Musica e parole. Prosa e poesia. Due giorni a New York con Gianmaria Testa

Marina Melchionda (April 09, 2010)
Un concerto al Joe's Pub di Noho per presentare il suo ultimo album davanti ad un pubblico internazionale; un bicchiere di vino e una lunga chiacchierata a Soho. Nei nostri momenti trascorsi a New York con Gianmaria Testa ascoltiamo e parliamo di amore, di radici e di viaggi, d'Europa, e d'America... Fino a tornare in Italia, ai suoi problemi politici, culturali, sociali, alle trasformazioni e alle nuove questioni da affrontare. Prima tra tutte, l'immigrazione

Dentro la tasca di un qualunque mattino, dentro la tasca ti porterei, e con la mano che non veda nessuno, con questa mano ti accarezzerei...

Con queste parole, su queste note, Gianmaria Testa inizia il suo concerto al Joe's Pub, nella prima, fresca, notte dell'Aprile newyorkese.

L'atmosfera è intima, le luci basse e soffuse, un pubblico misto di francesi, americani, ed italiani circondano il piccolo palco di un club che ha fatto storia a Noho. Un palco dove c'è solo lui, al centro, con la sua chitarra. Da Solo, come il titolo dell'album che è venuto a presentare qui in città e registrato all'Auditorium Parco delle Musica di Roma nel maggio 2008.

Ci infiliamo anche noi nella sua tasca, e lo accompagnamo in un percorso che dura quasi due ore, in una passeggiata tra le tappe più importanti della sua lunga carriera di cantautore.

Da Gli amanti di Roma a Lucciola d'Agosto, da Comete a Un aeroplano a vela, si susseguono luci di luna, scintille di stelle, il tempo che va e che viene; rumori di passi sulla strada, panorami e paesaggi carichi di ricordi e sospiri; la meraviglia delle stagioni che passano, dei nuovi incontri, delle scoperte fatte di passaggio. E' un crescendo di esperienze, e di emozioni, di osservazioni, di introspezioni.

Via da quest'avventura, forse non per caso, chiude la prima parte del concerto. Sale sul palco Luca Fadda, trombettista sardo residente a New York e grande amico di Gianmaria. Due duetti, Extra-muros e Nient’altro che fiori, un regalo inaspettato accolto da un caldo silenzio.

Ci aspetta ancora un'ora di musica, la seconda parte del concerto, dedicata al tema portante della serata: il viaggio, le migrazioni. Cambia l'attenzione con cui il nostro cantautore si sofferma a spiegarci le storie, il significato dietro i pezzi che canta. Gianmaria sa che è davanti a un pubblico di immigrati, sa che noi possiamo capire, o almeno provare a farlo, le esperienze difficili e sofferte di chi ha cercato il suo sogno americano in Italia, e spesso non l'ha trovato

"C'è un'isola nel Mediterraneo che è la nuova Ellis Island. Si chiama Lampedusa": con queste parole  introduce Seminatori di grano, Al mercato di Porta Palazzo, Polvere di gesso, Il Passo e l'incanto, testi tratti da Da questa parte del mare, un disco monografico sul tema dell'emigrazione uscito nel 2006, che gli è valso non solo un riconoscimento importante quale il Premio Tenco, ma anche i plausi della critica internazionale. I pezzi ci guidano in un mondo diverso dal nostro, dove il sacrificio e la stanchezza per il duro lavoro e per le continue sfide quotidiane da affrontare si accompagnano ad un orgoglio che non cede mai al disprezzo, alla determinazione, alla speranza.

La stessa che infine racconta in Miniera, una canzone del 1927 che scopriamo ancora di straordinaria attualita'r che in ogni bettola messicana
 
Vien di lontano un canto così accorato,
è il minatore bruno laggiù emigrato
la sua canzone è il canto di un esiliato.

Un sentito omaggio a De Andrè con Hotel Supramonte precede l'ultima canzone che ci suona Gianmaria Come al cielo gli aeroplani, l'unico inedito dell'album Da Solo.

Le luci si spengono, via i microfoni, gli altoparlanti, gli strumenti.

Salutiamo Gianmaria, con calma, senza fretta di andare via.

Una boccata d'aria fuori al Joe's ci riporta al giorno prima, quando ci siamo incontrati per una lunga chiacchierata ed un bicchiere di vino da Epistrophy, il piccolo ristorante sardo di Luca Fadda situato nel cuore di Soho...

Iniziamo dalla fine, dall'America. Che cosa e' per te questo Paese?

 Ci sono due Americhe per me. La prima è quella di un' espressione tipicamente piemontese: quando qualcuno ha una repentina fortuna, gli si chiede se ha trovato l'America. Oppure gli si dice “ti è andata bene, hai trovato l'America”… Perchè America è sinonimo d'emigrazione, di andare in cerca di fortuna...

L'altra, intesa come Stati Uniti, è quella che ho visto quando sono venuto qui per la prima volta nel 2005. Feci una tourné che toccò Chicago, Cleveland e Los Angeles. Ero fortemente prevenuto per tutto quello che rappresentava per me l'America: l’imperialismo, il capitalismo.... Poi quando sono venuto qui a  New York mi sono dovuto ricredere. Ne ho apprezzato la bellezza, non mi sarei mai immaginato, aldilà delle immagini cinematografiche che conoscevo, che una serie di parallepipedi messi insieme sembra quasi a caso a Manhattan, potessero colpirmi così. E' la quarta volta che ci torno e sempre con lo stesso stupore.

Cosa ti ha spinto a lanciare il tuo ultimo album qui?

 La curiosità. Una buona parte della mia formazione musicale deriva dalla cultura musicale americana. Da Leonard Cohen a Bob Dylan: avevo difficoltà a capire i testi ma la carica emotiva della loro musica  mi spingeva a soffermarmici e a comprendere i contenuti. Già dalla musica si percepiva che quelle canzoni avevano uno spessore.

Nonostante questa grande passione per la musica americana, però, le tue canzoni trovano il primo pubblico in Francia…

Si, i primi 3 dischi li ho fatti lì pur cantando in italiano. Ma è stato casuale: nel ‘94 la canzone in Francia era “cultura” mentre in Italia viaggiava su iniziativa di privati… Cosa che ha beneficiato il mio debutto parigino. Il primo disco, Montgolfieres, è stato accolto benissimo dalla stampa e, dato che Parigi è un centro molto più internazionalizzato di Roma o Milano, questo mi ha permesso di farmi conoscere velocemente in Europa, e anche nel grande mondo francofono.

Hai scritto una canzone, Joking Lady, dedicata a Parigi e alle sue mille sfaccettature, alla sua vita frenetica, ai suoi quartieri così diversi tra loro. Ti ci senti molto legato?

Amo Parigi ma non ci vivrei. La definirei una città “appuntita”, a differenza delle altre città europee in cui ti confondi, ti mescoli alla folla, e diventi parte della città. Parigi ha una fretta e un nervosismo suo, in cui non mi ritrovo. Non so perché, quando faccio un concerto a Parigi sento sempre un senso di urgenza, forse esagerata.

Nonostante questo, ci ritorno sempre con piacere, e ho tradotto anche molti dei miei testi per il mio pubblico francese. Li ho tradotti, ma senza cantarli però. Ho sentito l’urgenza di farlo quasi per “premiare” coloro che comprano i miei dischi senza capire le mie canzoni. Spesso però mi è costato… ce ne sono alcune difficilissime da tradurre.

Perchè hai scelto di apparire poco in TV in un Paese come l’Italia dove la partecipazione a programmi televisivi è una via obbligata per il successo?

 La risposta è evidente, basta accendere la televisione. Non è una scelta difficile, anzi è facile. Non esistono o sono molto rari gli spazi di dignità nella televisione italiana. Non è una questione di militanza, ma di normale etica personale.

Non hai avuto paura di restare confinato ad un pubblico di nicchia? O lo hai fatto di proposito?

Credo di fare canzoni popolari, ma non m'importa il successo di massa. Per 25 anni ho lavorato in ferrovia per non essere mai costretto a dire di sì, e le mie canzoni nascono da questa stessa idea. Cerco di stare attento a non raggiungere mai quel punto di frizione in cui gli scopi della mia attività di cantante debbano cedere a quelli del mercato.  Sono due linguaggi, due mondi veramente lontanissimi, ma che inevitabilmente si toccano. Quando però il mercato prevale sulla creatività, questa perde la sua libertà, che è la mia linea guida quando scrivo.

Io non sono Mozart, non sono un artista, sono uno che racconta in un modo alternativo alla parola parlata. Se permettessi al mercato di vincere non riuscirei più a raccontare la mia piccola verità, bensì adotterei quella che gli altri vogliono sentire e comprare.

Ma come sei diventato cantautore? Qual'è stato il momento in cui hai deciso di lasciare le ferrovie?

Ho deciso di lasciare le ferrovie e dedicarmi completamente alla musica molto tardi. Ma canto e scrivo da sempre. Quando avevo 14 anni, poiché andavo bene a scuola,  mio padre decise di farmi un regalo. Per lui, un contadino, era un grande sacrificio. Avrei voluto chiedergli un pianoforte,  ma non avrebbe potuto permetterselo… Quindi prendemmo una chitarra per 25mila lire

Dopo tre mesi ho scritto una canzone. Non saprei dirti perchè, è venuta così, ma non avevo mai pensato alla chitarra come strumento da suonare da solo, senza un testo. Per questo io non sono un chitarrista, ma uno che si accompagna quando canta.

Tra i cantautori italiani chi ha influenzato di più la tua crescita?

 Sicuramente De Andrè… ti racconto una storia…

Erano gli inizi degli anni ’60. Vivevamo in campagna, nella povera pianura piemontese, e in casa avevamo una radio. In  casa avevamo una radio attorno alla quale ci riunivamo, tutta la famiglia, per sentire “Lascia o Raddoppia”, o gli incontri di box, di cui mio padre era un appassionato, o le classiche canzoni di Rita Pavone o di Sanremo che si passavano sempre.
 

Poi un giorno  un amico, quasi di nascosto, a casa sua,  mi ha fatto sentire Gorilla di De Andrè, una canzone tradotta da Brassens che raccontava la storia di un giudice che veniva violentato da un gorilla. In Francia era stata censurata, ed anche in Italia era considerata scandalosa. Ma era una canzone facile da suonare, solo due accordi… presi la chitarra e la imparai. Quel momento mi aprì gli occhi: mi resi conto che c'era gente che nelle canzoni ci metteva di tutto, non soltanto l'amore e il cuore,ma raccontava delle cose. Le usava con inventiva. Questo è stato l’effetto che De Andrè ha avuto su di me, mi ha aperto un mondo a me sconosciuto. Dopo di lui, Nancy di Leonard Cohen ha definitivamente influenzato  il mio approccio alla musica, e quindi il mio modo di essere cantautore.

Un cantautore, un poeta, o un artista?

Io non sono un artista, un artista è capace di guardare il mondo e di raccontarlo alla gente. Un artista è Van Gogh  che dipinge i girasoli. Quando li guardi, li ritrovi come li hai sempre immaginati. Ma è lui che dà consistenza alla tua fantasia: se non ci fosse stato lui, non li avresti mai visti così.

Oggi la parola "artista" è fortemente fraintesa...e svalutata. Ora chiunque vada in televisione, viene chiamato "artista", mentre magari fa semplicemente della  comunicazione corretta o, peggio, dice solo ciò che gli viene chiesto di dire, bufale.  Gli artisti, al contrario, in genere se ne fottono di qualunque tipo di regola e seguono un impulso che è quasi una malattia. . per questo sono quasi sempre poveri e tristi, perchè non assomigliano a nessuno, sono al di fuori del loro tempo, sono già "al di là" del presente.

Parlando di artisti, come credi stia cambiando il panorama musicale italiano, anche alla luce degli ultimi Sanremo?

 La musica è diventata lo specchio di una situazione italiana disastrosa. L'hanno confermato anche le ultime elezioni regionali. E' come se la gente avesse perso il contatto con l'idealità, e – ad esempio – si rivolge a realtà come la Lega Nord. Non so perché stia succedendo tutto questo, ma per fortuna c’è ancora chi resiste e manifesta le sue idee.

 Sanremo è uno specchio di questa decadenza, anche se non mi preoccupano particolarmente mascherate di questo genere. Sono solo il riflesso di una situazione esistente, stagnante. La musica che si conosce in Italia è quella che appare, e quindi quella che passa in televisione e in radio ed  è certamente vittima di una forza del mercato che è preponderante rispetto all'idea di creatività e di comunicazione. Se i miei pezzi non passano spesso in radio è perchè non sono radiofonici. Ma non mi preoccupo, perchè spesso la radiofonicità di un pezzo è inversamente proporzionale alla sua qualità.

Per fortuna esistono ancora cantanti e musicisti italiani che si esprimono con qualità e sincerità. Penso ad esempio a Vinicio Capossela che riesce spesso a stupirmi. Lui è uno che ha riportato dignità alla musica italiana.

La pirateria sta mettendo in ginocchio le case discografiche italiane  e non. Non c’è dubbio che il fenomeno sta danneggiando questa fetta del mercato, ma quali effetti sta avendo secondo te sulla musica in quanto tale?

 Per cominciare, voglio chiarire che non riesco ad aver niente contro la pirateria. Sono convinto che se un pezzo o un album ti piace, anche se l’hai scaricato già, poi vai a comprarlo. Anzi mi verrebbe quasi da dire che se la pirateria potesse servire a fare una scrematura, dando l’opportunità di ascoltare e scaricare  per poi comprare solo i dischi che piacciono veramente, sarebbe ottimo.
 

Mi sono fatto insultare da diversi discografici che mi hanno accusato di sputare nel piatto dove mangio ma io credo che se una cosa è possibile e accessibile, una persona la fa e fa bene . Non vedo perchè dovrei spendere venti euro per comprare un disco, quando posso scaricarmelo, soprattutto se poi scopro che non mi piace.

Il primo album che ho comprato, l'ho comprato solo perchè mi piaceva la copertina. Ma il rapporto tra il mio standard di vita che era molto basso, e il costo di quel disco, lo rendeva ancora accessibile. Ora non è più così. Non puoi pretendere che dei ragazzi di 16/ 17 anni spendano ogni volta venti euro per comprare un cd. Al massimo puoi comprarne uno al mese, ma solo se è un’opera d’arte.
 

 Vorrei toccare un ultimo argomento con te, l'immigrazione, un tema così presente nella tua musica e a cui hai dedicato un intero disco, Da questa parte del mare. Tanto per cominciare, tu viaggi con la tua musica da anni. Ti definiresti un migrante?

Non c'è nessun paragone possibile tra me e le persone di cui parlo nella mia musica. Spostarmi per me è una scelta, per i migranti a cui mi riferisco io, invece, è un obbligo.

Ho scritto un disco su questo tema per ricordare agli italiani il loro passato d'emigranti in un momento storico in cui è l'Italia ad essere diventato Paese destinario di flussi migratori.  

Dal 1870 al 1960 sono partiti 50 milioni d'italiani. Vuol dire che c'è un'Italia fuori dall'Italia e che ad oggi ci sono più persone di sangue italiano a Toronto che  a Bologna, più a San Paolo del Brasile che a Cremona. E ciò non perchè gli italiani fossero dei grandi navigatori, ma semplicemente perchè avevano fame, dovevano dar da mangiare ai loro figli, e sono andati dove riuscivano a farlo.

Noi tutti sappiamo che hanno sopportato insulti e subito soprusi un pò ovunque, e proprio per questo mi aspettavo che l'atteggiamento degli italiani nei confronti degli immigrati sarebbe stato diverso da quello che in effetti è.

Certo non sono così ingenuo da pensare che una immigrazione così massiccia non crei problemi, però credevo che queste persone sarebbero state accolte a braccia aperte, senza pregiudizi o atteggiamenti discriminatori. Immaginavo che sarebbero state trattate da persone per bene quali sono, fino a prova contraria.

La paura di molti è che i nuovi immigrati impongano agli italiani una cultura estranea alla loro. Anche io non voglio che ciò accada, ma di certo non credo nemmeno che vengano a rubarmi qualcosa. L'Italia deve capire che ha bisogno di loro, di quelli che chiama "braccianti", di questi stranieri che fanno i lavori che gli italiani non fanno più. Deve capire che se noi assecondassimo la Lega Nord e li mandassimo indietro, il Paese si fermerebbe di colpo.

Questa paura del "diverso" ha fatto vincere e crescere partiti come la Lega, ma anche politici eletti e nominati sindaci e ministri, ma che una volta erano dei picchiatori fascisti, camminavano per strada con il manganello in mano. 

Detto questo, ti faccio una domanda che forse non ha risposta. Semplicemente, come ne usciamo da tutto questo?
La situazione in cui oggi versa l'Italia è di una drammatica stupidità. Mi ha colpito molto l'intervista a Mario Monicelli passata qualche giorno fa in TV, in cui ha detto che l'Italia “secondo me, è veramente un Paese di merda e l'unica salvezza possibile sarebbe una rivoluzione". Non è che ne sia un fautore, però una rivoluzione porta sempre degli strascichi...diciamo che porta a una contingenza drammatica...

A pensarci bene nella nostra storia non c'è mai stata una rivoluzione: siamo passati direttamente da Mussolini alla liberazione, con una tal fretta di dimenticare il capitolo fascista da beatificare la resistenza come se fosse stata una rivoluzione, ma che invece fu portata avanti da pochissimi.

Il risultato è che in Italia non si sono mai fatti veramente i conti con l'assurdità del fascismo e quindi gli italiani si sono convinti di non essere un popolo xenofobo, e invece basta camminare per le strade delle nostre città per assistere ad episodi di razzismo vergognoso.

Nelle tue canzoni è anche molto presente il tema del viaggio. Ma cos'è il viaggio per te? Una fretta di partire o un desiderio d'arrivare da qualche parte?

Ricordi quella cascina dove era ambientato il film 900? Con un'aia centrale e tutto il porticato attorno... Mio padre aveva affittato una cascina così. E quell'aia, quel piccolo spazio di mondo in cui sono nato, per me racchiudeva tutto, rapresentava ogni cosa che conoscevo. Eravamo due famiglie, 20 persone, un mondo così chiuso che mi ha fatto venire una voglia pazzesca di viaggiare. 
 

Poi un giorno ero seduto al bar del Trocadero a Parigi, un colpo d'occhio immenso davanti a me, la Torre Eiffel sul fondo. In quel momento mi sono sentito parte del mondo, e mi sono reso conto che tutto quello che avevo imparato, l'avevo imparato in quel cortile di casa mia. Nel paese dove sono nato. Non è il posto più bello del mondo, ma è l'unico che riconosco, dove ogni cosa mi assomiglia, anche le cose brutte. Anche le cose che odio me le ritrovo addosso. Il rispetto, il lavoro, la fatica, la tenerezza, qualsiasi cosa, tutto era venuto da lì. Il mio girare non ha fatto altro che confermare quella cosa, e anche che l'umanità si assomiglia molto di più di quanto non si pensi, a qualunque latitudine, con delle sfumature tutto sommato molto piccole. 
 

E' stato in quel preciso momento, al Trogadero, che ho completato la canzone  Il Valzer di un Giorno

Tutto è già qui anche se non si vede

tutto è già qui nascosto tra le pieghe

e se ci stupirà sarà soltanto come

come certe novità che sapevamo già...

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