Marco Calliari. Senza frontiere per un cantante figlio di emigranti

Marina Melchionda (May 15, 2009)
Marco Calliari presenterà il nuovo album “Italia” (Putamayo) il 18 Maggio al Joe’s Pub. Si tratta di una collaborazione tra i maggiori cantanti e cantautori italiani, un omaggio ai classici nazionali degli anni ’50. Marco è nato e cresciuto in Canada, ma si definisce un “artista italiano”. Con noi ha parlato del suo rapporto con l’Italia e del legame profondo che lo lega alla sua terra d’origine


Un italo-canadese che suona il Jazz ma adora la lirica. In passato un metalist, oggi il suo repertorio conta solo classici italiani. Lui è Marco Calliari ed è uno degli artisti che ha collaborato alla realizzazione di “Italia”, un progetto lanciato dall’associazione Putamayo con lo scopo di far conoscere a livello internazionale la tradizione musicale italiana.

“Italia” è un omaggio ai classici italiani degli anni ’50 e nasce da una collaborazione tra importanti cantanti e cantautori nazionali. Giorgio Conte, Gianmaria Testa, Simone Lo Porto, Alessandro Pitoni, Alessandro Mannarino and Rossomalpelo, Serge Gaggiotti, Lino Straulino Bandabardò, Lu Colombo e altri ancora condividono con Marco il sogno di diffondere e promuovere la musica italiana tra le genti delle più diverse culture. Marco partirà da New York, presentando l’album al Joe’s Pub il 18 Maggio.

Nato e cresciuto in Québec,  è figlio di genitori italiani immigrati in Nord America circa 50 anni fa. A Montreal ha imparato l’italiano come prima lingua ed ha sempre partecipato attivamente alla vita della comunità italiana locale.

Nonostante i suoi genitori gli avessero trasmesso un profondo amore per l’Opera, che ascoltava già da quando era molto piccolo, a 14 anni lancia la sua carriera artistica fondando un gruppo heavy metal che lo accompagnerà nei suoi primi viaggi europei. Nel 2004, la svolta: Marco pubblica il suo primo disco italiano, “Che la vita”, un successo che vende più di 25.000 copie, seguito due anni dopo da “Mia dolce vita” (2006). Nell’album, una cover de “L’Americano” riscuote un enorme successo di pubblico e lo rende famoso soprattutto nei Paesi francofoni. 

La sua carriera è costellata di premi e riconoscimenti, tra cui il Prix Étoiles Galaxie (CBC) ricevuto all’Emerging Music Festival a Rouyn-Noranda nel 2004 e la nomina per miglior album dell’anno (sezione world music) nel 2005 e 2007 al Galà de l’ADISQ. (Association québécoise de l'industrie du disque, du spectacle et de la vidéo)



 Abbiamo parlato con lui.... della sua storia, della sua musica, del suo rapporto con l’Italia.

Sei figlio di immigranti italiani in Canada. Ci racconti qualcosa di più sulla storia della tua famiglia?

I miei genitori nacquero entrambi in Italia, mia madre a Milano e mio padre nella Val di Non, vicino Trento. Arrivarono entrambi nel 1961 ma non si conoscevano, si sono incontrati qui. Mia madre decise di emigrare perché il marito di sua sorella, che abitava qui, le aveva

segnalato l’apertura di un posto di lavoro alla Pirelli. Mio padre invece fu praticamente costretto a partire dall’Italia: in Trentino a quel tempo era molto difficile trovare un lavoro in campagna. Subito dopo di lui, poi, arrivarono anche i suoi quattro fratelli. Lasciarono indietro sono una sorella che, poiché malata, non aveva ottenuto il visto e andò a vivere in un convento a Torino.

I miei genitori mi hanno cresciuto come un vero bambino italiano, insegnandomi la lingua del mio Paese di origine anche prima di portarmi a visitarlo, quando ero molto piccolo.

Credi che le tue origini italiane ti abbiano aiutato carriera da musicista?

Sicuramente. Prima di tutto, non avrei mai avuto una conoscenza così vasta della musica Italiana se non fossi cresciuto in una casa come la mia, dove ho sempre avuto la possibilità di ascoltare Pavarotti e la radio italiana. Poi sono cresciuto sempre a contatto con associazioni italiane, da cui ho imparato la cultura e le tradizioni della mia gente. Anche quando ho fondato il mio gruppo heavy metal a 14 anni sentivo delle influenze italiane in quello che scrivevo, componevo, nelle mie performance.



 

Quando hai deciso di abbracciare il jazz italiano e abbandonare il tuo passato da “metallaro”?

Non fu una decisione spontanea, ma piuttosto il risultato di un lungo processo, di un susseguirsi di eventi in un periodo della mia vita. Quando avevo 20 anni andai in Italia per un mese e mezzo a visitare la parte della mia famiglia rimasta lì. Un giorno andai a mare con un mio cugino di Torino, che mi chiese una volta in spiagga di suonare “qualcosa di mio”. A quel tempo non avevo mai cantato nulla di italiano, piuttosto mi piacevano i Beatles, o alcuni cantanti francesi.

Conoscevo anche l’Opera, sì, ma non l’avevo mai suonata. Così ero li, davanti a tante persone che ormai si aspettavano di ascoltare della buona musica, ed iniziai con il mio repertorio. Ad un certo punto uno tra i tanti lì intorno gridò: “Ma tu sei italiano, perché non suoni un po’ di musica italiana!”. Questa richiesta mi colpì: quando tornai a Montral, comprai un libro di accordi di classici italiani, tra cui Bella Ciao, Torna a Surriento e O sole mio e cominciai a studiarli. Fu così che nel 2004 scrissi il mio primo album italiano “Che la vita”. Sono riuscito a vendere 25.000 copie di quello, ma il secondo album, “Mia dolce vita”, andò anche meglio. Volevo riproporre i classici italiani nel mio stile, e l’ho fatto…

Ma quale è il tuo stile?

È una sorta di mix di ritmi diversi. Quando si cresce in Quebéc, si ha a che fare con francesi, inglesi, spagnoli, italiani. È un ambiente talmente misto che anche la mia musica ne fu influenzata, diventando una sorta di “melting point” tra tarantella, flamenco, jazz, swing, e tanti altri suoni. Perciò definisco la mia una “world music”: è un misto di tante culture diverse in una canzone, in un album, in uno show.

Quale è il Paese in cui hai più successo?

Sicuramente nella provincia del Quebec, dove i miei al bum hanno venduto 60.000 copie dal 2004. Lo considero un successo enorme, essendo quella una comunità piccola. Credo di essere apprezzato maggiormente dai francofoni, poiché sono generalmente più aperti alla “novità”. Sono stato il primo a cantare italiano nella mia regione, e lo hanno apprezzato, poiché cantanti italiani della mia generazione o di quelle passate hanno sempre cantato molto di più in francese. Hanno saputo riconoscere il mio tentativo, e amano i miei album. 

Oggi molti italo-americani o italo-canadesi cantano in italiano in Nord America. Cosa ti differenzia da loro?

Beh, la loro è prevalentemente musica pop, che riprendono da cantanti contemporanei italiani quali Eros Ramazzotti e Laura Pausini. Questo non è il mio caso, il pop non è nelle mie corde. A me invece piace riprendere gli strumenti tradizionali della musica italiana, la fisarmonica, le percussioni, il mandolino, la chitarra classica. Non farei cover commerciali o scadenti: il mio scopo è modernizzare i classici italiani, non trasformarli fino al punto di non renderli più riconoscibili. Non capisco le persone che dicono: “Non ascolto musica antiquata”. Ma cosa è questa musica antiquata, vecchia? Penso che “vecchio” non sia un termine appropriato per la musica. Non importa quando un pezzo è stato composto, l’unica cosa che conta sono le emozioni che riesce ancora a darti.

Sei molto famoso nei Paesi francofoni ma suoni in Italia. Ci sono tanti cantanti italiani che ad oggi sono quasi “obbligati” ad andare all’estero per poi diventare famosi nel loro Paese. Tra i cantanti che hanno collaborato alla produzione di “Italia” ce ne sono sicuramente degli esempi. Vedi Gianmaria Testa, che in Francia è riconosciuto da diverso tempo mentre solo o ggi riesce a riscuotere un discreto successo in Italia. Perché secondo te è cosi difficile per le giovani promesse italiane farsi spazio e guadagnare visibilità nel loro Paese?

Quello che so della cultura italiana è che le persone tendono sempre a seguire in massa “la moda”, senza guardare troppo alla “nuova proposta”, ai giovani talenti. È incredibile vedere quanto siano potenti lì i media, e soprattutto la TV di Stato, la RAI. Il Festival di Sanremo ed altri eventi simili, ad esempio, sono seguiti dalla grande maggioranza della popolazione. “Impongono”, si potrebbe dire, un determinato genere, una canzone, affermando che è la migliore in circolazione. Ma non è affatto vero, le persone dovrebbero capire che Sanremo è solo una gara, e che in giro c’è tanto altro di più, forse di meglio. Gianmaria Testa, Giorgio Conte, Bandabardò, Carmen Consoli, Vinicio Capossela ed altre dozzine e dozzine di miei colleghi forse non saranno mai apprezzati abbastanza. Questo solo perché non vanno spesso in TV o non suonano la radio. Non dico certo che l’Italia sia un caso unico, ma non riesco a pensare a nessun altro Paese dove i media abbiano un potere così grande sull’opinione pubblica. Ed è molto triste perché l’Italia è stata la terra natale di molti bravi artisti poco conosciuti per questo motivo. Quindi l’unica alternativa per loro è andare all’estero, per lo più in Francia, dove sono considerati “diversi” e apprezzati per questo. Lì riescono ad ottenere una certa visibilità nazionale ed internazionale di cui potranno godere in Italia, se vorranno tornarci. 

Ti è successa la stessa cosa?

No, il mio è un caso diverso. Non sono propriamente un cantante italiano, sono “figlio di emigranti”, un italiano di seconda generazione. Posso quindi comunicare alle persone cose nuove, diverse e presentargli una nuova cultura, nuovi ritmi, quelli degli Italiani all’estero. Posso regalargli emozioni diverse, non voglio dire più forti, ma diverse.

Che messaggio vuoi comunicare ai tuoi fan?

Una delle cose in cui credo di più è che non è necessar io parlare la stessa lingua per counicare e stare bene insieme. Il mio pubblico francofono non conosce l’italiano e non capisce una parola di quello che sto dicendo. Sentono il ritmo, solo questo, e gli piace. Il mio obiettivo è dimostrare al mio pubblico che chiunque può sentirsi italiano. L’”italianità” è un sentimento universale. 

È proprio la filosofia su cui si basa “Italia”, il progetto a cui hai preso parte…

Fare parte di quel progetto mi rende molto orgoglioso. Mi sento parte di un gruppo, di una missione tutta italiana di diffondere la nostra tradizione musicale nel mondo. In questo senso, sì, mi sento davvero un cantante italiano, nonostante non sia nato lì e le mie esperienze di vita che non mi hanno sempre portato vicino alle mie origini. Il mio obiettivo è far conoscere la bellezza della musica italiana ai miei amici canadesi. Per questo invito tanti miei colleghi italiani a suonare da noi. Finora Bandabardò eVinicio Capossela sono venuti una volta, Carmen Consoli due. Li stimo, sono l’essenza della musica italiana contemporanea.

 

 

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