The Pool NYC, la “galleria itinerante”

Marco Piattelli Palmarini (April 03, 2012)
Immaginate una galleria. Adesso, a quella galleria togliete “la galleria”, intesa come sede fisica. Che cosa resta? Rimangono gli artisti e il gallerista, che continuano a fare il loro mestiere pur non avendo uno spazio espositivo. Impossibile? The Pool NYC è la dimostrazione che non solo è possibile ma può anche essere una formula vincente. Intervista a Luigi Franchin e Viola Romoli.

Il progetto è nato nel 2009 e fin dall’inizio The Pool NYC ha adottato l’innovativo format della “galleria itinerante”. Hanno scelto di non investire in uno spazio espositivo fisso, ma di concentrare tutte le energie sulla partecipazione ad eventi e fiere. Oggi Pool NYC è un’organizzazione molto dinamica, in grado di portare i propri artisti in giro per il mondo agli appuntamenti d’arte contemporanea più prestigiosi. La grande flessibilità della struttura è resa possibile proprio dall’assenza di una galleria da gestire; nella Grande Mela, infatti, Pool NYC ha solo la sede amministrativa. Nonostante siano una realtà ancora molto giovane, sono già apparsi su palcoscenici di primo livello quali Scope (New York), Biennale di Venezia, Art Hong Kong, Artefiera (Bologna), Volta NY, Zona Maco (Città del Messico).

Abbiamo incontrato Luigi Franchin e Viola Romoli, promotori della galleria, manager, menti strategiche e team operativo. I due giovani galleristi italiani ci raccontano la loro esperienza:

Partiamo delle origini. La formula della "galleria itinerante" nasce come una necessità o come una scelta strategica?

Viola Romoli - Probabilmente entrambe le cose. Una strategia nata da una necessità! Quando abbiamo deciso di intraprendere quest’avventura era il marzo del 2009, in piena crisi economica, i tempi non erano dei migliori per gli investimenti. Avevamo trovato uno spazio nel Lower East Side che ci sembrava adatto, ma poi ci siamo chiesti se veramente fossimo in grado di far fronte a un costo di 5000$ al mese solo per l’affitto. Da qui cominciarono le riflessioni riguardo a una soluzione diversa e abbiamo colto l’occasione per strutturare un progetto che rispecchiasse dinamiche contemporanee quali dinamismo, mobilità, immaterialità, orizzonti globali…

Perché a New York?

Luigi Franchin - Entrambi eravamo già qui, io lavoravo per la Sperone Westwater Gallery, Viola aveva appena vinto una borsa di studio al Guggenheim. E ovviamente anche perché il mercato migliore è a New York, per l’arte contemporanea è ancora il centro del mondo. Inoltre, a livello professionale, qui certe soddisfazioni si sentono di più perché tutto è più vivo che altrove, c’è più passione, sia della stampa che del pubblico. E’ l’energia inesauribile di questa città che permea in tutti settori…

Non avete nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di stabilirvi in Italia?

L.F. - Una volta proprio Sperone mi disse: “in Italia ci son tante volpi e pochi leoni”. Intendeva dire che il mercato italiano è piccolo e molto frammentato, ci sono moltissimi piccoli compratori, mancano i grandi collezionisti e le grandi gallerie (a parte De Carlo, Continua e poche altre). Mentre a New York ci sono un’infinità di collezionisti dalle incredibili possibilità economiche da un lato, e dall’altro artisti da tutto il mondo che vengono a qui per competere tra i migliori.

Proprio su quest’ultimo punto, cosa spiega secondo voi la grande concentrazione di giovani artisti?

V.R. - Non scordiamo il ruolo delle università! Tutti gli anni queste scuole d’eccellenza sfornano centinaia di giovani interessantissimi. Gli open studio delle School of Arts sono degli eventi davvero rilevanti per i tecnici del settore. Ritengo che l’arte italiana sia fenomenale, abbiamo artisti straordinari, ma negli Stati Uniti ci sono le strutture idonee a dargli la visibilità e il network di cui i giovani artisti hanno bisogno. Di conseguenza noi, gli attori del mercato, abbiamo più facilità a trovarli. In Italia invece sono abbandonati a se stessi…

Quali sono le peculiarità e le criticità economiche della formula “itinerante”?

L.F. - Quando partecipi a eventi, il costo più consistente sono i trasporti. E anche dal punto di vista operativo, la logistica a volte è l’ostacolo tecnico più duro da superare: immaginate quando si deve trasportare certe sculture o installazioni molto complesse… Per fronteggiare questo problema cerchiamo il più possibile di sfruttare opere di artisti già presenti in loco. Ad esempio, per un evento in Italia cerchiamo di presentare un pacchetto di artisti principalmente italiani. Così facendo, non solo abbassiamo i costi di trasporto, ma presentiamo anche artisti probabilmente già noti al mercato locale, e questo sicuramente aumenta sia le vendite sia l’interesse generale.

D’altro lato, sempre in termini di costi, se dovessimo sostenere le spese relative ad una galleria, intendo uno spazio per l’esposizione, non potremmo sicuramente dare così tanto in fase di realizzazione degli eventi.

Nella scelta degli artisti da portare ad un evento o una fiera, quanto dovete tenere in considerazione le caratteristiche del mercato e della cultura del paese in cui esporrete? In altri termini, ritenete il mercato dell’arte contemporanea un mercato globalizzato?

L.F. - Noi ci confrontiamo con un pubblico sempre differente e questo implica scelte curatoriali diverse. Oltre a questioni legate al mercato nazionale, ci sono in gioco anche fattori culturali che, se non tenuti in considerazione, posso determinare l’insuccesso di un’esposizione o l’annullamento delle vendite. Posso dire con convinzione che la globalizzazione non è un concetto assoluto nei mercati dell’arte. Ecco un bell’esempio: quando abbiamo portato Patrick Jacobs alla Strozzina di Firenze è piaciuto molto, ma nessuno ci ha nemmeno chiesto il prezzo dei suoi lavori. Il motivo è semplice: le sue opere devono essere installate direttamente nella parete; in Italia gli edifici hanno generalmente mura larghe e antiche, e nessuno si metterebbe a sfondarle per inserirci un’opera d’arte. Negli Stati Uniti invece è comune avere pareti di materiali più leggeri come il cartongesso, ecco perché qui Jacobs si vende molto bene. 

E per quel che riguarda il mercato? Come lo gestite?

V.R. - Questo è il vero punto di domanda: come fa il compratore a seguire i nostri movimenti? Sicuramente non avremo mai il classico rapporto del collezionista che ci viene a trovare in galleria. Noi li incontriamo in tutto il mondo i nostri clienti: Giappone, Germania, Italia, Messico, Stati Uniti, proprio perché ci siamo sempre spostati molto. Se avremo le risorse necessarie, non escludiamo di aprire uno spazio a New York tra qualche anno, così potremo finalmente sviluppare il collezionismo locale.

Circa 10 apparizioni all’anno non sono così tante per dare forza al nome di Pool NYC. Come riuscite a compensare, in termini d’immagine, il vuoto lasciato dall’assenza di una sede fisica? Il marketing può bastare?

V.R. - È vero che la pubblicità aiuta, ma ricordiamoci che abbiamo aperto da due anni e siamo ancora giovani. Nel mondo dell’arte ci vuole pazienza. Non ha senso farsi pubblicità altisonanti come se si fosse la Gagosian Gallery, quando tutti sanno che non lo sei. Ti devi costruire con calma lavorando bene con artisti di valore. Non puoi puntare solo sulla comunicazione per bruciare le tappe… può aiutare, ma meno che in altri settori.

Qual è il vostro criterio di selezione degli artisti?

L.F. - I nostri sono artisti giovani, con un mercato che va dai 1200$ ai 20000$. La nostra selezione s’impernia attorno a due caposaldi: maturità e novità. Siamo aperti a tutti i media: oggi l’arte è multimediale ed interdisciplinare, non ha senso chiudersi gli orizzonti. Abbiamo recentemente incontrato un artista austriaco di trent’anni, Martin Roth, che crea dei “prati domestici” facendo crescere l’erba su tappeti persiani. Dovrei forse precludermi la possibilità di lavorare con un soggetto così interessante e divertente? Questa non è ovviamente una scelta commerciale…non so quanti compreranno un tappeto con l’erba, ma a noi alla fine diverte anche far cultura!

Dunque vi tirate fuori dal concetto di galleria commerciale?

L.F. - La galleria deve essere commerciale, ci tengo a sottolinearlo. Noi non possiamo essere un museo. Dobbiamo sostenerci con le nostre forze quindi il commercio è fondamentale.

Che significato ha la vendita?

V.R. - La vendita da soddisfazione perché è un riscontro e perché aiuta economicamente la struttura, ma non è quella in sé la soddisfazione massima. Le vere gratificazioni sono ad esempio la vendita ai musei. Patrick Jacobs è in collezione permanente al Museum of Arts & Design di New York e questo è ovviamente motivo di orgoglio immenso.

Ad ogni modo, in questa città ci sono dei collezionisti davvero raffinati, colti ed esperti (a volte più dei galleristi), e quando vendi a loro, la vendita diventa un “indirizzo” prezioso per il nostro lavoro, non significa solo che l’artista ha mercato. Alla vendita poi corrisponde l’interesse dei curatori, è tutto collegato…

Quanto vi sta a cuore la promozione di artisti italiani?

V.R. – Non abbiamo fatto della promozione degli italiani una “mission” perché volgiamo avere un respiro internazionale e non precluderci nulla. Detto questo, abbiamo due artisti italiani che seguiamo con grande passione: una è Gaia Carboni, l’altro è un eccentrico ceramista di Imola, Andrea Salvatori, che sarà esposto a San Sepolcro e avrà una personale al Museo di Imola. Lo abbiamo conosciuto quando ancora era un garzone in uno studio, ci son piaciute le sue opere e lo abbiamo cresciuto noi. Per questo per noi gli artisti sono come dei figli!

L.F. - No, beh, direi piuttosto che sono come dei calciatori! Con la differenza che i calciatori amano il loro presidente, loro invece hanno paura di esser fregati da noi!

La distanza fisica crea problemi nella gestione della relazione con gli artisti?

L.F. - I problemi che abbiamo noi sono gli stessi delle normali gallerie. Per ora siamo soddisfatti del rapporto che abbiamo stabilito con loro: gli artisti sono entusiasti di lavorare con noi perché facciamo fiere internazionali di buon livello. Altro punto di forza nel rapporto con gli artisti è la nostra capacità di montare le mostre anche in luoghi che non sono mai stati adibiti a mostra. Ad esempio a Londra per Patrick Jacobs abbiamo trasformato un ufficio in una galleria. Apprezzano molto la nostra capacità di interpretare gli ambienti, è stimolate per loro.  

Salutiamo e ringraziamo Viola e Luigi che si rimettono al lavoro per l’organizzazione del prossimo “viaggio”. Pool NYC sarà prossimamente a Città del Messico, dal 16 aprile al 4 maggio; i lavori di Gaia Carboni, Patrick Jacobs, and Martin Roth saranno esposti in un’altra location davvero particolare: la Borsa Valori. In questa mostra, “Organic Intuitions”, sarà messo a confronto l’approccio di tre diversi artisti, con differenti tecniche e media, nel relazionarsi con la Natura e con l’ambiente.

Si ringrazia Vittorio Calabrese per la collaborazione nella realizzazione dell’intervista.

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