"Primo Levi a New York". Il punto di vista di Andrea Fiano

MARINA MELCHIONDA (September 24, 2008)
Dopo una settimana dal termine del simposio “New Voices on Primo Levi”, organizzato dal Primo Levi Center di New York, abbiamo intervistato Andrea Fiano, membro del consiglio direttivo dell’istituto

Il simposio si è chiuso con la proiezione di un documentario dal titolo “Primo Levi: un testimone scomodo”. Cosa ricorda in particolare?

Più che un momento preciso, ricordo le sensazioni che mi ha trasmesso. Il filmato raccoglieva spezzoni di interviste che, seppur registrate in diversi momenti della vita di Levi, avevano una caratteristica in comune: ne mostravano il suo lato umano. Vede, noi siamo abituati a pensare a lui come a un sopravvissuto, uno scrittore e, a volte, un chimico.  Ma dove è il Primo Levi “uomo”? Dove è la persona con i nostri stessi problemi, entusiasmi…le nostre paure ed emozioni? Era lì, in quel documentario. Era nelle sue parole, nei sorrisi. Nelle esperienze di ogni giorno che amava riportare alla famiglia, agli amici. Il documentario adombra l’icona, mette in risalto la persona. È quantomeno singolare.

Nel dibattito che è seguito – di cui lei è stato uno dei protagonisti – si è dato maggiore spazio al Primo Levi “scrittore”. Scrittore e, soprattutto, testimone dell’Olocausto. Come ha contribuito Levi, secondo la sua opinione, a preservare la memoria storica dello sterminio ebraico?

La letteratura in Levi diventa strumento essenziale per la conservazione della memoria storica. Questo momento chiave del ‘900 rischiava di essere dimenticato, per volere o - secondo alcuni - per necessità. Si pensi che nei primi quindici anni dalla fine della guerra non vi era stata alcuna pubblicazione in merito.

Levi scrive "Se questo è un uomo” di getto, poco dopo essere stato liberato. Lo ritiene un “dovere”: crede necessario rammentare alla gente l’accaduto, prima che il tempo “sbiadisca” nella sua memoria i ricordi delle esperienze vissute. In questo caso, possiamo dire, agisce da testimone sopravvissuto molto più che da scrittore. Ma nessuno accetta di pubblicare il suo libro. Infatti sembra necessario un periodo di “distacco” tra il momento storico e la produzione letteraria.

E poi?

Dagli anni ’60 in poi tutto cambia. “Se questo è un uomo” e poi “La Tregua” vengono finalmente letti dal grande pubblico. La letteratura sull’Olocausto diventa presto molto ricca: libri come “Il Diario di Anna Frank” vengono finalmente liberati dalla “censura” a cui erano stati posti e pubblicati.

Come si posiziona Levi in questo nuovo contesto?

Dagli anni ’70 in poi egli abbandona parzialmente i panni del testimone, del sopravvissuto. Si cala, invece, nelle vesti dello scrittore. È in quel periodo che pubblica “I sommersi ed i salvati”, un’opera che ritengo sarebbe stato impensabile scrivere prima.  È una vera e propria analisi del meccanismo, della filosofia, della razionalità – se così può definirsi –  che ha dato vita al “sistema” dello sterminio ebraico.  Non è un’opera descrittiva ma piuttosto una traduzione, una spoliazione degli eventi volta alla comprensione dell’accaduto.

Ultima domanda: la produzione letteraria sull’Olocausto ha un futuro?

Ritengo di si, anche se nella sua fattispecie cambierà moltissimo. Ormai la maggior parte dei sopravvissuti è deceduta e di conseguenza sarà difficile ottenere nuove testimonianze. Non possiamo sicuramente aspettarci la pubblicazione di nuove opere documentaristiche.

D’altra parte, però, la produzione accademica che lo riguarda è certamente consistente. Anche i figli e i discendenti dei sopravvissuti, poi, si dimostrano attenti a preservare la memoria storica sull’Olocausto. Tra tutti ne ricordo uno in particolare, Daniel Mendelsohn. Il suo libro, “The Lost: A Search for Six of Six Million", è una sorta di diario in cui racconta del suo giro intorno al mondo per ritrovare tracce della sua famiglia e scoprire la sorte di alcuni dei suoi parenti imprigionati nei campi.

Come per molti, l’Olocausto è certamente ancora parte della vita di questo scrittore.

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