Articles by: Carlo di stanislao

  • Opinioni

    La mia notte degli Oscar in Italia



    Questa notte, dalle 22,50, starò incollato al televisore, sintonizzato sul Cielo canale 26, per vedermi, in chiaro e sin dal pre-show, con l’arrivo degli ospiti e alcuni speciali sugli attori, registi e film candidati, la 87° edizione della assegnazione dei premi Oscar, con Patrick Harris, il Barney Stinson della serie tv How I Met Your Mother, co-protagonista del film di David Fincher Gone Girl – L’amore bugiardo, a fare da padrone di casa e Felicity Jones, Idris Elba, Nicole Kidman, Liam Neeson, Gwyneth Paltrow, Channing Tatum, Chiwetel Ejiofor, Shirley MacLaine, Benedict Cumberbatch, Meryl Streep, Oprah Winfrey, Matthew McConaughey e Lupita Nyong’o ad annunciare i vincitori e con gli intermezzi, che si preannunciano iridescenti, di Lady Gaga, Jack Black, Rita Ora, John Legend  e Adam Levine.

     
    Come al solito Hollywood celebrerà se stessa e lo farà nel modo migliore, tenendoci col fiato sospeso prima e con un fiume di parole a commento poi, sulla scelta, fra Boyhood, American Sniper, Grand Budapest Hotel, La teoria del tutto, The Imitation Game, Selma, Birdman e Whiplash per il miglior film; fra Alejandro González Iñárritu,   Richard Linklater, Bennett Miller e Wes Anderson per la regia; fra Michael Keaton, Benedict Cumberbatch, Steve Carell, Bradley Cooper e Eddie Redmayne per il miglior attore e fra Julianne Moore, Reese Witherspoon,  Rosamund Pike, Felicity Jones per la migliore protagonista.

     
    Per non parlare delle categorie minori: comprimari maschili e femminili, fotografia, sceneggiatura originale e non, scenografia e costumi, e, ancora migliore film straniero, con pronostici che si intrecciano e contraddicono e che, come al solito, alla fine non risulteranno neanche lontanamente veritieri rispetto a alle scelte dei 6000 iscritti all’Academy, tutti con diritto di voto e divisi in 17 settori, ognuno in rappresentanza di una diversa disciplina della produzione cinematografica: registi, attori, produttori, direttori della fotografia, sceneggiatori, compositori e via dicendo.
    Come al solito so con il mio sarà un pronostico sbagliato: film a Birdman, regia a Anderson, miglior attore Keaton ed attrice Pey; migliore sceneggiatura originale a Richard Linklater per “Boyhood” e miglior adattamento a Jason Hall “American Sniper”.
    Colonna sonora a Hans Zimmer per non cancellare del tutto “Interstellar”, montaggio a  Barney Pilling per non lasciare a mani vuote un film magnifico come “Gran Budapest Hotel”, migliore fotografia a Roger Deakins, per non incorrere nella cafonaggine di scordare Angelina Joilie al suo esordio come regista di un lungometraggio milionario e dare una mano al tiepidamente accolto “Unbroken”.

     
    Poi, per non sembrare accaniti verso Anderson e al contempo ricordare (come si fa spesso), il cinema italiano, a Milena Canonero l’Oscar per i costumi di “Grand Budapest Hotel; a Bill Corso e Dennis Liddiard quello per la scenografia, in modo da non lasciare fuori  “Foxcatcher” e Stephane Ceretti, Nicolas Aithadi, Jonathan Fawkner e Paul Corbould quello per gli effetti speciali, per ricordare il costosissimo “Guardiani della Galassia”, che senza un aiuto rischia il precipizio totale al botteghino.

     
    Credo che l’Oscar per il miglior film straniero se lo prenderà il polacco “Ida”, mentre io lo assegnerei a “Leviathan” di Andrej Zvjagincev, che riporta il cinema russo alla ribalta internazionale e che ha ricevuto varie nomination (Golden Globe, British Accademy, European Accademy e Cannes), ma nessun premio internazionale.
    Come dicevo, comunque, nonostante le mie convinzioni, i premi saranno certamente altri e, come faccio ogni anno, me ne farò una ragione, e verso le 3 del mattino, spegnendo la tv, cercando  qualche ora di sonno prima di tornare a lavoro, ricorderò a me stesso che sbaglio perché sono un dilettante.
    E, come al solito, per riconciliarmi con Morfeo disturbato dal salto d’orario, penserò, sdraiato sul letto,  a quanto diverso da quello di Hollywood è certo cinema che non ha vetrine e di cui si parla poco sui giornali e in tv e che non ha alcuna possibilità di uscire nei cinema, se non in alcune sale sparute.

     
    Certo mi verranno in mente gli splendidi fotogrammi di “Quadro nero”, opera-video con musiche di Marco Betta e testi di Andrea Camilleri, realizzata da Roberto Andò, incentrato sulla celebre “Vucciria” di Guttuso, andata il 7 febbraio in apertura di stagione al Teatro Massimo di Palermo, con Francesco Scianna e Giulia Ando' che danno vita ai due personaggi in primo piano nel quadro; dove Andò ricrea in modo sinestesico, con un gioco di sguardi nell'azione rallentata e un breve contatto carico di sensualità, un ambiente pieno di speranza e di vita e che ci ricorda che il cinema è soprattutto questo, al di là delle somme spese, dei lustrini e degli spettacoli di contorno.


    Mi ricorderò di Umberto Curi, che insegna storia della filosofia all'Università di Padova e del suo “Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia”, in cui, riprendendo i principi della “Poetica” di Aristotele, si chiarisce che un buon film non è fatto di soldi, ma più spesso di spunti narrativi e drammatici sulle problematiche che muovono uomini e donne nelle loro ingarbugliate relazioni: sentimenti, aspirazioni, poteri, pressioni: una memesi che ha soprattutto bisogno di ispirazione.
    Ed allora, nell’ultimo barlume di coscienza prima del sonno liquido e nero, mi ricorderò di “Ore perse", piccolo capolavoro inspiegabilmente dimenticato da una mania per il decennio dei Settanta che negli ultimi tempi ha ristampato qualsiasi sciocchezza pubblicata in quegli anni, di Caterina Saviane, genio incompreso, grande e tragico, tragicamente morto (e non poteva essere diversamente secondo von Hoffmansthal, Pasolini e Sciascia, perché in ogni punto della sua breve fu tragica ed estrema) a soli 31 anni nel 1991; perché in quel libro e in quello di poesie (“Appènna ammattìta”), da poco pubblicato in solo 200 copie da Nottetempo, nella neonata collana di poesia diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerioa; non c’è solo una ricerca di effetti e parole, ma di sentimenti mimetici e narrativi, come accadeva per i veri scrittori e come non accade più per quelli sostenuti dalle grandi campagne pubblicitarie,  con tanto di premi orientati delle grandi case editrici.
     
     
     
     
     
     
     


  • Fatti e Storie

    Golden Globe 2015 e "Je suis Charlie"




    Nelle stesse ore (o quasi)  in cui il cinema veniva privato di due grandi figure: Francesco Rosi, l’inventore del film-inchiesta, l’autore di “Salvatore Giuliano”, “La mani sulla città”, “Luchy Luciano” e “Cadaveri eccellenti”,  e Anita Ekberg, passata dai ruoli di sex symbol a quelli di caratterista, icona della “Dolce Vita” e del conturbante femminile felliniano; a migliaia di chilometri di distanza lo spettacolo, fatto di piccolo e di grande schermo, celebrava uno dei suoi riti più salienti: l’assegnazione dei Golden Globe, aperto con il topless “politico” per Lena Dunham, protagonista della serie tv “Girls”, che  si è lasciata immortalare dall'amica Jenni Konner a seno nudo ma con i capezzoli coperti da silicone, sia per evitare spiacevoli inconvenienti davanti ai fotografi, ma per rilanciare la campagna Free The Nipple, come sottolineato dalla didascalia allo scatto postato su Instagram, con una copertura “topica” per sostenere il movimento femminista che lotta contro la criminalizzazione del nudo in pubblico e sui social network da parte dei media e delle autorità.

     
    A Beverly Hills hanno vinto i film di Linklater e Anderson, ma anche il glamour l'attualità, con molte star con cartelli e spillette con la scritta "Je suis Charlie", in omaggio ai fatti di Parigi.
    Da sempre anticamera molto affidabile degli Oscar (le nomiation si sapranno giovedì, ma già ora sappiamo che l’Italia non è in corsa), i principali riconoscimenti, comed detto, sono andati al film drammatico di Richard Linklater “Boyhood” (anche miglior regista e miglior attrice non protagonista) e alla commedia di Wes Anderson “The Grand Budapest Hotel”, mentre i grandi battutti sono stati “Selma” e “Birdman”.

     
    L’avventura di “Prima dell'alba: Boyhood” è durata 12 anni per poter raccontare, in forma vera,  cconta la crescita di un ragazzino, Mason, che assieme alla sorella Samantha vive un viaggio emozionale e trascendente attraverso gli anni, dall'infanzia all'età adulta.

     
    Un vero e proprio colpo di scena è stato il riconoscimento a “The Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson che racconta le avventure di Gustave H, leggendario concierge di un lussuoso e famoso albergo europeo (Ralph Fiennes), e di Zero Moustafa, un fattorino che diviene il suo più fidato amico; un film in cui la fotografia e la regia hanno creato una atmosfera da sfatare tutti i pronostici, che sono stati rispettati, invece per quel che riguarda gli interpreti invece le attese sono state rispettate: miglior attrice drammatica Julianne Moore per la sua insegnante affetta da Alzheimer, miglior attore drammatico Eddie Redmayne per la sua interpretazione dell'astrofisico Stephen Hawking ne “La teoria del tutto”, mentre il premio per il miglior attore di commedia è andato a Michael Keaton, star in declino di “Birdman” di Alejandro Gonzalez Inarritu (che aveva il numero maggiore di nomination ma ha ottenuto solo un altro riconoscimento alla sceneggiatura), è miglior attrice brillante è stata Amy Adams, per il film di Tim Burton “Big Eyes”.

     
    A George Clonney il Cecil B. De Mille, per il suo impegno nel campo umanitario e in particolare per avere denunciato a più riprese i crimini in Darfur e bravissime sono state le due conduttrici, le bravissime attrici comiche Tina Fey e May Pohler, che hanno condotto lo show con il solito ritmo veloce e senza risparmiare nessuno con le loro battute che hanno preso di mira la Corea del Nord ed il film che racconta di Bill Cosby accusato di violenza sessuale.

     
    Come dicevamo molte star hanno ricordato la strage di Parigi e nel suo discroso Clooney ha detto: "Oggi è un giorno straordinario. Milioni di persone hanno marciato non solo a Parigi ma in tutto il mondo ed erano cristiani, ebrei, musulmani, i leader del mondo. Non hanno fatto una marcia di protesta ma una marcia di sostegno all'idea che non cammineremo nella paura. Je suis Charlie."

     
    Per quanto riguarda la tv, la settantaduesima edizione ha premiato premiato serie nuove come “The affair e Transparent”, ma anche protagonisti già noti come Kevin Spacey per il ruolo di Frank Underwood in “House of cards” e Joanne Froggatt per il ruolo di Anna Smith in “Downton Abbey”.

     
    Inaspettata la vittoria dell'esordiente Gina Rodriguez come miglior attrice in una comedy, “Jane the Virgin”, mentre scontati i premi a “Fargo” come miniserie e a Billy Bob Thornton per il crima drama di FX .
     


  • Fatti e Storie

    Cinema con festival e lutti

    “N – Capace” è il primo film italiano in concorso al Torino Film Festival 2014, opera prima di Eleonora Danco, già nota al pubblico per la partecipazione in La Balia di Marco Bellocchio, La stanza del figlio di Nanni Moretti e, soprattutto, la fiction televisiva Rai.
     

     È proibito ballare, un film duro e sincero, in parte “Comizi d’amore” di Pasolini ed in parte originale sperimento sociale che indaga nel profondo e nell’intimo della comunità incontrata, messa a nudo di fronte ad una telecamera e al volto di una potenziale sconosciuta.
     

    Ottima partenza per il cinema italiano, presente al Festival di Torino targato Emanuela Martini, con due soli film su ottanta ed una paetenza folgorante con The Duke of Burgundy Peter Strickland, dove si parla di amore omossessuale, con al centro della narrazione due splendide donne: Cynthia, affascinante cinquantenne, ed Evelyn, trentenne pacata, strette da una tormentosa passione che vivono nella loro quotidianità un carnale rapporto sadomasochistico, in cui i ruoli di schiavo e padrone sono ben definiti e dove i copioni da interpretare scandiscono le loro giornate.
     

    Due film difficili per aprire un Festival che vul far pensare e dove sarà di scena anche il vero horror, inaugurato con la pellicola di Jennifer Kent, The Babadook, dove si rivoluziona l’idea dell’horror moderno, grazie anche alla perfetta conoscenza del genere classico, primo su tutti di John Carpenter e dell’allucinato Roman Polanski de L’inquilino del terzo piano, rigettandolo in una dimensione di delirio e follia che rinuncia alla banale tensione filmica per diffondere una sensazione di vero e proprio terrore.
     

    Dalla’altra parte dell’Oceano, nelle stesse ore, si apprende della morte, a 83 anni, di Mike Nichols, il regista de “Il laureato”, fabbricatore di ottimi prodotti hollywoodiani cari alle masse, ma sempre di dignitosa fattura.
     

    Tedesco di origine, con l’impronunciabile nome di Mikhail Igor Peschkowsky, si affermò alla attenzione del pubblico nel 1966, dirigendo George segal, Elisabeth Taylor e Richard Burton, nel film “Chi a paura di Wirginia Wolf”, per poi dirigere, dopo il laureato, ottimi film come la commedia antimilitarista “Comma 22”, l’eccellente e per molti versi scandaloso “Conoscenza carnale”, il coraggioso “Silkwood”, il convinte “Cartoline dall’inferno” , l’eccelente “I colori della vittoria” in cui dirige in modo strepitoso Jhonny Travolta, fino ai più recenti “Algels america” (lungo oltre sei ore, tre parti da due e più ore ciascuna sulle tante vite toccate e distrutte dall'Aids nell'America di Ronald Reagan, in cui parla di omosessuali usciti allo scoperto e di altri ancora nascosti, di coppie che si amano e di altre che si disintegrano, di mormoni e di ebrei e poi dell'Antartide, del buco nell'ozono, delle nevrosi del perdono e persino del fantasma di Erhel Rosenberg, giustiziata nel 1953 in quanto spia sovietica); “Closer” fino al suo ultimo lavoro: “One Last Thing Before I Go”, che ancora non esce da noi, basato sul romanzo di Jonathan Tropper e che racconta la storia di un padre divorziato in piena crisi di mezza età, con la ex moglie che si sta per sposare con un brav'uomoe la figlia incinta e lui che se non si opererà potrebbe morire.
     

    Nichols ha vinto tutti e quattro i grandi premi per l'entertainment: Oscar (cinema), Grammy (musica), Tony (teatro) e Emmy (tv), ma soprattutto ha fatto molti film che vorresti sempre rivedere, come, ad esempio, Working Girl, in Italia Una donna in carriera, il rampantismo yuppie dell’America anni 80 sui tacchi malfermi di una splendida Melanie Griffith, una segretaria che vuol fare carriera nella finanza, sospira per Harrison Ford e alterna trampoli da ufficio a metropolitane scarpe da ginnastica e La GuerradiCharlieWilson del 2007 con Tom Hanks e Julia Roberts, con sceneggiatore (in entrambi i casi) J. J. Abrams, futuro autore della celebratissima serie tv Lost. Come ricorda Angela Mangamauro, il suo ultimo, grande progetto, rimasto incompiuto, era un adattamento per la rete Hbo di “Master Class”, dramma del commediografo Terrence McNally su Maria Callas., dove avrebbe di nuovo lavorato con una delle sue star, Meryl Streep, protagonista di Heartburn e Silkwood.
     

    Un cinema il suo, coraggioso tanto quanto quello portato a Torino dalla Martini,  che deve vedersela con un taglio di budget di 200.000 euro e di due sale,  ma che continua una tradizione gloriosa partita con Rondolino,  che è più stimolante di Roma e, forse, anche di Venezia.

  • Opinioni

    Emigrazione. "La Questione morale è Questione sociale"



    Ha ragione Lucio D’Ubaldo: “Eravamo un popolo di emigranti, oggi osserviamo con sorpresa mista a sgomento l'invasione di milioni di immigrati nei nostri centri urbani”.

     
    Così, mentre mi vesto per andare a lavoro, debbo sorbirmi le follie di Matteo Salvini che parla della necessità di respingimenti, perché “prima ci si deve occupare degli italiani”, ignorando che sono loro, gli immigrati, a fornire attualmente il 10% del nostro debole Pil e a svolgere funzioni che gli italiani, molti italiani, rifiutano.

     
    Anche se si dice che il nome compone il destino, omen nomen non funziona nel caso di questo e dell’altro Matteo (Renzi), che non sembrano “doni di Dio”, come vuole l’etimologia che li fa risalire all’ebraico Matithya, composto da matag, 'dono, regalo', e da Yah, abbreviazione di Yahweh, ciòè Dio.

     
    Dicono i toponomasti che i Matteo sono poliedrici, adattabili e saggi, ma nutro qualche dubbio se osservo i due Matteo richiamati.

     
    Coloro che coniugano astri e nomi ci dicono che i Matteo sono generosi, leali e che matengono le promesse fatte, ma, evidentemente, prendono a volte delle solenni cantonate.
    D’altra parte abbiamo perso la capacità di scrutare nell’animo dei neonati, come accadeva fra gli amerindi e nella Cina protostorica e di cogliere destino e attidutine nell’assegnare un nome, che non sia solo bello, rievocativo o sonoro.

     
    Che nome dare, per restare in tema, al dramma dell’immigrazione, al Mediterraneo che si riempie di morti, agli sbarchi che non si fermano e all’Europa che resta indifferente, con l’Austria che repinge e la Spagna che spara?

     
    C'è chi non si è limitato a capire l'universo doloroso degli emigranti, ma ha provato a costruire una risposta in termini di fattiva solidarietà. È bene farne memoria.

     
    Sul suo diario, un prete a lungo osteggiato dalla Curia e difeso tuttavia da Giovanni XXIII, scriveva il 4 agosto del 1914: "Povero Vescovo! Qualche cosa muore in me con la sua dipartita". Così don Primo Mazzolari rendeva omaggio a una figura straordinaria - anche, appunto, per il suo impegno al fianco degli emigranti - della Chiesa lombarda e italiana: Mons. Geremia Bonomelli, nato a Nigoline, vicino Brescia, il 22 settembre 1831 e morto sempre a Nigoline il 3 agosto 1914.

     
    Era di formazione Gregoriana ma proveniva dal povero mondo dei contadini che debbono strappare un pane raffermo e frugale ad una terra dura Mons. Bonomelli e le due cose lo portarono a scrivere, nel 1892, quindi a un anno appena dall'Enciclica "Rerum novarum", una lettera pastorale dal titolo inequivocabile: "La Questione morale è Questione sociale", il cui valore trascende le fatiche di un lessico ottocentesco: dentro l'innovazione del capitalismo c'era da rimediare ai guasti del profitto sregolato, senza ignorare tuttavia la dinamica di un'economia apportatrice di nuove opportunità e nuovo benessere.

     
    Ecco perciò l'approccio consigliato: condannare gli eccessi del capitalismo, ma cogliere altresì l'aspetto positivo di tanti uomini e tante donne strappati alla condizione atavica di miseria e di abbandono.

     
    Cosa centri con la migrazione tutto questo è abbastanza chiaro: se genera occasioni di lavoro altrimenti sconosciute, la migrazione può essere propizia e quando non lo fa è solo per carenze della Stato.

     
    Con la visione di un cristianesimo umanamente dinamico, Bonomelli irrompe sulla scena del suo tempo con la forza di un pensiero e di un'azione non più afflitti da burocratico dogmatismo e imbiancato fariseismo che arrivano sino a noi.

     
    Ad agosto 2013, appena salito sul soglio di Pietro, un Papa eterodosso e pieno d’impeto che ha scelto il nome del Santo di Assisi, ha detto che oggi viviamo una “globalizzazione della indifferenza” , perché se è vero che la globalizzazione ha emancipato milioni di uomini, è anche vero che ha contribuito a una drammatica polarizzazione tra ricchi e poveri, tra popoli del Nord e del Sud del pianeta.


     
    Di là dai proclami di Salvini e delle promese dell’altro Matteo, va riconosciuto che l’Italia non ha ancora un modello di integrazione efficace, e senza una precisa bussola politica (con una legge, la Bossi-Fini, da tutti riconosciuta inadeguata) e che sbandiamo nel vuoto di opposti effetti dell’immigrazione.

    Due numeri fotografano la nostra incompiutezza.Il 44 per cento dei figli degli immigrati lascia la scuola prima della scadenza prevista dalla legge, gonfiando l’area della dispersione e il potenziale bacino di reclutamento della malavita organizzata. Allo stesso tempo, le imprese controllate dagli immigrati sono quasi 500mila e rappresentano ormai il 7,4 per cento dell’intero patrimonio aziendale del Paese, con punte vicine al 20 per cento come nel caso della regione Lombardia.

    C’è un’immigrazione che possiamo assorbire e produce ricchezza, e c’è un’immigrazione che può peggiorare, e non migliorare, la coesione sociale del Paese.

    Due anni fa ho visto un film esemplare: “Alì dagli occhi azzurri”, ispirato a Pier Paolo Pasolini, diretto con coraggio e ruvido piglio da Claudio Giovannesi, vincitore del Premio della Giuria al 7° Festival Inrternazianale del Cinema di Roma, dove uno dei protagonisti, Nader, è il figlio dei nuovi poveri, è il nuovo ragazzo di vita che abita le (stesse) periferie squallide che ridestano appetiti bestiali e ambizioni borghesi, è "il barbaro imborghesito", nato dagli emigranti approdati alle 'nostre terre' dai loro paesi lontani, che pratica apatico la cultura diffusa del godimento pulsionale, chiuso su se stesso, monadico e sterile, incapace di nutrire correttamente il conflitto e di trasmettere la potenza generativa del desiderio.

    Un nuovo morto, anche se non ha attraversato il mare e non è morto fisicamente durante quella traversata.

    Nel 2011, non so per quale motivo, mentre il dramma degli sbarchi dei profughi Nord-Africani sulle coste Siciliane subiva alternativamente picchi e cali nell’agenda dei Tg nazionali, molti cineasti italiani si occuparono con passione e sensibilità del problema e alla 68° Mosrtrac del Cinema di Venezia, sono passati fra lacrime e scrosci di applausi (ma durati pochi istanti), Terraferma di E. Crialese – premio speciale della giuria; Là-bas di G. Lombardi – premio miglior opera prima; A chjana di J. Carpignano – premio Controcampo Italiano cortometraggi) e Cose della’altro mondo, l’unico a non eseree premiato, eppure il più meritevole, secondo me, assieme al film di Crialese.

    Collocandosi agli antipodi filmici, realista Terraferma e surreale l’altro, i due film in realtà esauriscono le loro più grandi divergenze forse solo nelle ambientazioni: l’isola Siciliana di Linosa (dove la modernità non si è mai insediata davvero) il primo, e la città di Treviso (dove l’industrializzazione ha al contrario preso il sopravvento sul contatto umano) il secondo;per sviluppare, ciascuno a suo modo, un nucleo tematico comune e fondamentale, ovvero il confronto plurigenerazionale, che è il tema centrale, credo, del dramma immigrazione.

    In effetti ciò che mi rabbrividire più delle parole di Salvini è l’indifferenza di una nuova generazioone desensibilizzata, con un tramonto totale dei valori uimani, che delinea una Italia, che si vanta di essere tra le fila dei paesi più avanzati al mondo, che in realtà non ha mai sviluppato una parallela, radicale e lungimirante evoluzione multiculturale, per cui in un paradosso fantapolitico smaschera  la sua perenne guerra tra poveri e pasoliniani mostri borghesi.

    Ricordo che molti critici non hanno scritto positivamente del terzo film di Crialese, definendo Terraferma una dignitosa opera di denuncia di un problema scottante, racchiuso in una debola “forma cinema”.

    Questo senza ricordare che a Terraferma, cioè al problema migranti-accettazioone, Crialese giunge dopo una pellicola sulla Identità e una sulla trasformazione, volendoci dire che siaccetta l’altro solo dopo aver compreso chi si è e in che direzione si intende crescere e cambiare.

    Come nota Antonella Elisa Castronovo, il popolare “föra dai ball” dell’allora capogruppo della Lega Nord Umberto Bossi, l’enfasi del guardasigilli Ignazio La Russa sull’arrivo dello tzunami umano o la proposta dei respingimenti armati da parte del parlamentare Roberto Castelli sono solo pochi, ma esemplari slogan che evidenziano come la “crisi sbarchi” sia stata – e sia tuttora – strumentalmente utilizzata per consolidare posizioni oltranziste e securitarie, per niente rispettose della vita e della dignità delle persone.

    L’immigrazione non è solo una questione di movimenti di popolazione, ma è un fenomeno ben più complesso che scompiglia l’ordine politico e sociale degli Stati moderni, stimolando reazioni talvolta estreme e contraddittorie.

    Va anche detto e notato come tutti i quotiodiani italiani abbiano condiviso l’indirizzo da “show della paura”, nel prentare il fenomeno, con una insistenza pervasiva nell’utilizzo dei termini “invasione”, “assedio”, “ondata”; il richiamo costante ai numeri degli “invasori”; le immagini dell’arrivo delle “carrette del mare”, che disegnano un vero e proprio scenario di guerra.

    E, per finire, come notava Amnesty International, è lo stesso governo italiano a precostituire le condizioni della crisi; a permettere che i migranti sostino su questa o quell’isola o centro straripante e disumano di accoglienza, senza alcun vero piano e senza nessun interesse ad organizzare una vera, possibile integrazione.

    Ti faccio scendere e poi ti ignoro, hanno detto i vari governi che si sono succeduti al comando, mentre come dimostrano gli avvenimenti storici più recenti, come scritto sul numero 7 di quest’anno di Dialoghi Mediterranei, il Paese intende solo esercitare una pressione sugli altri Stati europei facendo appello sull’issue dell’emergenza umanitaria e al di là delle retoriche politiche e dei registri discorsivi che caratterizzano ciascuna di queste narrazioni, l’elemento che accomuna la visibilità e l’invisibilità , è il processo di politicizzazione delle migrazioni internazionali; ovvero quel processo che, invocando la necessità di difendere le frontiere nazionali,che ha permesso e permette ai governi di legittimare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti.


  • Arte e Cultura

    Un libro per bambini da avere fra le mani


    Il suo linguaggio è ricco ed il suo modo di scrivere particolare, senza concessioni alle mode, autentico, né totalmente onirico, ma neanche realistico o documentaristico, apprezzato nel suo primo romanzo “La repubblica delle farfalle”, ma ancora più particolare in “Anna Lilla”, appena pubblicato da Rizzoli.

    Matteo Corradini, nato nel 1975, dottore in Lingue orientali con specializzazione in lingua ebraica, che si occupa di didattica della Memoria e fa parte del team di lavoro del Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah, scrive per i ragazzi ma parla agli adulti, raccontando della piccola Annalillache si ritrova ostaggio di Olga, la badante della nonna a cui l'hanno affidata i genitori e che, quando la donna si ammala, escogita l’evasione perfetta: la spedisce casa sua, ma non dice nulla a mamma e papà, per inziare una settimana di libertà assoluta, popolato dell'amicizia con la bella Vualà, i batticuori per il compagno di scuola Rambo, il mondo degli adulti e i suoi segreti, a volte terribili, la scopeta della nonna. 


    Alla fine, Annalilla saprà dire addio all’infanzia, perché in fondo l'ultima settimana di scuola e la prima settimana del mondo si assomigliano parecchio e sono un'anticipazione di qualcosa che accadrà.

     
    Lungo le pagine del racconto Annalilla ascolta la nonna; ascolta la pioggia, il vento, il sole sulla pelle; ascolta il proprio corpo che cambia, che sospira, che vive, che dice; ascolta Rombo che fa il bullo e poi nasconde la chitarra che adora suonare; ascolta la Vualà e ci ride, ci litiga, ci fa pace.

     
    Un libro denso, fatto di tanti piani che si prestano a letture diverse, un libro che quel che non serve sottolineare (che Vualà ha la pelle più scura e la sua famiglia viene da un altro Paese lo si apprende poco a poco; viene da sè e sta bene così) e intanto mette in fila tante cose accompagnano il lettore rimanendo impigliate nelle sue dita: come quando Annalilla descrive come fa a riconoscerti uno che ti conosce davvero bene o quanto sia difficile prendersi cura di qualcuno (“tenere una nonna è peggio che tenere un animale”) o ancora Vualà che parla di quel che decide lei e dell’innamorarsi. Insieme il romanzo dice che fare festa e riposarsi sono la stessa cosa, m anche che talvolta si sente che non è successo niente e che sta andando bene così.

     
    Presentato ad inizio mese a “Festivalletteratura”, il romanzo segna l’arrivo di Corradini nel filone autobiografico, con un racconto intimo capace di ogni libertà espressiva, sempre in perfetto equilibrio tra inviti a riflettere su fatti e parole di ieri e di oggi e situazioni indiscutibilmente esilaranti.

     
    E dice bene Jeanne Perego: gli ingredienti per tenere i lettori incollati al testo fino al punto finale ci sono tutti: un periodare brillante, la travolgente lista dei sogni di Annalilla per la sua settimana di inattesa autogestione, situazioni, profumi, parole e suoni che, prima o poi, attraversano la vita e la mente di tutti gli adolescenti.

    E, a proposito di suoni, al libro non manca neppure una seria colonna sonora, compilata alla fine del racconto. Si va da “When the Music’s Over” dei Doors a “The Great Gig in the Sky” dei Pink Floyd. Note probabilmente sconosciute al pubblico cui è indirizzato il libro, ma che risveglieranno ricordi negli adulti che avranno la fortuna di averlo tra le mani.
     


  • Arte e Cultura

    Appunti da Venezia


    Volti ed umori attraverso filmati amatoriali tutti girati lo stesso giorno e poi selezionati e montati da professionisti. L’idea era venuta a Ridley e Tony Scott, nel 2011, con “Life an a day”, con filmati di tutto il mondo,  tutti datati 10 giugno 2010.

    Gabriele Salvatores, invece, ha raccolto filmati di italiani sull’Italia (ben 45.000, contro i 15.000 della operazione statunitense),  per presentare, in anteprima al Festival di Venezia, “Italy an one day”, un film che incanta per il taglio e la poesia, che mostra una Nazione impoverita ma non piegata, ancora piena di entusiasmi e fantasia, ancora in grado di aprirsi al futuro, superando le angoscie del presente.

     
    Come nel caso di quello dei due Scott, nel film di Salvatores (nelle sale il 23 settembre e sua Rai3 il 27 del mese),  colpisce innanzitutto il mastodontico lavoro di montaggio, compiuto per assonanze o distanze e con la speranza a fare da filo conduttore.

     
     Il progetto, come detto, è stato in parte frutto di gente comune chiamata a filmare un giorno della loro vita (per l’esattezza il 26 ottobre 2013), per fornire un ritratto dell’Italia di oggi, delle paure, delle speranze, ma anche delle abitudini.

    La pellicola, che regala una variopinta umanità di personaggi e la loro voglia di comunicare, ha commosso in molti anche tra la stampa, perché racconta un’Italia che non si piange addosso o si dispera, un Paese certo ferito e che soffre, ma con dignità, con una grande paura per il futuuro, ma anche un gra voglia di cambiare.

    Sempre ieri, a Venezia, grande soddisfazione per un altro documentario italiano e di montaggio: “La zuppa del demonio” di Davide Ferrario, che racconta la storia industriale italiana con materiali d’archivio provenienti dagli anni ’30 fino alla metà degli anni ’70.

    Il titolo si rifà alla espressione usata da Dino Buzzati, grande appassionato di cinema,  nel commento a un documentario industriale del 1964: “Il pianeta acciaio” e che, a cinqut’anni da quello, descrive l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso, perfarci capire che mentre oggi è facile  inorridire davanti alle immagini che mostrano le ruspe fare piazza pulita degli olivi centenari per costruire il tubificio di Taranto che oggi porta il brand dell’ILVA;  per lungo tempo l’idea che la tecnica, il progresso, l’industrializzazione avrebbero reso il mondo migliore,  ha accompagnato varie generazioni, poi smentite dai fatti.

     
    Come scrive Gabriele Barcaro,  il documentario ricorda molto da vicino l'espressionista Metropolis di Fritz Lang, cucendo con sapienza rapsodica un vario repertorio storico e sociale, descriito con le immagini dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa del Centro Sperimentale di Cinematografia, spezzoni di film ed interventi di autori del calibro di Goffredo Parise ed Italo Calvino.

     
    Un gran bel film come lo sono stati tutti gli italiani a Venezia, i tre in concorso e i 18 fuori, con un elogio particolare a "Perez" di Edoardo De Angelis e "La Trattativa" di Sabina Guzzanti; il primo un noir con un Luca Zingaretti stanco e tormentato, nei panni del mediocre avvocato d'ufficio alle prese con una vicenda criminale più grande di lui ed il secondo sulle uccisioni di Falcone e Borsellino e sulla cosiddetta “trattativa” stato-mafia”.

     
    La Guzzanti firma un’opera coraggiosa ma ancora più matura di “Draquila” ed avvalendosi anche di testimonianze documentali dei processi e dei collaboratori giustizia, ricostruisce con attori (lei stessa e ancora Enzo Lombardo, Ninni Bruschetta, Filippo Luna, Franz Cantalupo e Claudio Castrogiovanni), una vicenda lunga quattro anni ed ancora in corso, per cui sono stati rinviati a giudizio Mancino, Mannino, Dell’Utri, Cinà, Mari Subranni, De Donno ed i boss Riina, Provenzano e Bagarella.

     
    Per non sembrare troppo sciovenisti e parlare anche degli stranieri, asegnato ieri il Leone alla carriera, alla grande Thelma Schoonmaker, tre volte premio Oscar per Toro scatenato”, “The Aviator” e “The Departed – Il bene e il male”, tutti diretti da Martin Scorsese.

    E sempre ieri, in concorso, molto interessanti, lo svedese “En duva satt på en gren och funderade på tillvaron” (“A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence”) di Roy Andersson, mix di tre romanzi classici (Don Chisciotte di Cervantes, Uomini e topi di John Steinbeck e Delitto e castigo di Dostoevskij) considerato l’ultimo di una trilogia insieme ai precedenti del regista, e la storia di guerra “Nobi” (“Fires on the Plain”) di Shinya Tsukamoto, un vero e proprio assalto ai sensi dello spettatore, che si fa progressivamente sempre più violento col procedere della storia e il perdersi del protagonista in un labirinto di orrori fatto di giungle, fame, sangue, carne e morte.

     
    Secondo Federico Gironi un film arrivato con 15-20 anni di ritardo rispetto all’orrore di oggi. Secondo me un perfetto disegno catartico sulla effaratezza del mondo e degli uomini.
    Inagugurata lunedì 1 settembre, la Mostra Omaggio a Federico Fellini, allestita presso lo Spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo (Sala Tropicana 1) all’interno dell’Hotel Excelsior (Lido di Venezia), intitolata: "SottocasadiFederico" , con il patrocinio della Fondazione Ente dello Spettacolo, del Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale, della maison Pierre Cardin e delle Editions Nomades, la mostra curata da Francesca Barbi Marinetti, ideata da Tina Vannini, composta da una serie di opere a inchiostro di china che Roberto Di Costanzo ha dedicato all’immaginario felliniano e ai suoi film più rappresentativi.

    In Sala Web, poi, la 71° Mostra presenta “The Gold Rush”, il capolovoro di Chaplin restaurato dalla Cineteca di Bologna, con la indimenticabile sequenza dela danza dei panini, con  Charlot che si mangia una scarpa che, doverosamente bollita, diventa un pollo gigante, in una pericolante capanna in bilico tra le montagne innevate, il tutto senza le accelerazioni improrie degli errorio tecnici del passato, con un restauro perfetto fa andare le immagini a velocità perfetta con, per la prima volta, le musiche originali scritte dallo stesso Chaplin, recuperate grazie al’ingeredibile lavoro filologico di Timothy Brock, compositore ec direttore d’ordvhestra che dal 2000 lavora ai testi musicali di Chaplin e che già, sempre per la Cineteca di Bologna, aveva recuperato “Tempi Moderni”, “La donna di Parigi” e “Luci della ribalta”.
     
     
     
     
     
     
     


  • Arte e Cultura

    Leopardi incanta Venezia


    Favola laica su un uomo particolare ed uno straordinario poeta: il più grande con Dante, nello smisurato susseguirsi  della nostra letteratura.

    Dopo la proiezione, ieri in concorso,  de “Il Giovane Favoloso”, film di due ore e 20 minuti su Giacomo Leopardi, diretto da Mario Martone, con  un Ennio Germano strepitoso, tutti scrivono che a lui andrà il Leone D’Oro, sicché, quest’anno, il nostro cinema avrà fastto il pieno di premi,  fra Cannes, Golden Globe, Oscar e adesso Venezia.

    Non sappiamo se ciò sarà vero, ma certamente Martone ritrova il suo spirito migliore dopo il deludente “Noi credevamo” e altrettanto certamente Ennio Germano crea un Leopardi esteriormente fragile ed interiormente corazzato, tale da essere indimenticabile nelle sue intuizioni e convinzioni, nelle sue filosofie ed anche nella accennata omosessualità che si esplicita nell’amicizia molto discussa con Antonio Ranieri, il fumantino patriota napoletano che lo accompagnerà dal 1831 fino alla morte,  nel 1837.

     
    Il film si divide in tre parti in base ai luoghi in cui è vissuto Leopardi nei divesi periodi: Recanati, Firenze e Napoli,  con quest’ultima che appare la migliore, viscerale e cupa, surreale a tratti, in cui Martone recupera lo spirito narrativo di “Morte di un matematico napoletano” , con il colera e l’eruzione del Vesuvio, raccontati con ispirazione assieme al fido Renato Berta alla fotografia,Iacopo Quadri al montaggio e al dj berlineseSascha Ring alle musiche.

     
    Martone crea una figura geniale e mai pedante, melanconia ma mai disperta, con una via crucis progressiva fatta di deformità fisica e straordinaria capacità mentale che lo porterà a creare una sorta di “scetticismo ragianoto” ed una melanconia di fondo che, a dispetto di Croce, non dipende solo dai suoi tanti malanni.

     
    Insomma, con intelligenza, Martone recupera l’idea di Benedetto Croce solo in parte e si vota a quella di Luporini e di tanti critici di sinistra, che, dal 1940 in poi, videro in Leopardi un progressista ed un socialista ante-litteram, con una fiducia cieca nel “generale progresso dell’incivilimento”, smentendo in larga parte l’abruzzese che per Leopardi aveva creatoi l’aggettivo “allotrio”,   per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocabolario filosofico tedesco dell’Ottocento e al greco ἀλλóτριος, che signifca “ estraneo”, per dire che l’estraenità alla bellezza portò il poeta al totale pessimismo.

     
    Martone, invece,  ci racconta un uomo non completamente infelice e, servito da un favoloso Germano (certamente il maggior attore italiano di adesso), crea una riflessione su un  pessimismo intelligente che  non esclude l’ottimismo della volontà.

     
    Insomma, a parte le immagini superbe ed il  grande racconto, la filosofia del film è tutta imperneata su due temi: l’alchimia della creazione artistica e l’idea che occorre non perdere mai la consapevolezza che la vita è fatta di imprevisti ed è sempre capace di sorprenderci e non solo in senso negativo.

     
    Il 30 maggio 2011 Francesco Alberoni sul Corriere, ha scritto la medesima cosa e, molto tempo prima in varie poesie e varie parti delle “Operette” e dello “Zibaldone”, lo ha fatto Leopardi,  che non fu mai animato da pessimismo paralizzante e mai completamente paralizzato dalla sfiducia.

     
    Sicché, attraverso questa storia,  Mario Martone ci ricorda che lo spirito di base che ci anima, come italiani e specialmente italiani del Sud (quali il recanetese era) è un pessismismo intelligente per il quale non si dà mai nulla per scontato.

     
    Una filosofia antica che viene da Plutarco, quando ci parla, ad esempio, di Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, che logorò l'avversario e lo costrinse alla ritirata e che è assente negli uomini che credono solo nel potere, come Napoleone (che infatti era francese), il quale non comprese che occorreva ritirarsi rapidamente da Mosca.

     
    Gramsci, che conosceva molto bene Leopardi e sommamente lo amava, nella lettera al fratello Carlo, datata 9 dicembre 1929, no a caso scriveva: “l'uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli sono pessimista con l'intelligenza, ma ottimista per la volontà”.
     
     
     


  • Fatti e Storie

    Ricostruzione dopo terremoto. Affari sporchi a L'Aquila


     
    Bisognerebbe avere l’amara ironia di Ben Hetch per un commento non banale sui nostri mondiali di calcio ed il vigore di Honorè De Balzac o di Vittorio Andreoli,  per descrivere la tragedia di una città uccisa più volte, tradita dalla natura e dagli uomini, scaraventata in un dramma variopinto, con il dolore, l’affanno, il trionfo della perfidia, il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti.

     
    L’ndagine si chiama "Dirty job", condotta dalla Procura distrettuale antimafia de L’Aquila  dove i  militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza stanno eseguendo sette ordinanze di custodia cautelare (quattro in carcere e tre agli arresti domiciliari), emesse dal giudice delle indagini preliminari Marco Billi, nei confronti di altrettanti imprenditori, operanti nella ricostruzione post-terremoto, per i reati, a vario titolo, di estorsione aggravata dal metodo mafioso e di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

     
    C’e' aria di “Casalesi” nella ricostruzione post-sisma, che di fatto è ferma, con i pochi cantieri aperti che sono quelli destinati al risanamento dei condomini privati, che pure prestano il fianco allo svilupparsi della microcriminalità, essendosi verificati casi di ingiustificata estensione dei lavori pagati con soldi pubblici a danni non causati direttamente dal sisma, oppure di gonfiamento abnorme dei prezzi.

     
    Per quanto riguarda la ricostruzione vera e propria,  la città, con i suoi palazzi antichi e gli edifici pubblici, versa nella stasi più completa e melmosa.

     
    L’evolversi dei rapporti tra la Prefettura de L'Aquila e gli organi giudiziari, ossia la Procura distrettuale del capoluogo abruzzese e la Direzione nazionale antimafia, basato su un protocollo redatto subito dopo il terremoto, grazie al quale questi uffici giudiziari ricevevano periodicamente delle richieste di informazioni da parte della Prefettura dell'Aquila - che pure dispone di organi investigativi per una prima scrematura delle imprese concorrenti per eliminare quelle che risultavano a vario titolo contigue ad associazioni criminali di stampo mafioso - mostra chiaramente l’opacità inquetante della situazione.

     
    Solo pochi mesi fa, nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, la sostituta procuratrice nazionale Olga Capasso, scriveva che la situazione degli appalti per la ricostruzione in Abruzzo da una parte è rimasta immutata, dall'altra ha visto un allontanamento degli interessi criminali da quel settore.

     
    Una città che resta agonizzante e l’affare ricostruzione che si rivela sempre più sporco, infiltrato da quelle presenze mafiose che si dovevano tenere lontane, metastatizzato da loschi figuri che sembrano usciti da “La commedia umana”, concepiti nelle viscere di questo  secolo corrotto e che produce più male che bene e senza che, troppo spesso spesso, le azioni riprovevoli, le colpe, i crimini, dai più lievi ai più gravi, trovino una giusta punizione.
    In questa società senza ideali, non verrà il Leviatano di Melville né la storia veritiera e sublime di Walter Sott, ma solo una tragica e grottesca progressione del distruttivo interesse, come in “Patologia della vita sociale” di Balzac, con intrighi, omicidi, insabbiamenti, corruzione diventatati un clichè da cui sembra ormai impossibile uscire.

     
    Come in Poe e in Colderidge, come in Melville, non resta che la miseria ed il dramma la contraddizione suprema di un vuoto che si è riempito di orrore, una sorta di misterioso cimitero come nell’episodio degli specchi, dove Borges avvertiva tutto lo sgomento del”Gordon Pym” di Poe.

    Questa è diventata una città “bianca” , ignota e terrificante,   spalancata sul nulla del Maelström che è voragine tenebrosa e senza fine.

     
    Una città di mostri, di “Sarrasine” che divorano gli altri e loro stessi, con modelli antrologici che si riflettano nei ruderi scomposti e nelle periferie, caotiche e prive di bellezza.


  • Arte e Cultura

    Crescere con Alice

    Un film con una idea precisa di cinema, che la più giovane delle sorelle Rohrwacher segue sin dall’inizio e che continua attraverso una storia gradevole, semplice come in fondo lo sono i suoi personaggi, con alcune idee notevoli, una fotografia decisamente ispirata e l'innesto delle due bimbe piccole, che fanno pendere l'ago delle bilancia verso una dolcezza che però non è mai stucchevole.

    Alice Rohwacher è una outsider,  ma il suo talento è grande, come la sua fresca capacità di  raccontare, sicché potrebbe riservare sorprese, con Hollywood che la sta già corteggiando e se dipendesse da i tycoon di quei luoghi, l'avrebbe già messa sull'aereo con la Palma dentro il borsone da palestra ed un bel contratto per un piaio di film, come era accaduto (purtroppo) a Muccino.

     

    Nel cast c’è la sorella Alba, ma anche Sam Louwyck, Sabine Timoteo, Agnese Graziani e Monica Belluci e l’apertura, con due luci sullo schermo, due fari di una macchina nella notte, alcune persone con dei cani al guinzaglio che stanno cercando qualcuno o qualcosa e trovano una casa, che "è sempre stata lì", e all'interno ci stanno dormendo delle bambine, che ricorda la partenza di Corpo Celeste, l'interessante ma acerba opera prima di Alice.
     

    Ma lo sviluppo mostra un deciso passo avanti autorale, con la regista che, dando una prova di maturità a suo modo sbalorditiva, perché se è vero che l'opera seconda è quella spesso più complicata nella carriera di un regista alle prime armi, dimostra non solo che è migliorata da molti punti di vista, ma anche di aver alzato decisamente il tiro.
     

    In questo caso il sogno dei più piccoli contro le ideologie e le difficoltà quotidiane degli adulti: il padre e la madre, Angelica, della piccola protagonista, che litigano già quasi ogni giorno, sicché pare che possa nascere uno scontro tra generazioni. Invece le bambine ci hanno fatto il callo alla vita che conducono, in un mondo sospeso, ideale ed isolato, che fara' di loro donne libere con un destino, probabilmente, di contadine o apicultrici.
     

    Le Meraviglie ha una storia ben radicata in un determinato territorio e contersto culturale, ma lo stile della Rohrwacher ne eleva la fruizione ad un pubblico non solo italiano. È la sua idea di cinema per niente banale e perfino originale che le fa fare un balzo in avanti rispetto all'esordio e rispetto alla media del prodotto nazionale. Perché tutto ciò che viene scambiato per neo-neorealismo nel film ha invece un sapore simile per certi versi ai prodotti indipendenti di stampo americano o internazionale; mentre tutto quello che nel film ha un carattere grottesco o addirittura "magico" è piuttosto personale, anche se non privo di interessanti e ben assimilate influenze.
     

    Un film dal cuore pulsante, che ha per protagonista una dodicenne che si confronta non senza difficoltà con il padre e che impara a fare un lavoro. Che forse s'innamora per la prima volta.  Ma che comunque e soprattutto, come in tutti i più semplici e riusciti coming-of-age, impara a vivere.

  • Fatti e Storie

    Ecologia con intelligenza



    Ex insegnante di psicologia ad Harvard, collaboratore scientifIco del “New York Times”. Ed autore del besteseller mondiale “Intelligenza emotiva”(1996), Daneil  Coleman ha appena pubblicarto in Italia per Rizzoli, “Intelligenza ecologica”, dove afferma che spesso l’acquisto “verde” è un miraggio, poiché i pomodori “prodotti localmente” a Montreal, in Canada, vengono selezionati in Francia, crescono in Cina e germogliano in Ontario prima di arrivare nelle serre del Quebec.

    E  in ogni  prodotto che compriamo è nascosto un “cartellino del prezzo” aggiuntivo che paga il pianeta e quindi la nostra salute, anche se, ci è impossibile valutarli correttamente, perché non ce ne accorgiamo:, in quanto il nostro cervello non è attrezzato per farlo. Non basta quindi un’informazione trasparente per diventare consapevoli e migliorare la nostra vita.

     
    Nel libro, inoltre, si introduce un concetto rivoluzionario: la cura per l’ambiente non è un movimento o un’ideologia, è il nostro prossimo gradino evolutivo, definito appunto intelligenza ecologica, da sviluppare come specie, non come individui, indispensabile per affrontare sfide troppo complesse per vincerle da soli. Perché l’uomo è un animale con una nicchia ecologica particolare da salvaguardare., ma che deve salvaguardare l’intero pianeta Terra.

     
    Come il ricordato “Inteligenza emotiva” ed il riuscito “Intelligenza sociale”, Coleman da vita ad un altro saggio chiaro ed affascinante, che inizia con i riipasso, dal sapore vagamente scolastico, sul funzionamento degli ecosistemi, sulla reti di interconnessioni e interazioni tra i diversi elementi di uno stesso ambiente; per poi lanciare alla comunità internazionale un concetto prima ristretto nell’ambito dell’ecopsicologia, noto soltanto agli appassionati, il concetto di inconscio ecologico: l’essere umano, essendo “figlio della vita” è spontaneamente in grado di cogliere la complessità e può sviluppare la consapevolezza dell’impatto di ogni sua azione sui sistemi di cui è parte.

    Se l’ecopsicologia approfondisce anche gli ecosistemi interiori, Goleman si concentra sull’impatto che la consapevolezza individuale può avere sulla società dei consumi, prima di tutto, risvegliando ogni singolo cittadino al consumo consapevole e all’impegno sociale senza rinunciare al proprio margine d’azione e di influenzamento sull’evolversi della vita: dall’andamento generale dei mercati e dei processi sociali, alle riunioni di condominio, alla gestione di una azienda.


    La tesi fondante del pensiero dell'autore risiede nella grande asimmetria di informazioni tra consumatori e produttori, dal momento che l'atto di fare la spesa diventa quasi una routine in cui il cervello è libero di pensare ad altro, in cui l'affezionarsi a una marca è equivalente a mostrare una "inerzia cognitiva", una forma particolare di pigrizia verso la possibilità di scegliere. Goleman individua nell'asimmetria di informazioni la causa di questo atteggiamento passivo dei consumatori.

    I produttori non sono interessati a mostrare sulle confezioni come un determinato prodotto abbia inquinato la zona in cui è stato fabbricato, oppure come sia presente un ingrediente ritenuto responsabile di malattie gravi. Viceversa il consumatore potrebbe essere interessato a informazioni di questo genere, ma dal momento che non dispone di strumenti per ottenerle rimane impigrito nei riguardi della sua spesa. Per Goleman il cambiamento principale deve essere quello della "trasparenza radicale" o "trasparenza ecologica".

    Solamente se le informazioni degli impatti ambientali (inquinamento, emissioni di gas serra), sociali (retribuzioni eque, sfruttamento del lavoro minorile) e sanitarie (ingredienti tossici) fossero disponibili direttamente al consumatore, nel momento stesso in cui sta facendo la spesa, attraverso ad esempio delle valutazioni fornite da società terze e riassunte in pratici indicatori verdi, gialli e rossi, allora il mercato libero sarebbe spronato a ricercare la sostenibilità. I consumatori "votano" con i loro soldi le marche che si impegnano di più a ridurre i loro impatti, e allo stesso momento le altre aziende produttrici saranno spronate a fare lo stesso se non vogliono perdere quote di mercato.
    Anziché teorizzare una sostenibilità fine a sé stessa, che molti manager potrebbero anche vedere come un peso inutile, Goleman ci illustra come fare del bene per l'ambiente e per gli esseri umani significa vendere di più, conquistare maggiori clienti, avere successo. Come afferma l'autore sul finire del saggio, "in un mercato trasparente, fare la spesa diventa un atto geopolitico".
     


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