"Sonetaula": ne parla il regista Salvatore Mereu

Marina Melchionda (October 08, 2008)
Abbiamo intervistato Salvatore Mereu, regista del film “Sonetaula”, presentato fuori concorso al New York Film Festival (26/09-12/10). In lingua sarda con sottotitoli in inglese, la proiezione è stata accolta con (inaspettato) calore dal pubblico newyorkese

  Questa è la seconda volta che il suo film viene presentato all’estero. Oggi al Lincoln Center di New York, a febbraio scorso al Festival di Berlino...

 
In realtà ero gia’ stato a New York con il mio film. Era tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo e anche quella volta la rassegna, intitolata “New Directors”, si teneva al Lincoln Center.
 
Cosa l’ha ispirata nello scrivere la sceneggiatura di Sonetaula?
 
Il film e’ tratto dall’omonimo romanzo di Peppino Fiori, scrittore molto noto in Sardegna - ma non solo – per le sue biografie di personaggi illustri come Gramsci.
 Il suo romanzo e’ stato pubblicato da Einaudi nel 2000. Nelle sue pagine, mi sembra, si ritrova una bellissima descrizione delle terre sarde. Volevo riprodurla sul grande schermo e fortunatamente mi è stato possibile.
 

 
Su quale aspetto della cultura e delle tradizioni sarde si è concentrato di piu’ nel film?
 
In realta’ sono rimasto piuttosto fedele al romanzo che considero un bel racconto di informazione, a prescindere dal fatto che è ambientato in Sardegna. Se lo si confina solo all’ambito della cultura sarda si rischia di togliere qualcosa a una storia che può raccontarci, coinvolgerci, insegnarci molto di più. È la storia di un ragazzo che, dovendo crescere senza il padre (il padre viene accusato di un delitto che non ha commesso) viene educato dal nonno alla dura legge della campagna. Praticamente butta al mare la sua vita obbedendo ad un codice che non gli appartiene e non riconosce. Lui è un mite e diventa bandito senza accorgersene morendo praticamente giovanissimo, 20 anni. Una storia di questo tipo la possiamo ritrovare riprodotta mille volte anche ben al di fuori dei confini sardi.
 
Ma essendo ambientata in Sardegna finisce per promuovere la bellezza e la peculiarità di una cultura, di una geografia, di una vita che è tutta sarda. Prima qui negli Stati Uniti e poi in tutti i Paesi in cui il film verrà esportato...
 
Certo. Anche per questo sono contento che il film sia piaciuto così tanto. Me lo hanno dimostrato le centinaia di personi presenti al Lincoln Center la sera della proiezione. So bene che il pubblico newyorkese è un pubblico molto duro ed esigente. Invece in questo caso ha avuto molta “pazienza”. Ero pronto a tutto, anche al fatto chele persone lasciassero la sala dopo 10 minuti dall’inizio. Questo perchè è un film che chiede molto: nessun attore professionista, con i sottotitoli, lungo...per cui ha tutti quegli elementi che dovrebbero allontanare un pubblico che pensa al cinema solo come evasione. Invece i presenti si sono dimostrati curiosi di conoscere un mondo nuovo ai loro occhi, il mondo sardo.
 
A New York sottotitoli in inglese e dialoghi in stretto dialetto sardo...e in Italia?
 
In Italia sottotitoli in italiano e dialoghi in sardo. Quindi anche lì gli spettatori lo vedevano come un film straniero!
 
Perche’ secondo lei il pubblico americano e’ cosi interessato alla riscoperta della cultura locale, regionale?
 
Credo che questa sia una piazza che ha una finestra sul mondo. Il pubblico statunitense e’ superaddestrato ad entrare a contatto con proddotti provenienti dalle latitudini piu’ disparate. Quindi non ho difficolta’ a credere che ne sono incuriositi.
 È anche importante il gusto per l’esotico che caratterizza gli americani  e che ha fatto la fortuna dei romanzieri sardi, come a suo tempo fu per Grazia Deledda.
E poi ci sono gli esperti, le persone che frequentano il cinema quasi per mestiere. Credo che a loro il film abbia trasmesso molto e che siano rimasti affascinati non soltanto dall’ambientazione sarda. È una storia di vita vera, arriva a chi è disposto a recepirla.

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