Articles by: Di domenico logozzo *

  • L'altra Italia

    Il soldato Rocco che amava la zappa

    Cento anni fa, il 24 maggio 1915, il mio giovane zio, Rocco Lombardo, umile contadino che fin da bambino aveva iniziato a lavorare nei campi per aiutare la famiglia, partiva da Gioiosa Jonica, estremo Sud della Calabria, per indossare la divisa del nostro esercito e combattere sui monti del Nord nella Prima Guerra Mondiale. Aveva 22 anni e faceva parte dell'89° Reggimento Fanteria.

    Viaggio di andata. Senza ritorno per il soldato Rocco, costretto a lasciare l’amata zappa per  imbracciare il fucile. E sparare. E uccidere per non essere ucciso. Non amava le armi. Ma doveva rispettare gli ordini. E con l’umiltà di un contadino cresciuto con il rispetto - in casa e fuori - di chi ha l’autorità per decidere, ha fatto il suo dovere di soldato. Fino all’ultimo. Senza mai tirarsi indietro. In prima linea. Con coraggio. Fino all'ultima sfida. E’ caduto sul campo di battaglia. I documenti ufficiali riportano: "Morto il 20 agosto 1917 nell'ospedaletto da campo n° 006 per le ferite riportate in combattimento". Una vita volata in cielo troppo presto. Aveva appena 24 anni.
     
    Fu il primo Grande Lutto per mia nonna Maria Teresa Macrì e per la famiglia di mia madre Maria Giuseppa Lombardo. Due grandi donne, che tanto mi hanno insegnato: due  punti di riferimento fondamentali per la mia formazione e crescita sulla buona via. Non hanno potuto piangere sulla bara di mio zio. Non hanno potuto realizzare per lui una tomba nel cimitero di Gioiosa Jonica. La guerra, la maledetta guerra, ha  rubato ai miei nonni la vita del giovane figlio. E neppure i funerali hanno potuto fare in Calabria. Cosa che ha reso il dolore ancor più straziante. Scempio del piombo nemico, su quei monti del Nord dove mio zio aveva sofferto il freddo e marciando nella neve aveva subito l’assideramento dei piedi. Per questo gli era stata concessa una licenza. L’unica e l’ultima. Maledetta guerra! “Faceva pena, era ridotto male, ho pianto tanto vedendolo in quello stato. Quando si è ripreso è ripartito. Ci siamo salutati. Non è stato un arrivederci. E’ stato un addio. Non l’abbiamo più visto. Né vivo, né morto“, mi raccontò mia madre che era bambina ma si ricordava tutto quello che mia nonna diceva a lei di quel fratello sfortunato. Grande lavoratore. Umile. Amatissimo. Mia madre non l’ha mai dimenticato. Ci teneva al rispetto della memoria. Uno dei miei fratelli, Vincenzo, ha come secondo nome Rocco. Come lo zio Rocco il cui nome è inciso nel freddo marmo del Sacrario Militare di Redipuglia e del monumento ai caduti di Gioiosa Jonica.
     
    Una famiglia di contadini. Tutta la famiglia impegnata nella coltivazione delle terre avute in colonia dal barone Macrì. Sacrifici enormi. Mi raccontava mia madre: “Lavoravamo dalla mattina alla sera, c’era tanto fare e mio padre ci teneva tanto alla qualità ed alla quantità della produzione. La terra era tutto per lui. Non conosceva svaghi. Purtroppo abbiamo avuto lutti dolorosi dopo quello di Rocco. Ma il più grave è stato quando un infarto ha ucciso mio padre. E’ morto di crepacuore. Quando una mattina si è affacciato sull’uscio della casa colonica ed ha visto il campo completamente sommerso dalle acque, dalle pietre e dal fango del vicino torrente “Cafia” che aveva rotto gli argini, è piombato a terra privo di vita, dopo che con la disperazione nel volto aveva fatto appena in tempo a dire: “Mio Dio, no!”.

    Per lui quell’alluvione significava la fine. Disperato perché in una notte la furia delle acque si era portata via il lavoro di tanti anni. Sacrifici in fumo. E prospettive non semplici: chissà quanto tempo ci sarebbe voluto per rimettere a posto le cose. Mia madre è stata forte. Una donna sola con tanti figli. Ha fatto cose grandi. Lavoratrice instancabile. La schiena piegata in due. Non si è mai data per vinta”.

    Di mio zio Rocco non c’è una foto. Nella mia mente è tuttora impressa l’immagine di quel militare dallo sguardo fiero di calabrese che con onore indossa la divisa, nella cornice realizzata da mio padre, una corona di alloro, un’opera d’arte, fatta con abilità da un autentico artista nell’intaglio del legno.

    Non ci sono più quella foto e quella cornice appesa nella camera da letto di mia nonna e di mia zia che abitavano insieme a noi dopo che avevano lasciato la casa colonica e smesso di lavorare la terra perché il comune aveva deciso l’esproprio per realizzare il nuovo edificio delle elementari. Ad amministrare il comune in quel tempo era mio padre. La  suocera colona del barone fu costretta ad andar via, senza alcun risarcimento. Quando gli amministratori pensavano al bene comune e non agli interessi personali! Altri tempi. Dunque, la foto e la cornice non ci sono più perché mia madre quando è morta mia nonna le ha messe nella bara, insieme a tutte le foto delle mie zie e dei miei zii morti. “Così continuano a stare  insieme, per sempre”, mi rispose mia madre quando un giorno gli chiesi perché l’aveva fatto.

     
     A cento anni dall’inizio della Prima Grande Guerra il mio pensiero grato e commosso va a tutti quei giovani che sono stati mandati a morire nel folle conflitto mondiale. Il presidente Sergio Mattarella, nel commentare l'anniversario, ha ricordato: " Fu una carneficina a ogni assalto. E la vita di trincea non era un sollievo: fango, pioggia, parassiti, malattie e quelle attese lente e snervanti. 'Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie', scriveva Giuseppe Ungaretti dal fronte, dove era fantaccino, fissando in versi stupendi il senso di totale precarietà che regnava al fronte. Vi persero la vita 10 milioni di militari e un numero indefinito di civili, vi furono milioni di feriti e di mutilati. Ma in questo universo fatto di fango, di sofferenze, di stenti e di morte, migliaia e migliaia di soldati, dell'una e dell'altra parte, sopportarono prove incredibili, compirono atti di grande valore e di coraggio e gesti di toccante solidarietà".
     
    Dura la condanna della guerra anche da parte di papa Francesco durante la messa celebrata nel Sacrario militare italiano di Redipuglia, che custodisce le salme di 100.187 caduti della Prima Guerra Mondiale:  "Trovandomi qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia. La guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l'essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!" Giovane soldato fu anche il nonno paterno del Papa, Giovanni Carlo Bergoglio, bersagliere radiotelegrafista classe 1884, che combatté in trincea nei pressi del fiume Isonzo. "Ho sentito molte storie dolorose dalle labbra di mio nonno", ha ricordato. Lo stesso nonno, una volta terminata la guerra, con l'economia italiana in difficoltà, decise di emigrare in Argentina dove il futuro Pontefice nacque. Papa Francesco ha aggiunto: "Qui ci sono tante vittime. Oggi noi le ricordiamo. C'è il pianto, c'è il dolore. E da qui ricordiamo tutte le vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono tante. Come è possibile questo? E' possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c'è l'industria delle armi, che sembra essere tanto importante. E' proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere ". E ancora: "Con cuore di figlio, di fratello, di padre, chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da quel  'a me che importa?', al pianto. Per tutti i caduti dell’ 'inutile strage', per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo. L'umanità ha bisogno di piangere, e questa è l'ora del pianto". 
       
    Oggi  anche io piango e mi inchino davanti alla figura gigantesca del mio giovane zio che ha conosciuto soltanto la fatica dei campi, la lotta dura per sopravvivere in una realtà povera come quella gioiosana di un secolo fa, la paura e la crudeltà della guerra. E’ morto con l’uniforme dell’Italia. L’hanno mandato a morire. Giovani del profondo Sud caduti sotto i colpi del nemico nel lontano Nord. Sono onorato per queste mie nobili radici, radici contadine (mio nonno paterno emigrato senza fortuna negli Stati Uniti, rientrato a Gioiosa Jonica, per portare avanti la famiglia, zappava la terra e spesso veniva chiamato a lavorare da mia nonna materna). Mi commuovo e penso che se ho compiuto un lungo e non sempre facile cammino umano e professionale, a volte cadendo, ma rialzandomi sempre, più forte che mai, lo devo alle miei radici e al luogo da dove sono partito l’indimenticabile “ruga Cafia” di Gioiosa Jonica. Là dove sono cresciuto nutrendomi anche con la buona  cultura popolare. Le anziane e gli anziani ci davano buoni consigli. E noi stavamo ad ascoltare. E quelle lezioni non le ho mai dimenticate. Non le dimenticherò mai. Dico alle belle persone della mia infanzia gioiosana “GRAZIE!”. Con tutto il cuore.  
       
     *già Caporedattore del TGR Rai

  • L'altra Italia

    L'Aquila. Prima della sfilata degli Alpini. Note dal cuore



     
     
    L’AQUILA - Cuore d’alpino. Un cuore d’amore. Un cuore che sa gioire. Un cuore che fa gioire. Un cuore che dà speranza. Anche nei momenti più tristi. Gli alpini riescono a creare un clima di festa e di fiducia nel futuro. Anche dove le troppe delusioni e gli inganni alimentano il pessimismo. Come a L’Aquila, tradita dalle promesse non mantenute del post-terremoto. Gli Alpini, nella loro 88^ Adunata Nazionale, con la grande sfilata nelle vie martoriate del capoluogo aquilano, hanno riacceso i riflettori sulla realtà. La “carica dei trecentomila” ci consegna tante emozioni e tante lezioni di vita. Come quell’alpino che si è fermato ed ha reso l’estremo omaggio con il suono dell’armonica a bocca all’alpino piemontese Giovanni Vignola, di 80 anni, a terra privo di vita, stroncato da un infarto mentre a L’Aquila stava raggiungendo a piedi la caserma Francesco Rossi per prendere parte alla grande sfilata.
     
    La musica per esprimere la vicinanza in un momento di grande dolore. Una bella pagina di umanità. Su facebook la racconta così Federico Palmerini, un giovane sacerdote, con grande cultura e con straordinaria sensibilità. Scrive: “Mentre celebravo la Messa delle 9 in parrocchia (Parrocchia Santa Rita L'Aquila), accanto alla nostra chiesa Giovanni, alpino di Saluzzo, 80 anni, "è andato avanti", colto da un infarto mentre si recava alla sfilata. Tra i tanti segni di vicinanza a questo alpino e a suo nipote, venuto con lui all'Aquila, ce n'è stato uno eccezionale per la sua semplicità: un alpino, accortosi dell'accaduto, dal bordo opposto della strada (apparentemente a distanza...), si è fermato, ha tirato fuori la sua armonica a bocca ed ha salutato con un breve brano musicale l'alpino Giovanni (così gli si è fatto vicino...). Anche questa è l'adunata, ma soprattutto questa è bella umanità! A-Dio, Giovanni!”.
     
    Umanità. Una bella parola che gli alpini riescono sempre a riempire di nobili contenuti. Ovunque vanno lasciando segni indelebili: uomini che sono sempre capaci di sorprenderci e  commuoverci con grandi atti d’amore e di solidarietà. L’Aquila nei momenti più drammatici. “Grazie della vostra presenza, alpini!”, scrive ancora Federico Palmerini, ricordando che due gruppi sono stati ospitati nella parrocchia di Santa Rita, quello padovano di Carmignano sul Brenta e quello vicentino di Sarmego. C’è una foto con  gli alpini che consegnano la staffetta a Santa Rita “mentre ci prepariamo alla sua festa, venerdì 22 maggio”, sottolinea don Palmerini. Il giovane sacerdote ricorda anche “lo scambio tra don Alfredo ed il capogruppo di Sarmego: da loro abbiamo ricevuto il gagliardetto del gruppo, mentre don Alfredo ha regalato loro una preziosa bottiglia del suo liquore tipico... corretto al peperoncino!”
     
    Piccoli doni con un grande significato. L’amicizia sincera. Testimoniata nei giorni terribili del devastante terremoto e riconfermata domenica 17 maggio, con la grande sfilata. Una marea di penne nere, un invito a risorgere, a non fermarsi mai. Sul quotidiano abruzzese il Centro, il giornalista Giustino Parisse, che nella drammatica notte del 6 aprile 2009 ha perso i due figli, ha raccontato il corteo “dal di dentro”. Ha iniziato così: “Basta piangere. Due parole gridate da dietro le transenne quando avevo appena superato la tribuna d'onore. E' come se quello spettatore, di cui non sono riuscito a vedere il volto, mi avesse letto dentro”. E poi: “Vicini a me, a reggere lo striscione con l’appello per una ricostruzione rapida, dieci alpini di Onna. Ho visto, in lontananza, una città in marcia. Sì perché una città la fa la gente e non conta se tutt'intorno ci sono i segni di quei trenta maledetti secondi. Le persone che ieri sono giunte da ogni parte d’Italia in fondo mi sono sembrate più aquilane degli aquilani. Basta piangere. Giusto. Eppure si può piangere anche per una gioia improvvisa quando vedi che L'Aquila c'è: sei anni fa di questi tempi era un luogo fantasma mentre ieri grazie agli alpini ha riacquistato voci, suoni e colori”.
     
    Ha concluso così: “Da domani si riparte. Tutti in marcia per la nuova L’Aquila. Come i veri alpini. Come i veri aquilani”. L’ottimismo della volontà, fatti concreti, perché L’Aquila riparta effettivamente. Le penne nere hanno dato un nuovo impulso alla speranza. L’Aquila può ritornare a volare. Basta volerlo!
     
    *già Caporedattore del TGR Rai 
     
     

  • L'altra Italia

    Il parroco di Penne e Mario Pirani

    Il grande cuore dell’Abruzzo durante la Resistenza e la riconoscenza di chi è stato protetto da un popolo generoso. L’altruismo una regola di vita. Lezioni da rileggere, attraverso le pagine di storia scritte da chi ha vissuto per mesi con la paura di essere catturato e fucilato dai tedeschi. Fuggiaschi sulla Majella o nei paesini, coperti  da persone che non avevano esitato a mettere a repentaglio la loro vita per salvarli. Da un capo all’altro dell’Abruzzo. Ricordi indelebili nella mente di chi è stato aiutato. Da Scanno a Penne. Un lungo e solido filo di solidarietà. Tanti racconti. Tanta gratitudine. Dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ad uno dei fondatori di Repubblica, Mario Pirani, recentemente scomparso.

    Penna raffinatissima del giornalismo italiano, l’autore del libro “Poteva andare peggio”,  intervistato da Serena Dandini nella trasmissione Rai "Parla con me", aveva raccontato la sua  infanzia, ricordando quando riuscì a sfuggire “ad una razzia di nazisti repubblichini, nelle strade di un paesino abruzzese”. Spiegò: “Eravamo nascosti a Penne. Un parroco mi afferrò per un braccio e mi disse: “Vieni, vieni figlio mio, vieni”. Mi chiuse nell’armadio a muro della sua parrocchia”. Provvidenziale l’aiuto del sacerdote. Al sicuro appena in tempo. Sentì subito dopo provenire dall’esterno della canonica le urla dei minacciose dei tedeschi: “Banditen”. E l’abbaiare dei cani. Momenti terribili. Mai dimenticati: “Ho questo ricordo quasi sonoro, la colonna sonora di quel momento”.

    Mario Pirani, nel marzo del 2001, fece una lunga intervista ad un altro grande uomo della Resistenza, salvato dagli abruzzesi: il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il giovane sottotenente si era rifugiato in Abruzzo nel settembre del 1943 rimanendovi fino al mese di marzo del 1944. Accolto calorosamente. Un legame forte. Mai interrotto. Riconoscenza e orgoglio.

    L’Abruzzo che si fa amare. E che onora chi difende i valori della libertà. Come ha fatto Scanno, che  il 4 agosto 1996 all’allora ministro del Tesoro Ciampi conferì la cittadinanza onoraria.

    “Giunsi in questo paese - disse il futuro presidente della Repubblica nel discorso ufficiale - dopo l’8 settembre 1943 quasi per caso, e il caso si impersonò nell’amico Nino Quaglione. Vi giunsi dopo aver provato, come tanti giovani militari, l’amarezza della dissoluzione dell’esercito, l’umiliazione della disfatta, la rabbia perché non ci era stato dato modo di reagire. Se fummo capaci di ritrovare i punti cardinali di riferimento, di riconquistare la serenità dell’animo, di fare le conseguenti scelte e di perseguirle con determinazione, di sentirci di nuovo parte viva di una società di uguali, ciò fu dovuto al clima umano che respirammo in queste montagne, in questa terra d’Abruzzo.

    Una popolazione povera, provata da anni di guerra, semplice ma ricca di profonda umanità, accolse con animo fraterno ogni fuggiasco, italiano o straniero; vide in loro gli oppressi, i bisognosi, spartì con loro “il pane che non c’era”; visse quei mesi duri, di retrovia del fronte di guerra con vero spirito di resistenza, la resistenza alla barbarie” .

    Gente buona. Leale. Elogio all’Abruzzo, sottolineato nell’intervista concessa a Mario Pirani: “Ricordo, solo per fare un esempio fra i tanti, che quando ero rifugiato a Scanno in attesa di passare le linee, nascosto con me vi era un ebreo romano, Beniamino Sadun, ma, mentre paventavamo l'arrivo di tedeschi o di repubblichini, nessuno temeva una spiata di qualcuno degli abitanti, tanto vivo era il sostegno che sentivamo attorno a noi. Del resto lì vicino passava quello che veniva chiamato il sentiero della libertà, un impervio passaggio attraverso il massiccio della Majella, da dove tanti prigionieri angloamericani transitarono con l'aiuto dei nostri contadini. Di lì passai anch'io per riandare ad indossare la divisa nell'esercito dell'Italia libera. Spero di tornarci fra qualche mese ad una cerimonia di commemorazione che si sta organizzando”.

    E Ciampi vi ritornò il 17 maggio, per dare il via alla prima edizione del “Sentiero della libertà - Freedom Trail” da Sulmona a Castel di Sangro. “A voi giovani ripeto l’invito che rivolgeva a tutti gli uomini il vostro grande poeta Ovidio: guardate in alto, rivolgete sempre gli occhi alle stelle; abbiate ideali, credete in essi e operate per la loro realizzazione. Questo è ciò che la mia generazione e la generazione dei vostri nonni vi trasmette, vi affida come messaggio che sono sicuro saprete onorare ed affermare sempre di più”. Un messaggio che ha trovato positivi riscontri anche nella crescente partecipazione dei giovani alla manifestazione organizzata dall’associazione culturale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”, con il Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona. La quindicesima edizione prenderà il via venerdì Primo Maggio dal Campo di concentramento n. 78 di Fonte d’Amore, nella ricorrenza del 70° anniversario della fine della seconda guerra mondiale con la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista.

    *già Caporedattore del TGR Rai 

  • L'altra Italia

    In Argentina, ma con il cuore in Calabria

    E’ nata e vive in Argentina, ma il cuore la porta in Italia. Sandra Repice da quando era bambina ha un sogno: conoscere il Bel Paese dei nonni. Insegnante, 49 anni, abita a Lomas de Zamora, una località non lontana da Buenos Aires. I suoi genitori sono figli di italiani emigrati agli inizi del Novecento. Pure loro sono nati in Argentina, ad Avellaneda.

    Sandra in Italia non c’è mai stata. “Voglio visitare la Calabria, appena posso, con i miei genitori, per conoscere i paesi  dove sono nati i miei nonni. Ho visto le foto del mare di Gioiosa. E’ un posto meraviglioso! Un mare che mi emoziona. A volte penso che mio nonno di fronte al mare sognava una famiglia, una vita piena di progetti. E ha ottenuto importanti risultati, perché ha creato una famiglia affettuosa e forte. Questo mare, se Dio vuole, presto lo vedrò. E’ il mio sogno. Sarà  realtà. Come nipote di immigrati calabresi sento l'orgoglio e la passione per la terra da dove loro sono partiti. Apprezzo la decisione coraggiosa. Hanno dovuto lasciare tutto, sapendo che forse non sarebbero mai più tornati indietro”.

    Il sogno italiano di Sandra è condizionato pure dalla situazione economica: “Non è favorevole il cambio favorevole della moneta argentina con l’euro o con il dollaro. Per un Euro ci vogliono 11 pesos argentini, per un dollaro 8 pesos argentini. Si può viaggiare con la Agenzia di Turismo della Associazione Calabrese che è molto conveniente”. In attesa di poter concretizzare il grande desiderio, lancia un appello: “Sarebbe meraviglioso trovare oggi i nostri parenti in Calabria. Abbiamo cercato un contatto, ma finora senza successo. E colgo questa occasione per invitare chi porta il nostro stesso cognome a scriverci su facebook. Abbiamo anche cercato di metterci in contatto con il radiocronista della Rai Francesco Repice, che ha origini calabresi. Un nipote di mio padre nel 1947 era dirigente del Crotone e si chiamava proprio Francesco Repice. Ho una foto della squadra crotonese che risale a 68 anni fa. L’ho fatta pubblicare sulla pagina facebook GIOIOSA IONICA. La nostra è una famiglia con una importante tradizione sportiva, che si tramanda di generazione in generazione. Adesso c’è un nipotino, Santiago, di 13 anni, che gioca con l’Almirante Brown di Adrogué, nella provincia  di  Buenos Aires”.

    Sandra prosegue nell’appassionata scoperta delle radici e con  grande orgoglio dice: “Mi sento italiana nel più profondo del cuore. Io sono cittadina italiana, come la maggior parte della famiglia. Mia madre ha origini liguri e mio padre calabresi”. Siamo alla vigilia della grande festa annuale dei calabresi d’Argentina che ci sarà il 12 aprile a Buenos Aires, nel segno di San Francesco di Paola. Una manifestazione, quella voluta dalla FACA, che conferma di anno in anno quanto è forte il legame con la terra dei padri. La devozione al Santo Patrono della Calabria è immensa.

    In suo onore il 12 aprile sarà celebrata una messa nella Cattedrale Metropolitana di Buenos Aires. Molti, a partire da me, hanno il corpo in Argentina, ma il cuore in Italia. Nella festa coinvolte le associazioni calabresi che promuovono  le attività turistico-culturali. Ci sono  spettacoli di danza con i costumi, i suoni e i canti della tradizione. E poi stand con prodotti tipici regionali. La partecipazione è notevole e sono tanti gli  stranieri in vacanza che sono attratti da un evento che mette in luce le particolarità della Calabria”.

    Completa integrazione. La docente italo-argentina afferma che in effetti ”l’Argentina si identifica sostanzialmente con l’“impronta italiana”. C’è tanta Italia nell’Argentina di oggi. Non solo numericamente. Il 65% della popolazione è infatti discendente di italiani. Fa parte della  classe medio-alta: uomini d'affari e imprenditori apprezzati nel mondo dell’edilizia. I primi immigrati italiani hanno costruito praticamente quasi tutto in Argentina”. Gli argentini apprezzano  la forza che ha avuto l'Italia di risollevarsi da  guerre devastanti e gravi disastri. Solo le persone realmente forti possono farcela. E questo è un motivo di orgoglio e di grande emozione per  quasi tutti gli argentini di origine italiana”. Precisa: “Ho molto amore e rispetto per le radici perché danno sempre la forza necessaria per affrontare le maggiori difficoltà che la vita ci mette davanti”. Poi evidenzia: “Gli italo-argentini vogliono mantenere vive le tradizioni e le usanze della cultura italiana”.

    C’è tanto interesse per lo studio della lingua. Sandra Repice frequenta le associazioni culturali qualificate come la Dante Alighieri: “Da sempre sono interessata a imparare bene la lingua. Posso studiare solo ora, ma non è mai troppo tardi, e mi piace molto. Ci sono scuole di  buon livello. Bisogna fare in modo che lo studio dell’italiano entri sempre di più nelle scuole argentine. Cosa che stiamo ottenendo, sia pure  lentamente. Serve il contributo di tutti”. Ricorda: “Una volta c’erano i piani di studio italiani e si insegnava il latino. Sono stati sostituiti dal francese e dall’inglese”. Si dice “disponibile a partecipare alle iniziative culturali  per fare in modo che si concretizzino i sospirati  cambiamenti”. La docente italo-argentina ha un figlio di 20 anni, Pablo, che lavora con il padre architetto e studia Storia all’università. E’ molto legata al mondo della scuola: “Ho scelto di fare l’insegnante perché credo che attraverso l'educazione possiamo fare un paese grande e potente”. Ha un ruolo importante: “Sono ispettrice di Scuola Media a Lanús e sono anche insegnante di Didattica e Pratica. Ho iniziato ad insegnare al liceo quando avevo 21 anni. Una professione che mi piace tantissimo e alla quale ho dedicato e dedico tanto tempo e impegno. Un percorso scolastico che mi ha dato finora belle soddisfazioni ma anche grosse responsabilità. Sono stata anche direttrice di una scuola con mille alunni e 120 insegnanti”.

    L’attenzione oggi la sta concentrando principalmente sullo studio dell’italiano. “Perché amo l´Italia, mi piacciono le abitudini e la cultura italiana. La ricchezza del linguaggio, la stessa storia d'Italia, che significa il primo germe dell'umanità”. E il pensiero va ai nonni: “Il mio sogno da bambina era imparare la lingua italiana e parlare come i miei nonni, Salvador ed Emilia. Mi piaceva andare a trovarli tutte le domeniche. Mangiavamo tutti insieme e mio padre parlava in dialetto con loro. Io ascoltavo con piacere,  sebbene non capissi  niente del loro parlare”. 

    Ha  nostalgia dei “bei ricordi degli anni Settanta”. Quando si stava a tavola, si mangiava calabrese, si colloquiava e ci si divertiva. Il piacere di stare insieme. “Proprio così, c’era un formidabile calore nei rapporti umani, la famiglia era unita, la comunicazione era diretta. Altro che distrarsi -come si fa oggi- con i telefonini. Allora mia nonna cucinava i dolci per la merenda di tutti gli amici, aveva tempo per fare diverse cose che a me  piacevano assai. Ora tutto si fa in fretta. Non ho tempo per niente. Si potrà recuperare il bello di quel tempo? Lo spero”.

    E intanto Sandra rivive le gioie dell’infanzia. Sfoglia con noi l’album della memoria. “Avevo 8 anni. Con i miei genitori Roque Repice e Alba Rocchetta, eravamo stati a pranzo nella casa della madrina di mio padre, che si chiamava Carmela. Alla fine,uno degli ospiti si era alzato per aiutare la padrona di casa a sparecchiare. Stava togliendo la tovaglia, quando la signora Carmela lo fermò: “Aspetti che prima raccolgo tutte le briciole. E con pazienza recuperò le mollichine una ad una. Le mise in un piatto: “Nulla si deve buttare”. Rievocando i tempi duri della guerra, quando non c’era da mangiare. Quel gesto è rimasto impresso nella mia memoria. Per sempre. I nostri genitori ci hanno insegnato che non dobbiamo mai buttare via il cibo, perché il cibo è sacro. Così ci hanno insegnato”.

    Pagine di storia. Capitoli ricchi di sentimenti e di cultura. Le certezze e le lezioni. La saggezza degli anziani, un tesoro per le giovani generazioni. Eredità da non disperdere. “Mi ricordo ogni singola parola dei miei nonni. Parole d'amore per la loro terra e di ringraziamento per  l’Argentina che li ha  ospitati. Odiavano la guerra per tutti i danni che aveva causato. Mio nonno, Salvador Repice, di Gioiosa Jonica, dopo avere prestato il servizio militare a Napoli per due anni nella Marina, è venuto in Argentina nel 1923. Prima è stato a  Valentín Alsina e poi ad Avellaneda, entrambe nella zona a sud di Buenos Aires. A Gioiosa aveva studiato. Aveva una certa cultura ed era riuscito ad inserirsi subito e bene nel mondo del lavoro. Fondò una società di costruzioni, chiamandola “Salvador Repice”, alla quale successivamente aggiunse i nomi di mio padre, di mio zio e del mio bisnonno Roque, che a Gioiosa aveva lavorato nelle ferrovie. Realizzarono importanti opere, come il cablaggio sotterraneo di Buenos Aires e della Provincia. Dopo 50 anni l’intero impianto è in condizioni eccellenti”.

    Sandra era una bambina curiosa. Ai nonni faceva continuamente domande, voleva avere risposte ai tanti “perché?”. E  le otteneva. Stava ore ed ore ad ascoltarli. Affascinata dai loro racconti. L’amara situazione in cui si viveva nei paesi calabresi. La povertà. La via obbligata della triste emigrazione. Dal profondo Sud alle regioni ricche del Nord,nelle nazioni europee dove c’era bisogna di manodopera. E più lontano ancora, negli Stati Uniti, in Venezuela, in Argentina. Avventurosi viaggi con la nave. Duravano venti giorni quelli per Buenos Aires.

    Sacrifici enormi alla ricerca della terra promessa. Vicende umane toccanti: “Mio nonno cercava una moglie italiana. E così ha sposato “per procura” mia nonna Emilia Romeo, che  era orfana di guerra. Aveva perso i genitori e una sorella di tre anni nella Prima Guerra Mondiale. Nata a Caulonia, un paese non lontano da Gioiosa, era stata portata in un convento a Roma, dove aveva imparato a leggere e scrivere. Nel 1937 il matrimonio con il mio bisnonno. Hanno avuto quattro figli: due maschi e due femmine. La mia bisnonna era una donna molto attiva. Istruita ed altruista. Aiutava gli immigrati analfabeti a comunicare con le famiglie in Italia. Scriveva le lettere e leggeva quelle che arrivavano dalla Calabria. Il compenso era la pasta all'uovo fatta in casa oppure la frutta. Mi raccontava la tristezza che la prendeva quando doveva leggere le cattive notizie.Familiari disperati. Lacrime di dolore per i gravi lutti e per la lontananza che impediva di dare l’estremo saluto ai loro cari”.

    Suo nonno è  ritornato qualche volta a Gioiosa?
    “Aveva tanta nostalgia. Diceva sempre che voleva tornare. Mandava i soldi ai parenti che avevano bisogno di aiuto. Era un generoso. Tornò nel 1951. Giunse a destinazione con molti giorni di ritardo. Più di venti giorni di navigazione. Il dolore per la morte della madre, avvenuta  tre giorni dopo che lui era partito dall'Argentina. La grande accoglienza dei nipoti. Mio padre mi racconta che l’accompagnarono a visitare tutti i parenti e che  riportò dalla Calabria due bauli pieni di doni. Li divise  con tutta la famiglia. Sono  così  generosi i calabresi!”

    *già Caporedattore del TGR Rai

  • L'altra Italia

    “Dammi del tu, io sono il compagno Sandro”

     “Dammi del tu, io sono il compagno Sandro”.  Mario Oppedisano, un  ragazzo genovese figlio di emigranti calabresi, forti radici socialiste, con un ossequioso “Signor  Presidente … “ si era rivolto a Pertini al termine di un comizio nel maggio del 1976. Pertini, come era nelle sue abitudini, aveva  mostrato ancora una volta la sua grande familiarità con il mondo giovanile.

     Oppedisano ancora  oggi racconta con immensa emozione quell’incontro che ha profondamente segnato le sue scelte future. “Ricordo che sono andato a sentire Pertini perché mio nonno Felice mi parlava sempre di lui, in tutte le estati che andavo in Calabria, a Gioiosa Jonica. Quando vidi sui muri di Genova i manifesti del PSI col nome di Pertini, medaglia d'oro della Resistenza, che teneva un comizio vicino a casa mia, corsi volentieri a sentirlo. Parlò circa un'ora con una arte oratoria invidiabile, a braccio, fra i continui applausi di una piazza gremita fino all'inverosimile. Da poco era scaduto il suo mandato come Presidente della Camera. Alla fine del comizio mi avvicinai dicendogli: Piacere signor Presidente. Mi rispose con veemenza: "Ma quale presidente e presidente, belinun, dammi del tu, io sono il compagno Sandro!".

    Iniziava così il luogo cammino politico e culturale di Oppedisano. E’ stato uno dei leader della vecchia Federazione giovanile del Psi. Presidente del Centro Culturale Sandro Pertini di Genova, è da sempre considerato il “custode della memoria pertiniana”. E a 25 anni dalla morte, avvenuta il 24 febbraio 1990, la memoria del grande presidente degli italiani è sempre viva e le sue lezioni  sono di una straordinaria attualità.

     “Lo abbiamo conosciuto da giovanissimi, gli abbiamo voluto bene, lo abbiamo ammirato e seguito per la sua concezione semplice, popolare della politica, la sua passionalità, il suo essere schietto, irascibile, a volte burbero, ma anche dolce, la sua etica, il suo grande esempio di onestà. Il suo cuore di socialista romantico continuerà a battere nel cuore di chi, come noi, crede nella giustizia e nella libertà, ideali fondamentali del pensiero di Pertini ”.

    Mario Oppedisano è cresciuto con i grandi ideali socialisti del nonno Felice Armocida, estimatore  di Pertini,Turati, Rosselli e Nenni.

    Nel 2002 ha pubblicato l’apprezzatissimo libro “Il mio Presidente”. Raccoglie le iniziative dei giovani amici genovesi di Pertini, a partire dalla metà degli anni Settanta. Prefazione dello storico Giuseppe Tamburrano  e testimonianze di Franco Manzitti (come Pertini direttore de «Il Lavoro»), di don Andrea Gallo e di Francesco Guccini. Nella foto di copertina c’è l’immagine di un giovanissimo Mario Oppedisano accanto al vecchio presidente. E’ molto significativa.

    Segna l’inizio di un rapporto intenso che non si è mai interrotto. “La foto, che poi è diventata la copertina del libro “Il mio presidente, è stata scattata a Genova Sestri Ponente in piazza Baracca nel maggio 1976”.  Sorpreso per essere stato accolto con immenso calore umano, fuori da ogni formalismo,  da uno dei padri della Patria. Confessa: “Rimasi inebetito. Lui se ne accorse e prendendomi sotto braccio mi portò a passeggio per via Sestri e poi nella gloriosa sezione socialista, raccontandomi di Antonio Gramsci, compagno di carcere, suo grande amico, e della lotta partigiana che ha ridato la libertà all'Italia”.

    Cosa l’ha colpita maggiormente di quell’incontro?
    “Ero accanto ad un pezzo di storia dell'Italia, un uomo che aveva donato la sua vita per la nostra libertà, conquistata a caro prezzo. Mi disse "Voi giovani, difendete la libertà costi quello che costi". E detto da lui, la pelle d'oca non se ne andava. Mi rimasero impresse le sue parole, anche perché me le ha scandite con profonda chiarezza”.

    Poi ha avuto tante altre occasioni per parlare con il Presidente?
    “Sì,Pertini veniva spesso a Genova, molte volte ce lo siamo trovato nei direttivi dell'allora FGS, in quanto andava al piano soprastante della federazione PSI alla quale era affettivamente legato. Si fermava volentieri con noi giovani e ci spronava sempre a difendere la giustizia sociale e la libertà conquistate a caro prezzo. Ce lo ricordava sempre per non farcelo mai dimenticare. Poi fu eletto Presidente della Repubblica quando era ormai relegato in un angolo del suo partito al quale era profondamente legato. L'8 luglio del 1978, dopo i suoi 832 voti a parlamento riunito, non nascondo che scoppiai a piangere dalla felicità, il compagno partigiano era Capo dello Stato. Gli scrissi, mi rispose e ci ricevette al Quirinale. Non vi dico con quale emozione. Non stavamo più nella pelle, noi giovani socialisti eravamo studenti, disoccupati senza soldi, e ci aiutarono nelle sezioni per pagarci il treno e  la permanenza in una bettola romana.

    Poi il primo incontro al Quirinale. Senza giacca e cravatta. I funzionari del Quirinale ci criticarono ma arrivò lui e ci ricevette in una splendida sala. Ci raccontò per 30 minuti del suo amico Filippo Turati. Lo abbracciammo, come fosse il nonno sapiente di  tutti noi. Ragazze e ragazzi avevamo un amico Presidente della Repubblica. Ci sentivamo, gli scrivevamo, ci rispondeva e ci ha invitati altre due volte al Quirinale, ricordandoci della scomparsa del suo amico Ignazio Silone. Poi gli abbracci, quelli non li dimenticherò mai, li ho ancora nella pelle, la sua voce è ancora marcata nel mio udito, era un grande Socialista dal cuore nobile. L'ultimo incontro al Quirinale indimenticabile: "Voi giovani non venite meno all'impegno per la giustizia e la libertà, non scendete a compromessi, difendete la vostra dignità, costi quello che costi!". Poi, un lungo caro abbraccio, l'ultimo. Vorrei che quell'abbraccio continuasse…”.

    Quale eredità ci ha lasciato?
    “Innanzitutto quella di cercare di interpretare i suoi valori di giustizia e di libertà. Non posso dimenticare quando ci spronava a dedicarci alla classe lavoratrice. "Senza i lavoratori" diceva, "non si va da nessuna parte”. E' stato un padre nobile dell'Italia e del suo glorioso partito Socialista, e ci ha sempre esortati con veemenza a difendere la libertà.

    Ripeteva queste cose, come le ripeto io: "Voi giovani dovete difendere la libertà, noi abbiamo dedicato tutta la nostra vita a questo valore che voi non potete dimenticare". Aggiungendo: "E se per beneficio della sorte dovessi poter tornare indietro, ricomincerei la mia battaglia antifascista nella mia Savona".  Nulla di quello che ha vissuto andava buttato, era felice di aver dedicato la sua gioventù alla conquista della libertà. Ripeteva, ripeteva sempre, convinto di avere intrapreso la strada giusta e cercando di coinvolgere sempre i suoi adorati giovani!!”

    Qual è il vuoto che resta della sua azione politica e istituzionale?
    “Questa classe politica non è all'altezza di Pertini e di tutte le donne e gli uomini che hanno dedicato la propria vita per farci stare meglio. Hanno pensato, si sono dedicati ai valori, a costruire una grande Carta Costituzionale, altro che... Difatti lui ci manca, non abbiamo più punti di riferimento da anni, e alla sua morte molti di noi si sono rinchiusi nel loro privato. Dolcemente mi ricordava spesso don Gallo, genovese, prete di strada che raccoglieva i poveri, i disperati, i diseredati, i tossici (come lui li definiva) per poterli aiutare, i gay, quelli emarginati da questa società benpensante: "Se le persone per bene si ritirano, la politica la fanno gli altri..."

    Lei è stato a stretto contatto con grandi estimatori di Pertini, come appunto don Gallo. Avete fatto diverse iniziative insieme. “Pellegrinaggi pertiniani” li chiamava don Gallo. Perché erano pellegrinaggi?

    “Quando ho scritto il mio piccolo libro dedicato a Pertini, don Gallo col quale collaboravo nella solidarietà, volle scrivere la prefazione e andammo insieme in quelli che lui definiva "Pellegrinaggi Pertiniani" a presentare il libro. Girammo la Liguria in lungo e in largo. Genova e i suoi quartieri operai, la provincia di Savona terra di Pertini, e parlava quasi sempre lui di Pertini, come fosse suo fratello...Mi diceva spesso: "Comincia tu, spiegalo bene, hai tutto il tempo che vuoi", ma dopo tre-quattro minuti, mi sentivo tirare la giacca, don Gallo voleva parlare, anzi urlare per la difesa della libertà! Di pertiniana memoria. E urlava per quasi un'ora. Gente di altra tempra..”.

    Tante e interessanti presentazioni, da un capo all’altro dell’Italia.
    “Sì, il libro con Giuseppe Tamburrano, Presidente della fondazione Nenni, l’abbiamo presentato in Calabria  (a Marina di Gioiosa Jonica e a Cosenza), in un tripudio di ricordi, di commozione, di gioia per la terra che mi ha dato le origini e di cui vado fiero,  e di dolore per qualche compagno che di recente ci aveva lasciati, primo fra tutti Enzo Agostino, mio caro e indimenticabile amico. Poi con mia madre a Roma in una sezione storica socialista con l'inseparabile Giuseppe Tamburrano che ricordava quando Pertini gli telefonava alle 6 di mattina per commentare alcuni scritti sui quotidiani che lui non condivideva, invitandolo a continuare la discussione al Quirinale.”

    Anche Francesco Guccini ha sempre sostenuto le iniziative che lei ha portato avanti per onorare il pensiero pertiniano. 
    “Guccini veniva a Genova gratis. E per noi genovesi è importante… Incontri con i giovani e  concerti indimenticabili. Come non dimentico la presentazione di un suo libro insieme a don Gallo, dove il caro don ha iniziato a parlare a lungo... Interrotto dal giornalista che moderava il dibattito, irritato ha ricominciato daccapo, fra le ilarità di Guccini e i nostri applausi. Tante cose che non si possono spiegare in poche righe, ma che rimangono impresse nei nostri cuori di socialisti romantici. Pochi ma buoni...”.

    *già Caporedattore del TGR Rai
     

  • L'altra Italia

    Molochio, come è lunga la vita!

    REGGIO CALABRIA - Molochio, il paese in provincia di Reggio Calabria dove è lunga la vita, è diventato famoso nel mondo. Un ultracentenario, un giovane docente universitario originario dello stesso villaggio aspro montano (oggi affermato ricercatore negli Usa) e l’Università della Calabria sono i protagonisti d’uno dei più importanti studi mondiali sulla longevità. Televisioni, radio e giornali europei ed americani hanno parlato in questi giorni del nonnino della Calabria, Salvatore Caruso, che  a novembre compirà 109 anni. Rappresenta uno dei casi più rari di “lunga vita in buona salute”, che la comunità scientifica internazionale da tempo sta studiando. L’attenzione viene posta sull’importanza della dieta povera di proteine. La ricerca è coordinata dal prof. Valter Longo dell’University of Southern California di Los Angeles, che lavora in collaborazione con il gruppo di genetica dell’invecchiamento e della longevità dell’Università della Calabria diretto dal prof. Giuseppe Passarino.

     

    ”Siamo tutti molto orgogliosi di nonno Salvatore”, afferma il prof. Longo, che “per una sorprendente coincidenza - ci dice Grazia Franco, nuora dell’ultracentenario - è tornato proprio a Molochio, il paese dal quale sono emigrati a Genova i suoi genitori e vivono i suoi zii e i suoi cugini, per approfondire gli studi avviati negli Stati Uniti”. Il prof. Longo è un altro dei brillanti cervelli italiani molto apprezzati all’estero. Con grande soddisfazione sottolinea: ”La ricerca è stata divulgata dal prestigioso Los Angeles Times, dalle principali televisioni americane FOX e ABC, dal Guardian in Inghilterra e dal Washington Post. In America c’è tanta attenzione per questi studi, a tutti i livelli.  Anche Obama ha certamente saputo  di nonno Salvatore Caruso e del primato di longevità degli abitanti di Molochio”.
      
    Il prof. Longo è un italiano di successo negli Stati Uniti. Meritocrazia riconosciuta. ”Sono nato a Genova - dice - e ho finito le scuole secondarie a Chicago dove a 16 anni mi sono trasferito attratto dalla musica jazz. Mi sono laureato in biochimica all’Universita del Texas, e ho ottenuto il PhD da UCLA (Los Angeles) dove ho frequentato un master in Patologia. Ho poi fatto un post-dottorato in neurobiology alla University of Southern California, dove adesso sono professore di gerontologia e scienze biologiche e Direttore dell'Istituto di Longevità, uno dei principali centri di ricerca sull’ invecchiamento al mondo”.  
      
    Nello studio pubblicato di recente, c’è il suggerimento esplicito di “abbassare l'assunzione giornaliera di tutte le proteine, ma soprattutto le proteine di origine animale”. Il prof. Longo ha citato i longevi del paese dei genitori: ”Molti abitanti  hanno mantenuto l’abitudine a consumare pasti con un basso contenuto di proteine, privilegiando una dieta a base vegetale”. L’attenzione maggiore ora viene posta su Salvatore Caruso. La nuora di Caruso, l’insegnante Grazia Franco, ci dice che il prof. Longo “ogni anno viene a trovarlo“. Parlano a lungo e l’arzillo vecchietto dimostra grande vitalità. ”Io suono la chitarra e lui canta le canzoni di un tempo. E’ la foto che conservo con maggiore affetto”, ricorda lo studioso che ha suggerito ai familiari del nonnino di “arricchire la dieta con proteine, poiché essendo anziano ne ha maggiormente  bisogno”. La nuora: “Il prof. Longo l'ha visto più dimagrito a causa anche di una infezione al ginocchio. Ma mi ha detto che vivrà ancora”.    
    Professore, allora ha  scoperto  il segreto che allunga la vita agli abitanti di Molochio?
     
    Forse nonno Salvatore il segreto di lunga vita lo sapeva già prima di noi. Ho fatto il giro del mondo per trovare i segreti dell'invecchiamento per poi scoprire che il “mistero” era nel paesino dove passavo le mie estati da bambino. Forse sto esagerando, ma è sorprendente come la dieta dei nonni calabresi si allinea agli studi molecolari, genetici e di nutrizione che facciamo da 20 anni.
     
    Pensa di ritornare ancora in Calabria e approfondire la ricerca?
     
    Certamente. C’è un preciso impegno anche da parte delle università italiane. Vengo ogni anno e da qualche tempo sto collaborando con Giuseppe Passarino dell’Università della Calabria e Mario Mirisola dell’Universita di Palermo, proprio per questo scopo.
     
    In base ai risultati finora acquisiti quali consigli si sente di dare per poter vivere meglio?
     
    Adottare la dieta che Salvatore e i molochiesi o molochiari (come si dice lì) hanno seguito per la maggior parte della vita:  basso apporto di proteine e la dieta a base di fagiolini verdi, olive e pane integrale. Quando poi vanno a vivere con i figli, perché  diventati troppo vecchi per poter stare da soli, debbono essere aumentate le proteine principalmente da fonti vegetali.
     
    Al Washington Post il ricercatore ha detto: ”Fa bene mangiare seguendo gli insegnamenti

    dei nostri nonni”. National Geographic, un po’ di tempo fa, aveva pubblicato la “ricetta” dell’ultracentenario: "No Bacco, no tabacco, no Venere". E aveva aggiunto di  “ essere cresciuto più che altro mangiando fichi e fagioli e di non aver quasi mai mangiato carne rossa”. L’autorevole rivista scientifica sottolineava: ”Salvatore Caruso cammina senza aiuto, non porta occhiali, recita Dante ad alta voce e canta con i nipotini. I suoi ricordi più lontani sono legati agli ulivi che crescono sui terreni della sua famiglia, a Molochio (Calabria). Oggi le olive si raccolgono con l'aiuto di reti, non più a mano come una volta; ma Salvatore non ha mai mancato, in tutto il corso della sua vita, di partecipare alla raccolta e alla produzione dell'olio”. Lucidissimo. All'ora di pranzo eccolo con  forchetta  e coltello che affetta un pomodoro nel piatto che tiene saldamente sulle ginocchia. Prepara l’insalata. Che poi mangia di gusto. Gli ottimi prodotti della terra. Scrive libri, guarda la tv senza occhiali, legge i giornali. Ci mostra la bella foto tra gli ulivi pubblicata da National Geographic. Osserva il presente e pensa al futuro. E' molto preoccupato per la crisi occupazionale che colpisce soprattutto i giovani. Suggerisce soluzioni immediate per la salvaguardia dell’ambiente e della salute: ”Basta con le industrie, perché generano veleni e provocano malattie mortali. Si ritorni al passato, riscoprendo l’agricoltura e le vecchie botteghe artigiane. La scuola è importante: più cultura e maggiore formazione“. La saggezza del nonnino che si avvia verso i 109 anni è “un patrimonio straordinario”, affermano con orgoglio i nipoti Salvatore e Giovanni. ”Rottamare” è un termine che non si addice proprio all’ultracentenario. Il primo ad esserne convinto è il figlio Ottavio:n”Mio padre ha una inimmaginabile lucidità e forza di volontà”.
     
    Ma ritorniamo al prof. Longo. Il  mondo scientifico come giudica i risultati dei suoi studi?
     
    Il mondo scientifico bene, quelli che amano o vendono carne e formaggi meno bene, anche se non stiamo dicendo che bisogna eliminarli. Come ho detto a molti giornalisti, non stiamo cercando di proibire carne e formaggi, stiamo cercando di aiutare la gente a vivere più a lungo e più sani, come Caruso, e questo richiede un ritorno alla dieta di Caruso e in più dei digiuni brevi, periodici, come quelli che la chiesa ha richiesto per oltre mille anni.
     
    Cosa risponde a chi pone  interrogativi sul lavoro che state portando avanti?
     
    Bisogna usare innanzitutto un approccio multi-disciplinare che include studi di base, epidemiologici, clinici dei centenari. Occorre leggere tutti gli studi e non solo l'ultimo, il nostro, prima di porre interrogativi. Gli italiani stanno raggiungendo gli americani per quello che si riferisce ai casi di cancro, malattie cardiovascolari e diabete. E questo perché mangiano sempre più proteine (carne, formaggi,ecc.). E si vive di meno.
            
    Molochio rappresenta ancora una felice eccezione?
     
    Sì. Ha fatto registrare la percentuale di centenari tra le più alte al mondo. Ricordo  quando otto anni fa mio zio Salvatore Morabito, mi disse: ”U ragioniere  (così in paese tutti chiamano Salvatore Caruso), ha compiuto 100 anni”. La cosa mi fece piacere, perché lo conoscevo molto bene e da bambino giocavo vicino a casa sua. L’anno dopo mio zio mi annunciò: ”I centenari sono 2 ”. Ritorno l’estate successiva e sempre mio zio: ”Valter, i centenari sono saliti 3”. Passa un altro anno: ”I centenari sono 4 “. Una situazione veramente rara”.
     
    Da non crederci. Ma soprattutto da studiare. Lei, esperto della materia, non si è fatto scappare l’occasione per capire il fenomeno.
     
    Certo, capire. Anche se ai più appariva incredibile una cosa del genere. Le racconto questo episodio. Ero in Ecuador con i giornalisti di National Geographic e della televisione franco-tedesca ARTE, che stavano seguendo la nostra ricerca sulla longevità. A loro ho rivolto questo invito: ”Volete veramente visitare uno dei posti dove c’è il più alto numero di centenari al mondo? Dovete andare nel  paesino dei miei genitori, a Molochio, in Calabria”. Mi guardarono  con molta diffidenza. Tre mesi dopo ricevetti una telefonata da Steve Hall di National Geographic.”Avevi ragione - mi disse  -, sono a Molochio e abbiamo appena intervistato 4 centenari”. Qualche mese più tardi la stessa cosa fecero i francesi. Girarono il documentario “I segreti della longevità”,  con le immagini e la dieta di Molochio. Un filmato che ebbe molto successo. Venne trasmesso dalle televisioni di tutta Europa.
     
    Adesso state cercando altri riscontri scientifici.
     
    Con Mirisola e Passarino vogliamo capire se è effettivamente la “dieta di Molochio”  che rende gli abitanti di questo paese così longevi ed anche sani. Devo dire che siamo già a buon punto. Sappiamo da anni che i giapponesi, con bassi livelli di cancro alla prostata e alla mammella, una volta trasferiti negli USA si ammalano così come gli americani. Adesso, lo stesso succederebbe se si trasferissero in Italia. E questa per me è una cosa triste causata in parte da chi guarda solo una parte della ricerca e arriva a conclusioni costruite sulla sabbia.
     
    In effetti, come il prof. Longo ha spiegato al  Washington Post, non solo molti americani di mezza età ma un numero crescente di persone in tutto il mondo, mangiano proteine due volte e talvolta tre volte più  del necessario, in prevalenza quelle provenienti da animali, piuttosto che alimenti vegetali come noci, semi e legumi. Perciò ha affermato che “sarebbe meglio seguire la raccomandazione di consumare circa 0,8 grammi di proteine per chilogrammo di peso corporeo ogni giorno”.
     
    In Italia la ricerca non viene aiutata come sarebbe stato opportuno. E’ importante che gli studiosi vengano dotati dei mezzi idonei per far bene il loro lavoro. In America è così, vero prof. Longo?
     
    Si qui è cosi. Ma facciamo molti studi anche in Italia dove la bravura dei ricercatori spesso controbilancia la carenza di fondi e di mezzi.
     
    Pensa che in Italia avrebbe avuto le stesse opportunità di ricerca e di insegnamento universitario che ha avuto Oltre Oceano?
     
    Quasi impossibile. L'America è sempre l'America, ma l'Italia potrebbe essere l'America se gli italiani volessero e si mettessero d’accordo per farlo.
     
    Quali consigli si sente di dare ai giovani ricercatori italiani?
     
    Fate ricerca, bene e molta, durante gli anni dell’università. Andate fuori dall'Italia, dopo la laurea ,per fare ricerca nelle migliori realtà del mondo. Poi, se si creeranno le condizioni favorevoli, potrete sempre tornare in Italia. Ma intanto siete in possesso di una solida preparazione che potete ben mettere a frutto.
     
     
    *già Capo redattore del TGR centrale RAI