Articles by: Angelo Fusari

  • L'altra Italia

    Il volo sul Gran Sasso di Toni


    all' amico Toni Valeruz



    L'AQUILA - E' un sabato, un giorno diverso dagli altri poiché di riposo. Ed è per questo che, lentamente, mi avvio verso l'università dopo avere consumato il solito caffè nel locale da me preferito. Come ogni fine settimana nella quiete del grande istituto di fisica avrò modo di guardare, con attenzione, prima d'iniziare i miei studi, l'ambiente circostante dopo il risveglio dovuto alla primavera.


    Da qualche giorno soffia un gradevole vento tra i monti dell'Appennino centrale. Un vento che

    sa dell'estate: attorno a me noto un paesaggio assai riposante. I dorsali delle montagne

    precedentemente coperti dal ghiaccio dell'inverno, si sono trasformati in immense distese di verde.


    Su in alto, tra le vette emergenti, ancora gli ultimi nevai che giornalmente si assottigliano sotto i  raggi del sole della calda stagione. Toni mi ha chiamato dal Trentino confermandomi la sua nuova decisione: vuole tornare in Abruzzo per volare, questa volta, con il parapendio dalla vetta orientale del Gran Sasso fino in basso tra i prati dell'abitato di Isola. E' la prima volta che un uomo si avventurava volando da quella parete verticale sulla quale, nel precedente mese di aprile, era sceso facendo sci estremo.


    Di questo suo nuovo programma ne avevamo parlato qualche tempo prima ad Alba di Canazei. Due mesi dopo la sua impresa, su quel muro di rocce e di ghiaccio, io mi recai in Austria nella valle dello Stubai; tra le montagne di Innsbruck. Tra quelle montagne che, assieme alle Dolomiti, sono state sempre di forte richiamo per tanti alpinisti. Nel tornare decisi di fermarmi, per qualche giorno, in val di Fassa per salutare il mio amico. In una di quelle sere, uscendo insieme a lui, a tarda ora, da una vecchia locanda del paese, mentre camminavamo lungo la strada che porta alla sua abitazione, fummo sorpresi da una insolita immagine del Gran Vernel. La sua montagna: quella dei molti ricordi dovuti alle sue tante discese, in sci estremo, sulla parete nord.


    Si presentava in assenza di nuvole e nebbie: cosparsa di luce lunare, sovrastata da un cielo stellato tale da lasciare il fiato sospeso. Più volte ci fermammo osservando e fissando nella mente l'immagine che ci regalava. Solitari, nel silenzio della notte, continuammo a camminare lungo la vecchia valle. Forse per ispirazione dovuta al particolare momento mi disse: “Angelo, presto tornerò in Abruzzo, per salire di nuovo sul Gran Sasso e volare dall'alto con il parapendio”. Nella tarda mattinata del giorno successivo ripartii per tornare a casa. Rimanemmo d'accordo che a breve lo avrei aspettato in attesa di una migliore stabilità del tempo. Ed infatti, la settimana dopo il mio ritorno, all'improvviso, in un pomeriggio, lo vidi arrivare. Nelle ore successive parlammo di come organizzarci per la salita e di cosa portare negli zaini fino al rifugio Franchetti dove avremmo dovuto pernottare.


    L'indomani, subito dopo aver consumato un pasto leggero, ci avviammo arrivando, prima della fine del giorno, alla piccola dimora. La notte pur volendo dormire non ci riuscimmo. L'insonnia fu di enorme fastidio a tal punto che alle due del mattino ci alzammo e decidemmo di salire sulla vetta per assistere al sorgere dell'alba, in lontananza, sulla superficie deserta e sconfinata del mare Adriatico. Non appena la palla di fuoco emerse dagli abissi, arrossando con le prime luci le vette appenniniche, lo sentii mormorare qualcosa. Girandosi verso di me aggiunse: “Se il mio legame con questa montagna è assai forte è solo dovuto ad un'unica ragione: quella che essa, dopo la salita, sa ricompensarti con qualcosa di nuovo e molto sorprendente”. Il suo sguardo, in quel momento, si perdeva tra gli spazi dei riflessi luminosi sulle acque di quel mare; verso quell'alba così tanto diversa dalle altre osservate in altri luoghi.


    Mi rendevo conto che anche lui come me, poggiato su quelle umide rocce, cercava di dare una risposta ai tanti perché che, in quel mentre, affollavano la mente. Eravamo al cospetto di quel cielo infiammato: quel cielo che dava il presagio dell'avvicinarsi di una giornata serena. A quell'ora, nel freddo del primo mattino, immobili davanti a quell'evento, cosi tanto ammaliante, sembravamo due statue di pietra. Eravamo a contatto con il vuoto in quelle ultime ore della notte; mentre le tenebre, pian piano, lasciavano il posto alle tante luci sempre più intense. Come già detto in altri racconti, solo vivendo in questo modo la montagna, con i suoi tanti segreti, un uomo può capirla. Può essergli vicino come amico ed ascoltare la sua voce.


    La voce di quel vento che sa di lontano e che, insistentemente, continua a soffiare tra le rocce ghiacciate come se volesse salutarti. Quel vento che, mentre tu sei a dormire in uno sperduto rifugio d'alta quota, sfiora le superfici fredde dei ghiacciai dandoti la sensazione che trasformi il suo mormorio in una ninna nanna alpina, venuta a conciliare il tuo sonno tra i tanti pensieri per l'atteso domani. Dormendo vestito in un letto a castello, di misere coperte, sei consapevole di avere come unico riferimento il tuo compagno di cordata. La sola persona con la quale puoi confidarti e condividere la stanchezza, il rischio, ma anche l'orgoglio di conquistare il traguardo; la vetta stabilita.


    Non appena la montagna cominciò ad evidenziarsi nella sua completezza dall'oscurità, tornammo al rifugio. Facemmo una breve colazione: prendemmo ciò che avevamo lasciato per tornare di nuovo sulla cima aspettando l'ora propensa per il suo volo. Nell'attesa, lo vidi legare alla sua imbracatura le varie corde del parapendio. Cercò, più volte, di orientarlo nella giusta direzione per alzarsi senza mai riuscirci. Forse a causa della temperatura ancora bassa, c'era l'assenza delle correnti ascensionali dovute all'aria calda dirette verso l'alto. Quelle spinte che si sarebbero dovute formare dal calore dei primi raggi del sole e che avrebbero dovuto sollevarlo, come una piuma, ed allontanarlo dalle rocce.


    Anche questa volta, come quella precedente, gli sono vicino. Quel volo, in confronto ai tantissimi fatti sulle Alpi, si presentava con maggiore difficoltà dovuta alla vicinanza del mare dal quale potevano arrivare folate improvvise di venti assai pericolosi. Di questo inconveniente lui si era già reso conto. Pertanto mi diceva che il primo movimento che avrebbe voluto fare appena il distacco dalla parete, era quello di allontanarsi, in fretta, per non essere spinto, con forza, su di essa da quei soffi inaspettati con conseguenze disastrose. Conoscendolo bene sapevo pure che per affrontare simili prove, oltre alla sua esperienza, si preparava nella giusta maniera per non essere sopraffatto dall'idea del pericolo.


    Prima di sollevarsi in volo mi disse: “Se ci riuscirò è mia intenzione atterrare sul piazzale del santuario di S. Gabriele dove ti aspetterò non appena sarai tornato giù nella valle”. Ad un tratto, a seguito di un breve rumore, determinato dal gonfiarsi di quella calotta di tela speciale, lo vidi alzarsi nel vuoto. Si allontanava sempre di più nello spazio fino a diventare un punto. Con lo sguardo lo seguii ancora per poco: poi decisi di riordinare lo zaino per scendere nel paese dove avevamo lasciato la macchina la sera precedente.


    Nell'abbassarmi dalla vetta ogni tanto mi fermavo facendo piccole soste. Nei brevi riposi lo sguardo spaziava tra gli angoli della parete che, essendo velati di umidità, riflettevano i raggi del sole assomigliando a sorgenti di luci. Laggiù, a poca distanza, osservavo il tracciato del fiume, formato delle acque del ghiacciaio e dei nevai, dipanarsi come un filo tra le campagne teramane. Conclusa la lunga e scoscesa discesa, presi la sua macchina per raggiungerlo nel luogo dove mi stava aspettando. Nell'incontro, mi parlò di come era andata quest'ultima sua esperienza.


    Camminando, lentamente, ci avvicinammo al convento dei frati Passionisti per pranzare con loro passando tra le varie persone venute per assistere al volo. Uscimmo nel tardo pomeriggio per tornare verso casa. Lungo la strada ci fermammo ad osservare, anche questa volta, la vecchia montagna. Seppure in veste diversa dall'incontro precedente, si presentava con il suo profilo come fosse poggiata su un podio di verde. Tramandava, come sempre, la voglia di evasione per tornare lassù. Dopo averla osservata attentamente, con lo sguardo proiettato verso l'alto, Toni tornò a dirmi:“ Con questa montagna resterà per sempre un forte legame: da essa ho avuto tutto”. “Ho avuto quel che volevo nel massimo rispetto delle sue regole”. “Adesso torno in Trentino tra le mie Dolomiti dove anche tu hai segnato, seppure in modo diverso dalla mia, la tua storia d'alpinismo e dove ti aspetterò come sempre”.


    In quell'attimo leggevo nel suo volto il pensiero di un uomo intento a meditare sul suo lungo passato; anche su quello trascorso sulla vetta appenninica. Forse cercava con la mente di tornare indietro negli anni; quando, ancora ragazzo, usciva di casa per raggiungere la sua baita sui prati del Ciampac. Per avvicinarsi ed aggrapparsi sulle pareti annerite del Colac e poi su quelle verticali del Sella; là verso il mitico passo Pordoi. Ed è proprio in quei luoghi della sua fanciullezza che nacque e si rafforzò in lui il desiderio, la voglia di sottrarsi ad un mondo fin troppo rumoroso per rifugiarsi tra i silenzi delle vette. Tra quelle radure dove ogni piccolo processo di vita interagisce, nella maniera più completa e indisturbata, con il suo piccolo ambiente di appartenenza.


    Nel passare degli anni della nostra amicizia ho saputo capire pienamente il suo carattere ed anche il suo destino. Quel destino diverso dal comune e che spesso ha voluto portarlo lontano per sottoporlo a confronti e a prove assai impegnative. Quelle prove che lasciavano intendere la stretta vicinanza a quel limite che indicava, e che indica sempre, la netta separazione tra il volere dell'uomo e il potere dominante della madre natura. Toni non ha voluto mai sfidare l'impossibile come si potrebbe immaginare. Ciò che ha voluto fare, da grande campione, lo ha fatto con la giusta competenza e consapevolezza dell'impegno e del rischio a cui era sottoposto. Quel rischio che, anche in momenti di cambiamenti improvvisi del tempo, come avverso compagno, lo seguiva mentre tornava verso le sue montagne.


    Forse guardando il Gran Sasso, immerso nelle ultime luci sbiadite del tramonto, percepiva la speranza, la forza d'energia per continuare il suo cammino. Forse avvertiva di nuovo il suo richiamo: il desiderio di tornargli vicino. Due giorni dopo, non appena aver fatto visita nella val Raio a mia madre e a mio fratello Ezio, ci salutammo promettendoci di rivederci, al più presto, in val di Fassa. L'indomani rimaneva in me la convinzione che, pur avendo appagato il suo ultimo volere, avrebbe continuato a cercare altri incontri; altre storie da vivere tra le montagne vicine o lontane. Quelle storie uniche a dargli la forza costante e continua per proseguire il cammino della vita: quella forza indispensabile per pensare ed affrontare le tante incertezze dei sorprendenti domani.




  • L'altra Italia

    Sulle vie dei ricordi delle Alpi Giulie


    A mio fratello Ezio, amico e compagno nelle difficoltose salite sulle vette alpine


    L'estate volgeva alla fine. Il colore sbiadito del verde nella valle dava a capire l'avvici-

    narsi dell'autunno con le sue giornate di luce ridotta, spesso accompagnate da venti, conti-

    nui e non più caldi, provenienti dai monti circostanti. Era una sera d'inizio settembre. Il

    cielo terso, striato di colori del tramonto, appariva solcato da voli di rondini che, con il loro

    garrire, davano il presagio di una notte ancora mite; ravvivata dal biancore della luna. Las-

    sù dai pascoli d'alta quota proveniva la voce insistente dell'ultimo pastore che, con cura e

    pazienza, indirizzava le sue bestie verso luoghi lontani dai pericoli del buio.


    Come ogni anno la fine della calda stagione risvegliava in me il grande desiderio di tor-

    nare sulle Alpi; tra quelle montagne, seppure lontane, ma sempre vicine con il pensiero. Volevo rivivere, con attenzione, i molteplici aspetti naturali che esse offrivano solo nelle prime

    giornate autunnali: il colore dorato dei larici, l'avvistamento dei camosci, degli stambecchi,

    del gallo cedrone ed altro da rendere l'ambiente assai suggestivo. La voglia di evadere era

    tanta, a tal punto, che qualche giorno dopo, programmati i miei impegni di lavoro di fa-

    miglia e di studio, decisi di partire insieme a mio fratello Ezio. Arrivammo a Tarvisio nel

    tardo pomeriggio. Pernottammo e lasciammo i bagagli in una piccola pensione: base di ap-

    poggio per le nostre successive ascensioni sulle Alpi Giulie.


    Sotto quei cieli, spesso coperti di nuvole grigie, ero già stato in anni precedenti. Avevo

    condiviso con amici del luogo i rischi nel salire sulle asperità delle pareti rocciose delle

    vette dominanti il sottostante paesaggio di radure e di boschi. Partendo da Sella Nevea il

    nostro primo contatto, avendo come riferimento il rifugio Corsi, avvenne con il gruppo del-

    lo Jof-Fuart e con quello del Montasio sovrastante il medesimo altipiano e la val Bruna.

    C'era stato detto da alcuni alpinisti, di ritorno lungo il sentiero da noi seguito, di prestare

    attenzione nell'andare su in alto. In quegli impervi spazi, cosparsi di stelle alpine, era

    possibile trovare una mandria di stambecchi reinserita da poco tempo nella zona. Tra essi

    c'era un grosso maschio che, per gelosia dei suoi piccoli, poteva rendersi assai pericoloso.


    Infatti salendo di quota in prossimità di un torrione calcareo chiamato “ il Campanile

    di Villaco”, tra lo scorrere lento dei filari di nebbie, notammo quella bestia. Appena av-

    vistatici, seppure a distanza rassicurante per noi, iniziò ad avvicinarsi. Non ci restava che

    togliere gli zaini e le corde dalle spalle e sdraiarci su un piccolo spazio coperto da erbe e

    da sassi. Si presentò con un atteggiamento non buono, a pochi metri da noi. Per qualche

    minuto ci guardò in modo attento: poi, rassicuratosi della nostra indifferenza, tornò indie-

    tro per la stessa direzione da cui era venuto.


    Dopo alcune salite sulle vette più importanti dei due gruppi facemmo un breve riposo.

    Successivamente ci spostammo in direzione del monte Canino. Arrivammo al rifugio

    Gilberti quando il giorno volgeva alla fine, lasciando spazio alla notte che, con le sue

    tenebre, avvolgeva tutto in un immane silenzio. Era l'ora in cui l'aria tra le rocce sembrava

    come immobile. In alto agli ultimi bagliori del sole, che scompariva in lontananza,

    brillavano i cristalli di neve indurita del residuo vecchio ghiacciaio. Laggiù, verso

    l'Austria, la volta celeste si era accesa di colori evanescenti . Mentre dalle alture del Mon-

    tasio diffondeva l'eco dei rintocchi, lenti e cadenzati, di una piccola campana. Erano quelli

    di una sperduta chiesetta alpina dislocata tra le praterie della valle Raccolana.


    In quell'attimo, come già mi era successo altre volte, sentivo la montagna assai vicina

    con la sua quiete. Sembrava vederti come un figlio e dirti in segreto qualcosa. Raccon-

    tarti, seppure senza voce, il suo passato la sua storia la sua eternità. Sempre vissuta in soli-

    tudine tra continue e fredde bufere più volte da me affrontate e che, forse nel tempo, ave-

    vano delineato il mio carattere: il mio modo di essere. Proprio in quegli istanti si avvverti-

    va la convinzione di appartenere ad un immenso creato di perfezione legato, giornalmente,

    a leggi e moti perpetui che non erano assoggettabili al volere dell'uomo.


    Questo magico e inconsueto momento fu accompagnato dalle tenui e toccanti no-

    te provenienti dal rifugio del canto “La Montanara”: seguite da quelle di un altro canto

    “Benia Calastoria”. Non c'era cosa più significativa per un alpinista del vivere, seppure

    brevemente, una simile coincidenza di immagini così particolari seguite da voci che into-

    navano i versi più rappresentativi dei canti di montagna.


    Richiamato dal sorprendente momento mi avvicinai a quel gruppo di persone. Erano

    venute da Udine per salire, l'indomani mattina come noi, sulla vetta del monte Canino.

    Nell'intonare, in modo armonioso, la seconda canzone mi accorsi che uno di loro, dal vol-

    to bruno e provato dagli anni, cercava di cantare ma non ci riusciva. Aveva gli occhi ba-

    gnati di lacrime: uno sguardo assente e sofferente. Qualcuno della comitiva mi confidò

    che quella persona non appena completato il servizio militare in quei luoghi, tra le file dei

    ragazzi della brigata alpina Julia, era partito emigrante in Argentina. Pur essendo passa-

    ti tanti anni, pur avendo con sé la famiglia, non riusciva ancora a cancellare dalla mente

    il forte legame con la gente della sua terra nativa; con i suoi compagni di gioventù, con

    le sue indimenticabili montagne.


    Tornava ogni anno tra le sue Alpi Giulie. Guardando quell'uomo ebbi un momento di

    intensa commozione. Non lo conoscevo, ma lo salutai come fosse un amico. Immaginavo

    la sua continua e provata sofferenza vivendo in una terra molto lontana dal suo Friuli.

    I versi di quella canzone gli erano stati dedicati dai suoi vecchi amici. Avevano, probabil-

    mente, risvegliato in lui il grande desiderio di tornare per sempre. Cancellato, nello stesso

    tempo, dalla consapevolezza che ciò non avrebbe potuto più avverarsi. L'indomani

    mattina, assai presto, accompagnati da un debole vento di nord-est, salimmo sulla storica

    montagna. Osservammo le trincee della guerra (1915-18) immaginando gli enormi

    sacrifici e sofferenze sopportate da coloro che, pur non volendo, avevano dovuto combat-

    tere tra le intemperie continue ed avverse.


    Ci spostammo fino a Sella Preva. Poi, tornammo in paese. Dopo un riposante sonno, ri-

    forniti gli zaini di scorte alimentari, ci trasferimmo con un mezzo pubblico, attraversando

    il passo del Predil, nella valle di Trenta. La valle che ci portava, seguendo il percorso del

    fiume Isonzo, al cospetto di un altro colosso montuoso: il Triglav, in territorio sloveno.

    La valle di Trenta: terra di nessuno. Terra dimenticata dal progresso e dal modernità

    dove le poche persone rimaste, di età assai avanzata, offrivano ai passanti la propria

    ospitalità ed amicizia in un vecchio museo pastorizio. Facevano ciò per sconfiggere la

    tristezza di una continua e depressiva solitudine. Una donna ci disse che i giovani erano

    andati in luoghi lontani in cerca di lavoro e di una vita diversa. Avevano lasciato i propri

    genitori nel pianto e nell'attesa di un loro ritorno che, sicuramente, non ci sarebbe mai

    stato, ponendo fine ad un rinnovo generazionale di quei piccoli paesi.


    Quella gente, così umile e tanto indifesa, parlava bene la nostra lingua. Abitava in un

    lembo di terra che era stato, in tempi precedenti, territorio italiano. Poi, gli eventi storici

    avevano sancito il passaggio alla Jugoslavia. Eravamo in un piccolo borgo alpino dal

    nome “Na Logu”. Era adagiato su un pianoro di verde smeraldo: circondato da muraglie

    di pietre per la difesa dagli attacchi notturni degli orsi. Caratterizzato dall' assenza di

    rumori all'infuori di quello dovuto allo scorrere lento delle acque del fiume, che si portava

    verso Caporetto e il monte Nero. Dal cielo azzurro, dall'aspetto autunnale, provenivano i

    versi di un solitario rapace che sorvolava i tetti delle case: alcune con le finestre chiuse.


    Io ed Ezio avevamo un dislivello di duemila metri da superare per arrivare al rifugio

    “Trzaska-Koca “, situato sulla forcella Dolic, che ci avrebbe ospitato per due notti. Quasi

    dispiaciuti di dover lasciare quel posto e i suoi ospitali abitanti decidemmo, appena

    consumato un pasto leggero, di partire. Sapevamo che il tratto finale di quel sentiero

    avremmo dovuto superarlo, a causa del ritardo dovuto alla riduzione delle forze, con

    le lampade frontali. Speravamo di non imbatterci con le nebbie formatesi con la diminuzio-

    ne della temperatura con l'altitudine. Nell'andare, raggiungemmo alcuni alpinisti venuti da

    Belluno con i quali arrivammo alla piccola dimora sperduta tra le ombre dell'oscurità. In

    essa pensavamo di riposare dentro un sacco a pelo in un angolo del soffitto. Ciò non fu

    possibile a causa del vociare, fino a tarda ora, nel sottostante locale di ristoro. All'alba se-

    guente, tra i primi tremolanti chiarori, insieme ai nostri amici italiani salimmo sulla vetta.

    Superammo passaggi di media difficoltà. Dall'alto si godeva una visuale spettacolare. Lo

    sguardo si perdeva lontano fino a Lubiana, rincompensando le fatiche precedenti.


    Fatta una breve ricognizione andammo sulla seconda vetta più importante del Triglav.

    Salutati gli alpinisti bellunesi, scendemmo nella valle di Vrata: per giungere, dopo un lungo

    percorso, nell'abitato di “Kranjsca-Gora”. Eravamo molto stanchi ed assonnati. Nonostante

    ciò bevemmo, in fretta, nel primo locale avvistato, un thè caldo alle prugne cercando di pren-

    dere, nel poco tempo rimasto a disposizione, l'ultimo mezzo di collegamento con Tarvisio.

    Del nostro programma, tracciato alla partenza, restava un'ultima salita assai impegnativa

    da affrontare: la parete nord-est del Mangart. Trascorsa una giornata di sosta e la notte in

    quella cittadina di confine, allo spuntare del nuovo mattino ci portammo alla base di quel

    muro di roccia passando per i laghetti di Fusine. Le rive erano cosparse di candide brine.


    Ricordo che al momento del fissaggio delle corde su quelle pietre ricoperte da un velo

    di ghiaccio, dovuto al freddo delle ore notturne, avevo un noioso mal di testa. Volevo rinun-

    ciare alla difficoltosa ascesa. Tale decisione veniva rafforzata dalla vista, in un angolo del

    luogo, di una piccola targa riportante i nomi di un nonno e del suo giovane nipote caduti

    durante la scalata. Furono Ezio e l'altro compagno di cordata di Fusine che, con insistenza,

    riuscirono a convincermi e quindi a partire facendo la prima sicurezza con i moschettoni.

    Oltre al malessere ero pure consapevole che la non partecipazione mi avrebbe creato un di-

    spiacere che non avrei dimenticato facilmente. Prima di mezzogiorno, avendo alle spalle

    vari metri di vuoto, ci trovammo sulla parte culminante dell'emergente montagna. Era

    contrassegnata da un cippo di confine, annerito dal tempo, con lo stato slavo. Restammo

    a guardare fino a quando un banco di nebbia, transitante lentamente, cancellò dagli occhi

    ogni immagine.


    Tornammo alla base facendo un lungo giro. Nel mentre gli altri si liberavano di tutto il

    necessario utilizzato per la salita su quello strapiombo roccioso, a poca distanza da loro,

    io osservavo l'imponente parete. Era riscaldata dal tepore di una giornata serena. A piccoli ed

    impercettibili passi, per non disturbare, si avvicinò mio fratello. Per un attimo mi guardò

    con gli occhi ancora madidi di sudore. Poi, stringendomi la mano, mi disse: ”Sono molto

    orgoglioso di aver segnato ancora una volta , insieme a te, sulle vie dei ricordi di queste

    montagne, la continuazione della nostra storia alpinistica. Una storia che è stata di for-

    mazione di vita e di unione per noi e che racconteremo, un giorno lontano, a quanti inizie-

    ranno, con sacrificio e volontà, a segnare i loro passi su questi sentieri del nostro passato”.


    Sapevo che i ricordi non tramontavano mai e che tanti dei nostri segreti erano racchiusi

    tra quegli ambienti. Legati ad una parte di vita trascorsa alla ricerca di una natura diversa

    tra angoli e spazi remoti dei monti europei. Sapevo che della conoscenza delle montagne, e

    dello studio delle teorie complesse della fisica, avevo fatto una scelta di vita. Cammina-

    vamo tra le vette di un mondo solitario: i cui eterni silenzi spingevano il pensiero ad una

    profonda meditazione sui tanti misteri della nostra esistenza. Mi rendevo conto di

    avere appagato un grande desiderio: ma, al contempo, avvertivo un senso di rimpianto

    del periodo precedente alla salita. Avevo esaudito un altro sogno di lunga attesa. Un sogno

    che mi aveva accompagnato per giorni e per notti e che difficilmente avrei potuto rivivere

    alla stessa maniera; con lo stesso entusiasmo nel lento e continuo, e a volte sofferente,

    cammino della vita.


    Angelo Fusari
    è nato a Tornimparte, comune a pochi chilometri dall’Aquila, dove risiede. Laureato in Fisica, ha lavorato in un’azienda elettronica. Appassionato di montagna e discreto alpinista, conta oltre venti anni di attività, maturata sulle cime più alte delle Alpi italiane, francesi, svizzere ed austriache. Oggi ha di molto ridotto gli impegni in montagna, preso dagli studi nel campo della fisica. Ha però da qualche tempo iniziato a raccontare, sulla scorta dei ricordi e dei suoi appunti alpinistici, le esperienze vissute sulle cime delle Alpi e le emozioni d’un uomo di montagna.