mimi, ormai anziana, scivola ai margini della società e, quando chiede aiuto, ottiene un rifiuto da Vecchio Ke, che è diventato ricco dirigendo una joint venture cino-americana. In "Di seta e di sangue" si racconta di un imprenditore, Peng Lianxing, che, corrompendo i funzionari del partito a colpi di bustarelle, acquisisce gli edifici di un quartiere e, dopo aver sfrattato i residenti con indennizzi irrisori, costruisce un centro commerciale.
     
     

    Lo stile è fatto di una prosa semplice e curata, che rimanda all'esperienza di poeta e traduttore di Xiaolong, autore i cui romanzi, nella madre patria, subiscono tagli e modifiche, con Shanghai che non può essere menzionata e il suo nome è sostituito con quello di una misteriosa città H. I racconti trasmettono in maniera vivida anche i danni della Rivoluzione Culturale, e lo sforzo del popolo cinese per non finire travolto dalle tempeste politiche, che possono distruggere in un giorno gli sforzi di una vita. Un’opera davvero interessante, per capire come oggi la Cina stia facendo i conti con il suo passato, correndo con la velocità della luce verso un futuro ancora non del tutto democratico.
     
     

    "Negli ultimi anni è aumentata la corruzione. Ma solo in alcuni casi il malaffare viene perseguito dalla polizia. E questo lo decide il partito, in base ai suoi interessi. E poi resta la censura sui mezzi d'informazione. Se sul motore di ricerca Baidu si inserisce il nome del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo (in carcere dal dicembre del 2008) non si trova alcun risultato", ha detto qualche tempo fa in una intervista a “Il Sole 24 Ore” Xialong.
     
     

    Anche i suoi gialli con protagonista l’ispettore Chan, poliziotto amante della poesia e della buona tavola, tutti editi da noi da Marsilio (La misteriosa morte della compagna Guan, Visto per Shanghai, Quando il rosso è nero, Ratti rossi) sono ottimi racconti che servono al lettore occidentale per comprendere gli aspetti più interessanti di una società antica ma in forte movimento verso il futuro con le sue contraddizioni e i suoi contrasti.

  • Arte e Cultura

    Venezia al femminile: La lezione di Winona Ryder

    Quella di Venezia 2012 è una mostra al femminile, con  tre quarti dei registi, nelle varie sezioni,  che sono donne. 

    E questo ci fa un enorme piacere,  sia perché lo sguardo è più fresco, sia perché il punto di vista è differente. 

    Forse il motivo vero è che gli organizzatori, con gli occhi di tutti puntati addosso, non volevano incorrere in quanto accaduto a Cannes lo scorso maggio,  con un gruppo di attrici e registe che scrisse una lettera aperta a Le Monde, criticando l’assenza di autrici tra i 22 finalisti in corsa per la Palma d’oro; lettera molto aspra,  dove, fra l’altro, si leggeva una cosa piuttosto vera: “gli uomini amano le donne per la loro profondità, ma solo quando hanno una scollatura profonda”.
     

    Di fatto, a guardare la storia del grande festival francese, con un’unica donna ad aver vinto la Palma d’oro (Jane Campion, nel 1993,  con “The piano”), il sospetto di maschilismo appare piuttosto giustificato. 

    E la situazione è appena meno grave per Venezia, con due premi, a Mira Nair per Monsoon Wedding (2001, ultima della prima fase Barrera) e, poi, fra l’altro con un film discutibile e con la vistosa complicità, dell’ex-fidanzato Tarantino, a Sofia Coppola, per  Somewhere, lo scorso anno (l’ultimo,  del regno Muller). 

    Barrera, tornato in sella dopo 11 anni,  ha voluto rimediare. Ed ecco allora una nutritissima compagine femminile ed una maggiore apertura al complicato ruolo delle donne nella società. 

    Ma, curiosamente,  il vero simbolo di questa “infiltrazione”, almeno a me pare,   sta in un film maschile: The Iceman;  noir di Ariel Vromen,  basato sulla vera storia del killer della mafia Richard Kuklinski, con Winona Ryder nel ruolo della  moglie,  che da vita ad un personaggio in cui si trasferiscono le complessità di un universo (quello di Eva) che si divide fra luci e ombre, convenzionalità e suo superamento, con infinite sfumature di colore e innumerevoli varianti di grigio. 

    Ruolo ambiguo, ignaro ed insieme consapevole, come ambigua è la femminilità  in crescita e cambiamento in questi anni.

    Israeliano di nascita, con all’attivo l’eccellente “Rx” (2005), Vromen realizza un doppio spaccato sulla dualità: una più evidente (quella del killer, spietato esecutore e, insieme, padre esemplare e perfetto borghese); l’altra più complessa e ramificata (la moglie), grazie alla straordinarie doti della Ryder.

    Le stesse che facevano emergere una femminilità che ancora soffre, fra dubbi e consapevolezze, ne “Il cigno nero” e in “Dilemma” di Ron Howard e che, nelle note più tipiche e singolari di questa straordinaria attrice, l’hanno fata scegliere, ancora una volta, da Tim Burton (suo mèntore in Beetlejuice - Spiritello Porcello e Edward Mani di Forbice),  per dare voce ad  uno dei personaggi più doppi ed ambigui di Frankenweenie, sua prossima fatica in stop-motion.

    Ritornata sulle scene dopo l’arresto per cleptomania, nel 2002, la Ryder ha subito recitato  in modo incredibile in due ruoli complessi: A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare, presentato a Cannes e in The Darwin Awards - Suicidi accidentali per menti poco evolute, successo al Sundance Film Festival; mettendo in campo la stessa ambiguità, fatta di cielo e inferno, ingenuità e pragmatismo, che l’avevano resa immortale in film come Dracula di Bram Stoker e L'età dell'innocenza. 

    A Venezia, in conferenza stampa, con abito nero al ginocchio e coda di cavallo, la Ryder, con il suo sguardo magnetico e l’eterna espressione da adolescente, ha detto una cosa che riguarda molte donne di oggi. 

    “Sono entrata in una fase in cui la cosa che più voglio è vivere: avere una bella, una buona vita. Il lavoro per il lavoro non mi interessa più. E così solo se c'è una pellicola, una storia talmente avvincente da distogliermi da questa mia vita, mi ci butto: come in questo caso, appunto. Grazie a un ruolo del tutto diverso da quelli a cui sono abituata, che mi ha costretto a mettermi in discussione e a cercare un approccio differente. Giocando tutto sull'ambiguità del personaggio: un concetto che noi attori conosciamo bene, visto che il nostro mestiere è fingere di essere qualcun altro".

    Coraggio e voglia di novità, di respiro, di sfida e di fantasia: tutto quello che pare mancare, oggi, a noi uomini,  arrabbiati e messi in un angolo. 

    E, soprattutto, una giusta collocazione dei valori, umani e professionali, frutto di una maturazione dolorosa, con il  successo raggiunto da ragazzina, la fama planetaria, lo status di superstar e, poi, le disavventure legate alla cleptomania, l'appannamento della carriera, il rischio del viale del tramonto.

    Il 2001, l’anno della sua capitolazione, l’anno in cui fu sorpresa a rubare in un grande magazzino di Beverly Hills e che sembrò significare la sua personale “Torri Gemelle”, appare lontano anni luce. 

    Ancora più sfuocata sembra la relazione con Johnny Depp, che si fece tatuare “Winona Ryder”, poi convertito in “Wino Forever”, “Vino per Sempre”, dopo la burrascosa rottura. 

    Ma mentre Depp è rimasto avvinghiato ad uno stereotipo infantile di genio e sregolatezza; lei è cresciuta, come attrice e come essere umano,  con  l’aria mite e un po’ fragile,  dietro cui conservrea una tangibile traccia di turbolenza e, soprattutto, una grande voglia di mettersi alla prova, senza paura o tentennamenti e per comprendersi (e accertarsi) fino in fondo.

    Winona Laura Horowitz, la bambina nata nel Minnesota, in  una piccola cittadina dalla quale ha preso il nome, trasferitasi, con i genitori, in una comune situata in un lotto di trecento acri vicino ad Elk, in California, dove non c'era la corrente elettrica, con Timothy Leary come padrino e Allen Ginsberg come amico; non è più la ragazzina attratta dalla morte di Beetlejuice, né la protagonista tormentata di Edward mani di forbice e neanche la donna con depressione e attacchi di panico di “Ragazze interrotte”. 

    Oggi è una donna consapevole dei suoi problemi, con molte risposte ma, soprattutto, con tante domande fondamentali,  che dimostrano (come ha fatto sullo schermo in The Private Lives of Pippa Lee), che una è costretta, nella vita, a molti ruoli separati, come fossero molte vite diverse (moglie, madre, amante) e che resta un essere fragile, fragilissimo,  finché basa tutta la sua realtà sugli uomini. 

    Ma che insieme possiede molte armi ed innumerevoli risorse, come lo spirito di avventura e la sensualità, capaci di farle vivere, in ogni istante, una vita contraddittoria,  ma anche piena.

    Non è un caso, credo, che il suo complesso io sia stato messo in totale evidenza in quella biopsia sporca e nevrotica sull’America di oggi,  che è stato, nel 2004, “Ingannevole è l’amore sopra ogni cosa”, diretto da un’altra donna “liberata”: Asia Argento e tratto dal romanzo, molto femminile,  di J.T. Leroy.

    E’ in questo  film, più che altrove, che l’accoppiata Argento-Ryder, sembra dire alle altre che liberarsi non è una colpa e, anzi, bisogna liberarsi ancora di più, per liberare tutti.

    Uno schiaffo per chi si sente vittima di un orgoglio maschile distrutto ed in cerca di nuove identificazioni, un modello che potrà non esaltare, ma che ha l'ingrato compito di introdurre un bel bisturi dentro la pancia di un una virilità che, ipocrita com’è, non vorrebbe mai vedere come sono fatti i suoi nervi, le fibre, i muscoli e il midollo spinale, tutti ormai purulenti.

    Da sempre sono (in realtà siamo, io e gli altri dell’Istituto Lanterna Magica de L’Aquila), interessati al cinema femminile, protagonista, ad esempio, della nostra rassegna di fine estate-inizio d’autunno “Frammenti di donna”. 

    Ed il nostro interesse è tale (e crescente) che, nonostante le scarse risorse, stiamo cercando di stabilire accordi con l’Associazione “Donne dell’Audiovision Promotion”, fondata nel 1996 da Cristina Zucchiatti e Donatella Senatore, coadiuvate da Paola Poli, che da anni cura, alla Casa del Cinema di Roma, il premio “Afrodite”,  dedicato all’universo femminile nell’ambito dello spettacolo, in particolare cinema, fiction e  creatività artistica, con rassegne sempre di grande interesse.
     

    Premiate quest’anno (a luglio, in una serata condotta da Laura Delli Colli, presidente della giuria 2012), le attrici Laura Morante, Basrbara Bubulova, Antonia Liskova, Sarah Felberbaum e Francesca Inaudi e, come produttrice, Grazia Volpi, che ha esordito nel 1975, per la cooperativa Aata, con Quanto è bello lu morire accisu di Ennio Lorenzini, e poi prodotto Il sole anche di notte, Fiorile, Le affinità elettive e Tu ridi dei Taviani e, degli stessi, il capolavoro televisivo, in due puntate (2002) Resurrezione,  dal romanzo di Leone Tolstoj e il recente (Orso D’Oro a Berlino) Cesare deve morire.

    Speriamo di avere, nel prossimo anno, l’opportunità di ospitare lei ed alcune fra le premiate, in una rassegna dedicata al cinema femminile,  a cui coinvolgere altri enti ed istituzioni, come, ad esempio, “Sguardi al Femminile”, ideata nel 2004 dall'associazione Culturale Mediterraneo, con le prime due edizioni tenute alla Stazione Termini, presso il mezzanino giallo e le successive due all'Università Roma Tre e “Lo schermo è donna”, della “Sezione Cinema Donne della Biblioteca di Genere”, che a giugno organizza da 15 anni, a Fiano Romano, una rassegna, in sei serate, dedicata alla settima arte, con le protagoniste delle ultime stagioni, tra giovani esordi e volti noti del panorama italiano. 

    Un evento in cui, però, dimostrare che, anche se raramente, gli uomini sanno parlare di donne, come accaduto con Truffaut e Almodovar o nel più recente “The Lady” di Luc Bresson ed intrecciate contributi come Quando la notte di Cristina Comencini, con Pina, grande omaggio di Wim Wenders a Pina Bausch; My Week with Marilyn di Simon Curtis con Franca, la prima, di Sabrina Guzzanti, sulla grande Franca Valeri;  con “La passione di Laura”, omaggio complesso a Laura Betti, attrice, cantante,  intellettuale e animatrice culturale, per anni direttrice del Fondo Pasolini, ruvida e scostante, da sempre in armi, con quell’inconfondibile timbro di voce, contro i pregiudizi, sempre controcorrente,  che sosteneva (in tempi non sospetti): “Farei qualunque cosa mi venisse chiesta da un movimento femminile, tranne farne parte”,  da parte del maschio Paolo Petrucci (con il quale ebbe un lungo sodalizio, artistico, oltre che umano); con La Brindille, di Emmanuelle Millet; Turn Me On, Goddammit!,  dell’esordiente norvegese Jannicke Systad Jacobsen;  con Girl Model, prodotto a quattro mani di David Redmon e Ashley Sabin; con Butter, di Jim Field Smith.
     

    Per poi chiudere con due cicche della nostra Cineteca de L’Aquila: Femmine folli del ’22 di Erich von Stroheim e Susanna di Howard Hawks del 1938, per mostrare come, in poco più di mezzo secolo, sia cambiato lo sguardo maschile sulle donne e come, per fortuna, siamo lontani, almeno, dalla feroce misoginia della donna-mostro di “Lola Montès”; “ Nella società degli uomini”; “L’angelo azzurro”, “L’ape regina – Una storia moderna” e “La donna scimmia”. 

    Una rassegna che mostri, in doppia versione femminile  e maschile, che è bene guardarsi da uomini meschini, egoisti, squallidi, volgari e abietti, abili nell’arte del manipolare, ingannare, in una parola, fottere per il puro piacere di farlo, procurando inutili e gratuite sofferenze agli altri, che si giustificano affermando che questo è l’unico modo per difendersi dal nemico-donna. 

    Qualcosa che induca, soprattutto, a comprendere (come fa la Ryder a più riprese ed in vario modo), che se non si recupera il rispetto della differenza e dell’ascolto, saremo sempre più vittime,  tutti, maschi e femmine, di una società arrivista e moralmente riprovevole, per lo più governata da relazioni fasulle e pericolose,  ma soprattutto opprimente, con gretti, infimi ed annichilenti rapporti di forza e di potere (non solo tra uomini e donne,  ma anche tra uomini),  in cui nessuno è più un essere, ma solo un automa agitato dall’avere.

  • Opinioni

    Scontro di populismi


    Una distanza infinita, ben superiore agli effettivi tre secoli di storia, separa la Francia di oggi da quella generata dalla prima delle rivoluzioni liberali. Come scrisse un anno fa Nicaolau Merker in “Filosofia del populismo”, uscito per i tipi di Laterza, la recente affermazione del Tea Party negli Stati Uniti e le ricorrenti ondate anti-immigrati, anti-islamici e anti-rom che scuotono il mondo conservatore europeo mettono seriamente in discussione la stessa idea che esista una “destra normale”, non tentata dalle sirene e dai toni violenti dei “tribuni della plebe” e pongono nuovamente al centro del dibattito internazionale il tema del “populismo”.


    E ferocemente populista e fortemente reazionario è l’atteggiamento assunto dal governo francese circa l’attuale emergenza migranti dal Nord-Africa, con blocchi a Ventimiglia e ferocie minacce al nostro governo. E guerra a questa Francia, dopo una prima fase di netta contrarietà all’accoglienza, la fa anche la Lega, con retromarcia sui permessi temporanei, sostegno all’operato di Berlusconi, che recentemente ha firmato i permessi ai circa 25mila nordafricani arrivati in Italia dal primo gennaio al 5 aprile e muso duro contro i francesi. Parigi ha risposto con uno stile simile a quello del Carroccio: il ministro degli Interni Gueant non ha detto “fora da i ball” mai ci è andato vicino, affermando: “Non accetteremo un’ondata di immigrati dall’Italia” e fornendo così al traballante Maroni, come ha notato l’Unità, un assist importante ed un invitante capo espiatorio.


    “Da Parigi c'è stato un atteggiamento di ostilità”, ha tuonato il ministro dell’Interno Maroni durante la sua relazione al Senato, ringalluzzito dall’insperato autogoal francese, poi rincarando: “A meno che non esca da Schengen o sospenda il trattato, la Francia non potrà fermare la libera circolazione dei tunisini, già sbarcati in Italia”. Ma, intanto, in Aula, con un giro di parole, ha spiegato che i permessi “saranno concessi a chi ha manifestato l’intenzione di andare in un altro Paese europeo”. Piccola dimenticanza: i tunisini che intendono restare in Italia e che ugualmente avranno il permesso, per i quali sarà allestita l’accoglienza dalla Protezione civile e dalle Regioni, dovranno essere assistiti dal nostro Paese, come precisa l’accordo governo-Regioni siglato mercoledì sera e illustrato poi al presidente Napolitano. “Come mai Maroni si è dimenticato di dire che gli immigrati vanno assistiti anche se rimangono in Italia?”, si è domandato poi Bersani, concludendo che: “Probabilmente non ha voluto dire quello che la Lega non vuol sentire”.


    Populismo, come si vede, sempre populismo, comunque lo si guardi. Ernesto Laclau in “La ragione populista” (Laterza, 2008), fa coincidere con la forma stessa della cosiddetta politica recente l’affermarsi diffuso del populismo. In altre parole, il problema centrale con cui si è costretti a misurarsi quando si parla del populismo è a quali domande si proponga di rispondere e quali sfide metta in campo, più che il suo appartenere esplicitamente a una precisa “tradizione politica”. In questa prospettiva il sociologo tedesco Ulrich Beck legge, ad esempio, fin dalle prime pagine di “Potere e contropotere nell’età globale”, dello scorso anno, la crescita della nuove destre populiste alla luce della sua visione del mondo globalizzato: “Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all’assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui le frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L’incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull’economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovarnità e identità territoriali”.


    E’ in questa ottica va vista la crisi fra i due governi di destra, l’italiano ed il francese. E ancora più arroventato dai reciproci populismi, sarà l’incontro fra Berlusconi e Sarkozy, il 26 aprile prossimo. Sono lontanissimi i tempi dei sorrisi fra i due leader della destra populista, quelli del febbraio 2009 e dell’accordo tra l’italiana Enel e la francese Edf, per la costruzione di quattro centrali nucleari nel nostro Paese, con tanto di approvazione alla Camera del ddl dell’allora ministro dello Sviluppo Scajola, in cui veniva istituita l’Agenzia per la sicurezza nucleare in un Paese denuclearizzato come l’Italia. Ora i due populismi si affrontano su un tema scottante e se lo rimpallano, senza intezione di superarlo o risolverlo, ma col solo scopo di non scontentare i propri elettori.




Pages