Benvenuti alla "Farm Cultural Park" di Favara

Giuseppe Taibi (July 05, 2015)
Un uomo coraggioso, una mente fervida che dal nulla ha concepito, nel deserto semiarido della Sicilia, un’oasi di cultura e arte, una fonte da cui abbeverarsi, un santuario di intelligenza, buon ritiro per artisti e covo di talenti: tutto questo è infatti la Farm Cultural park di Favara.

Se vi parlano di Andrea Bartoli cancellate dalla vostra mente l’immagine stereotipata del notaio immerso tra pile polverose di scartoffie, vecchi barbuti dal linguaggio pregno di bizantinismi, topi da burocrazia, dotti giudici di sapienza ed erudizione eclissati in sontuosi studi. Bartoli è un notaio sui generis: polo, bermuda, sneackers ai piedi. E’ un uomo illuminato, un visionario, per molti un guru, per altri un mecenate dei tempi moderni, un
novello Lorenzo De Medici.

Un uomo coraggioso, una mente fervida che dal nulla ha concepito, nel deserto semiarido della Sicilia, un’oasi di cultura e arte, una fonte da cui abbeverarsi, un santuario di intelligenza, buon ritiro per artisti e covo di talenti: tutto questo è infatti la Farm Cultural park di Favara. In cinque anni di vita, in termini di presenze, è diventata un’attrazione che nella provincia di Agrigento tenta di fare concorrenza alla maestosa e vicina Valle dei Templi. D’altronde in questo budello di viuzze assurto ad humus di creatività giungono visitatori da ogni parte del mondo; persino la Lonely Planet, la bibbia dei viaggiatori, dedica pagine della guida a questo coraggioso esperimento.

Un miracolo quello compiuto da un moderno visionario e colto idealista. La sua creatura è cresciuta, ha compiuto cinque anni e la sua fama è inarrestabile. Merito appunto di una visione illuminata del notaio-guru: un siciliano atipico, un cittadino del mondo, un isolano di scoglio come amerebbe definirlo Camilleri.

Di origini nissene, cresciuto a Catania, ha vissuto a Parigi ma poi ha deciso di mettere su casa a Favara. “La professione di notaio è stata la mia fortuna ma non mi ha cambiato. Non ho rinunciato ad essere me stesso. Vestivo con scarpe da tennis, felpe e jeans da ragazzino, lo faccio anche oggi che sono più anziano, e questo disorienta chi ha un’immagine classica del notaio”. 

L’anno zero di Bartoli è quando nasce la figlia. Dinanzi a lui e alla moglie Florinda si staglia un quesito: restare a Parigi, dove nel frattempo si trasferiscono, o tornare in Sicilia? “Abbiamo scelto la nostra terra decidendo di viverci senza lamentarci, senza piangerci addosso, senza aspettare che qualcuno ci cambiasse la vita ma investendo sulle nostre esperienze affinché le nostre figlie crescessero in un posto più stimolante”. E Favara, da simbolo di mafia e capitale dell’abusivismo edilizio, diventa un crogiolo di arte e cultura. La genesi risale al 2010. 

“Quando pensammo di dare vita alla Farm non eravamo così megalomani; non avevamo l’ambizione di creare qualcosa più grande di noi. Scoprendo il centro storico abbandonato intuimmo che vi erano al suo interno enormi potenzialità, senza considerare il costo basso delle case che avrebbe permesso di affrontare un investimento in modo vantaggioso”. La Farm, nelle sue più nobili intenzioni è un melting pot che trova ispirazione altrove. 

“Ad influenzare questa idea i miei viaggi, la permanenza in Francia, l’amore per l’arte. Forse a ben pensare sono tre i luoghi d’ispirazione: Marrakech, a cui abbiamo dedicato un giardino interno, poi Parigi e infine i mercatini di Camden Town di Londra”. Si respira aria cosmopolita in questo lembo di Sicilia che ha conosciuto il mondo attraverso i racconti dei suoi tanti emigrati, costretti ad un viaggio spesso senza ritorno verso continenti più diffidenti, nuove madri parche di abbracci, patrie da reinventare.

Fino a poco tempo Favara, un paesone costellato da grigie palazzine spesso prive di prospetto, a pochi passi da Agrigento e dal mare cristallino del Mediterraneo, era ostaggio della delinquenza: qui i killer della mafia hanno imbracciato le lupare massacrando i propri nemici in una lunga e sanguinaria guerra. L’ultimo “caduto” nel gennaio scorso. Questa d’altronde è la patria della “Fratellanza”, una delle primissime organizzazioni criminali operanti nella seconda metà dell’800. Da quella “fratellanza” mafiosa si è passati, quasi 150 dopo, alla collettività di artisti della Farm, a quella comunità di novelli mecenati di cui i giornali ora si occupano con onnivora curiosità.

“Non sono solo in questa impresa- dice orgoglioso il papà di questo cantiere in continuo movimento- molti amici, alcuni provenienti dal nord Italia e dall’estero hanno cominciato ad investire in questo progetto acquistando delle case”. Ma non è tutto oro quel che luccica. Le difficoltà incontrate lungo il percorso sono numerose, soprattutto dal punto di vista economico.

Bartoli ha investito tempo, energie e soldi per la sua creatura. “E’ stata una scelta impegnativa ma che comunque ci ha premiati”. Un bicchiere mezzo pieno a dispetto dei tanti “malgrado” che il notaio-guru ha trovato sul suo cammino. Inutile negare le iniziali diffidenze della città: “C’è una parte che è entusiasta, ma c’è anche una parte che non capisce, anche se tutti sono concordi nel riconoscere gli impatti sull’economia infatti da quando c’è la Farm si sono moltiplicate le aperture di pub, bar e ristoranti”.

Lungi dal rischiare di cadere in un certo snobbismo di facciata, Bartoli ammette che le riluttanze riscontrate sono più che altro culturali. “Facciamo una fatica enorme, io e mia moglie, a spiegare questo progetto. E’ difficile raccontarlo. Bisogna stare qui per capirlo. Ma io spesso mi chiedo: siamo così presuntuosi di potere immaginare che chi non ha mai letto un libro, chi non ha mai viaggiato, chi non ha mai preso un aereo, chi non ha avuto la fortuna di un’educazione possa capirlo?”.

In effetti descrivere la Farm è un esercizio arduo. Di certo è un santuario in cui ogni giorno si celebra l’alchimia tra il passato, testimoniato dal dedalo di viuzze e da vecchi edifici stretti e sviluppati in altezza, con la modernità dell’arte contemporanea magnificata all’interno di un vero e proprio museo. Passato e futuro si scontrano e si fondono. Da un lato l’immagine in lontananza della cupola della chiesa Madre che trasecola chi ne ammira l’imponenza da una delle terrazze, dall’altro i dj’ set, le feste a tema internazionale, le scritte in inglese che campeggiano nei vari angoli del cortile e che esprimono il Bartoli-pensiero. 

Ogni spazio è una scoperta, un brio di arguzia, una trovata creativa che rasenta la pura genialità. Come il bagno motivazionale, dove da una tv, posizionata dinanzi la tazza, Steve Jobs recita il discorso ai neolaureati della Stanford University. Ed ancora il ristorantino con le lampade modellate con del pentolame rovesciato, oppure il curatissimo giardino interno, omaggio al tipico riad marocchino. 

Pure qui salta all’occhio anche meno attento lo scatto di acume, lo sprizzo di intelligente frivolezza, con quel “suca”, taglio per eccellenza del siciliano medio, campeggiante sul fondo di una piscina vermiglia. L’imperativo del notaio-visionario rimane comunque resistere. Troppi i costi per tenere viva la Farm; l’apertura di una pasticceria e di un polperia serviranno a fare quadrare i conti almeno per questa estate. 

“Resistere è dura. Ma c’è tanto da fare ancora. Il futuro della Farm è in divenire, come il mio, strettamente connesso al progetto. Ammetto che manca un po’ di serenità dipendente da una stabilità finanziaria che non farebbe male. Ma la troppa stabilità rischierebbe di non farci godere i continui successi, i costanti miglioramenti. Così troppi soldi farebbero sbiadire la poesia di questo luogo”. Altri visionari intanto si aggiungono alla “fattoria” di Bartoli, humus vitale per un avvenire lucente. Le opere di artisti di mezzo mondo vengono accolte in questo tempio moderno di estro e inventiva.

La Lonely Planet continua a suggerire, a milioni di turisti, una scappata verso Favara. E la famiglia della Farm cresce; una cooperativa, la “Farmidabile”, continua a progettarne il futuro mentre volontari in costante aumento forniscono braccia e creatività. Gli occhi di Bartoli si velano di malinconia quando gli si chiede della pagina più nera del primo lustro di vita della sua invenzione. 

“Due anni fa abbiamo vissuto il nostro più grande dolore, la perdita di Armando Giglia, un ragazzo straordinario che lavorava qui con noi. Un dolore che non abbiamo ancora somatizzato”. Mentre la sua più grande gioia, il pensiero positivo del notaio-guru è originato da una riflessione maturata sulla città che lo ha adottato. “Tantissimi favaresi, grazie a questo progetto, hanno riacquistato quel senso di appartenenza e di orgoglio. Favara oggi non è più la città di prima. E’ appagante ricevere ogni giorno continue email e messaggi di favaresi che mi ringraziano perché la Farm ha ridato loro l’orgoglio perduto”.

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