Articles by: Doriana Vari

  • Arte e Cultura

    Stefania Zamparelli. Foto per indicare, documentare

     

    Ci parla con un tono di voce basso e pacato, sceglie con cura le parole, e, tra una sigaretta e l’altra, Stefania Zamparelli racconta  con una cadenza che non tradisce le sue origini partenopee.

    La sua indole ribelle emerge immediatamente quando racconta: “Sono nata in una famiglia di medici: mio padre era medico, i miei fratelli sono medici, e anche io sarei dovuta diventare medico se avessi assecondato i loro progetti, ma ho deluso tutti quando, al momento della scelta della facoltà, mi sono iscritta in lingue e letterature straniere. Una volta completati gli studi ho lavorato come insegnante, ma odiavo quell’impiego, così ho deciso di lasciare l’Italia e ho scelto di venire a New York per perfezionare il  mio inglese…o almeno questo era il pretesto necessario alla partenza. All’inizio è stata dura: dividevo con altri ragazzi un appartamento che stento a definire tale, in una delle zone più malfamate della città.

    Per pagare la scuola di fotografia, la School of Visual Art, e le altre spese ho svolto una serie interminabile di lavori: ho cominciato come busgirl, poi ho fatto la  cameriera in un ristorante italiano, ho venduto magliette, ho fatto le pulizie, la guardarobiera …insomma, ero disposta a fare qualunque cosa pur di restare qui e riuscire a coprire le mie spese da sola senza chiedere dei soldi a mio padre. Erano lavori che mi deprimevano, mi ricordo ancora la sensazione di nausea che provavo ogni volta che entravo nel ristorante e inevitabilmente pensavo al vai e vieni dalla cucina, a quegli odori e a quel sorriso forzato che avrei dovuto mantenere per tutta la serata. Così ho pensato di vestire nuovamente i panni della professoressa: insegnavo italiano privatamente questa volta, ma l’esperienza è stata, ancora una volta, fallimentare: le persone per cui lavoravo erano tutte benestanti, nessuno era davvero motivato a imparare, e questo mi indisponeva, quindi ho deciso che non avrei mai più fatto l’insegnante! Nel frattempo collezionavo lettere di risposta dai vari photo editor newyorkesi a cui avevo mandato il mio portfolio che mi rispondevano immancabilmente con <<Your work looks great, keep shooting!>> e che io traducevo con "Non andrai mai da nessuna parte>>. ”

    Stefania si presenta con una personalità forte. Appare subito una donna tutta d’un pezzo,  concreta, decisa, diretta, essenziale. Lei stessa si definisce “per niente socievole” e continua “mi piace stare per fatti miei, in silenzio, forse per questo amo tanto la fotografia, perché è immediata e silenziosa.”

    Già, perchè dopo i tanti e diversissimi impieghi svolti, Stefania, alla fine ha scelto di lavorare con la fotografia. “Credo di essermi appassionata alla fotografia quando ero giovanissima, appena teenager: una volta al mese mio padre riceveva per posta una rivista di medicina di cui conservo ancora diversi numeri, si chiama <<In tema di Medicina e Cultura>>.  Ne ero affascinata non solo per gli articoli che certamente erano interessanti, ma quello che mi rapiva erano le immagini: fotografie assolutamente all’avanguardia per quegli anni: erano tante, quasi su ogni foglio ce n’era stampata una ed erano abbastanza grandi da poterne studiare i dettagli. Non mi stancavo mai di guardarle, ancora adesso le trovo incredibilmente belle, ogni tanto sfoglio ancora qualche numero della rivista.”

    Ancora una sigaretta e poi, finalmente, con cura ed attenzione, Stefania prende delle grandi stampe di fotografie e, raccontando piccoli aneddoti, le sfoglia. Quasi tutte le immagini ritraggono soggetti umani, pochi paesaggi naturali o artificiali; sono tutte fotografie scattate tra l’Africa e l’Asia: Syria, Numibia, Afghanistan, Papua. “Nelle mie fotografie cerco di catturare il tempo: forse tra dieci anni non sarà più possibile fotografare le stesse cose, è il caso delle simulazioni di guerra e degli altri riti della tribù in Papua”. Poi spiega: “Mi piace viaggiare. Appena ne ho l’opportunità parto. Sto via per due, tre, quattro mesi…più che posso. Visito queste zone del mondo che sembrano davvero dimenticate da tutti, sono posti dove il turismo non arriva e per questo, almeno da questo punto di vista, immacolate.

    Di conseguenza sono zone abitate da popolazioni che vivono nel modo più semplice possibile in abitazioni spesso prive di acqua corrente e di elettricità; sono zone dove le persone conservano i valori più antichi del mondo, quelli che esistevano prima che le religioni o le convenzioni li istituzionalizzassero. E’ questo che voglio riportare quando scatto una foto, o meglio, lo voglio mostrare! Potrei raccontarlo, certo, ma odio la narrativa, la fuggo in ogni modo possibile, quindi al narrare preferisco l’indicare, il fotografare. Voglio fotografare/raccontare che il cosiddetto Terzo Mondo ha qualcosa che va al di là dello stereotipo che i paesi civilizzati offrono, per questo le persone che ritraggo in foto sorridono, giocano, pregano, lavorano, protestano. Non c’è niente di diverso tra la loro vita e la nostra: facciamo tutti le stesse cose, vogliamo tutti le stesse cose.”

    Ed è proprio per “mostrare, indicare, documentare” e, a suo modo, raccontare, che anche Stefania, insieme ad altri 1800 artisti residenti a Brooklyn, prenderà parte all’ Open Studio, una manifestazione atta a promuovere l’arte. Nei giorni 8 e 9 Settembre gli artisti apriranno le porte dei loro studi al pubblico che attraverso una votazione on line deciderà quale artista, tra i 1800, esporrà i propri lavori al Brooklyn Museum.

    Stefania è una dei 68 artisti partecipanti residenti nel quartiere di Bedford Stuyvesant. “Non ho uno studio, quindi aprirò le porte di casa mia dove allestirò una piccola esposizione dei miei lavori” conclude Stefania, “e d’altra parte quando non sono in viaggio svolgo qui tutto il mio lavoro”.

    Bolivia, Senegal, Egitto, Afghanistan. Quelli che Stefania visita sono tutti luoghi e popoli, in un modo o nell’altro, “al limite”, eppure sono questi i luoghi e i popoli che Stefania ama e fotografa forse perché, almeno un po’, le somigliano.

  • Fatti e Storie

    Lucifero brucia l'Italia

    La stagione estiva quest’anno aveva esordito con un caldissimo Scipione, a cui aveva fatto seguito Caronte, e poi Minosse, Ulisse, Nerone, Caligola; ora e’ la volta di Lucifero, il settimo anticiclone proveniente dall’Africa che attanaglia l’intera Europa da quasi due mesi. 

    Con temperature che raggiungono i 43 gradi l’Italia affronta una delle estati piu’ calde degli ultimi duecento anni e aspetta impaziente le perturbazioni piovose che i metereologi promettono per fine Agosto. 

    E mentre le zone marittime accolgono orde di turisti accaldati e impazienti di godere la fresca brezza del mare, nelle campagne e in montagna il caldo e l’afa provocano gravi danni: a causa della siccita’ i raccolti saranno dimezzati e il settore dell’agricoltura subira’ perdite per piu’ di un miliardo di euro: ad essere colpiti sono soprattutto i prodotti simbolo del Made in Italy come il pomodoro,  il mais e la soia che sono alla base dell'alimentazione degli animali allevati per produrre i prestigiosi formaggi e prosciutti a denominazione di origine, ma anche il vino con una vendemmia prevista di qualita' ma contenuta.

    Mentre le piantaggioni seccano, Lucifero brucia le foreste. I dati che Coldiretti offre sono particolaemente allarmanti visto che  dal 2011 si e’ registrato un raddoppiamento degli incendi lungo tutta la penisola: la superfice percorsa dalle diamme e’ aumentata del 104%, il numero dei roghi e’ aumentato del 79%, e dall’inizio dell’anno si sono registrati gia’ 5.375 incendi boschivi dovuti non solo al caldo e alla siccita’ ma anche alla mano criminale dei piromani, e infatti 300 persone sono state denunciate dal Corpo Forestale dello Stato.

    “Ancora a rischio” sottolinea la Coldiretti “c'e' un patrimonio di oltre 10 milioni e 400 mila ettari di superficie forestale che negli ultimi 20 anni e' aumentata di circa il 20 per cento”.

    Ininterrottamente a lavoro sono allora nemerosissime squadre dei vigile del fuoco, del Corpo forestale ma anche della protezione civile: oltre al fumo nero degli incendi si alzano al cielo centinaia di canadair e a terra sono milioni gli operai che lottano contro le fiamme, e cio’ nonostante, l’allarme e’ ancora attivo lungo tutta Italia: la regione piu’ colpita dalle fiamme e’ la Campania dove solo ieri sono scoppiati 60 incendi, seguono la Toscana, il Lazio, la Calabria.

    A Quindici, in provincia di Avellino, l’incendio si trasforma in dramma: Michele Giglione, un operaio cinquantasettenne, ha perso la vita durante le operazione di spegnimento di un incendio boschivo.

    Per i prossimi giorni non sono previsti miglioramenti: il caldo si fara’ ancora piu’ intenso,  mercoledi’ l’allerta raggiungera’ il livello tre, quello piu’ elevato, con 17 citta’ a rischio.

    Intanto la Coldiretti stila e diffonde un breve vademecum contro gli incendi in cui si invita chiunque avvisti un incendio a “non prendere iniziative autonome”, piuttosto “Informare Corpo forestale (1515) o Vigili del fuoco (115) o anche Polizia, Carabinieri, Prefettura, Comune”.

  • Fatti e Storie

    Italiani a New York: due generazioni a confronto.

    In Italia il Sogno Americano nasce intorno alla seconda metà del 1800 quando gli abitanti del Bel Paese iniziano a emigrare verso l’America, un continente affascinante per la sua ricchezza, per l’agio, per lo sviluppo. Chi partiva sperava che la propria intraprendenza per aver lasciato il paese natale, e il proprio coraggio di andare incontro a un mondo sconosciuto sarebbero stati ricompensate da più agiate condizioni di vita.

    La grande ondata migratoria quasi si esaurì durante gli anni del Fascismo (anni, comunque,

    durante i quali in Italia dilagava il Mito Americano ossia quel mito incarnato dall’America, modello di una libertà che in Italia il Fascismo impediva) per poi ricominciare dopo la Seconda Guerra Mondiale.

    Solo dopo il cosiddetto miracolo economico (ossia quella crescita economica che l’Italia vide all’interno dei suoi confini tra gli anni '50 e '70 del ventesimo secolo) l’afflusso migratorio degli italiani verso l’America cominciò a placarsi; tuttavia il concetto di quel Sogno Americano nato a metà del 1800 non è mai del tutto tramontato: intorno agli anni '60 l’Italia cantava insieme a Renato Carosone “Tu vuò fà l’americano” e nel 1971 Gigliola Cinquetti chiedeva “Mamma mia dammi 100 lire che in America voglio andar”.

    La difficile situazione economica in cui versavano molte famiglie italiane spingeva numerose persone a emigrare verso paesi come la Germania e il Brasile, ma la meta più gettonata era l’America del Nord in virtù proprio di quel Sogno Americano mai crollato. Chiacchierando in un locale o in un negozio è facile imbattersi in persone di origine italiana: si tratta per lo più di giovani figli di immigrati che con non molte difficoltà riescono a intrattenere una buona conversazione in italiano. Queste persone sono perfettamente integrate nell’ambiente in cui vivono poiché sono nati o almeno cresciuti negli Stati Uniti, ma i loro genitori hanno spesso trascorsi tristi.

    In un piccolo paesino del New Jersey vive, insieme a suo marito, una signora italiana che nel 1972, insieme alla sua famiglia, ha lasciato il suo paese. “A Monte San Giacomo (piccolo centro della provincia di Salerno)” racconta la signora “avevo un piccolo negozietto di generi alimentari che io gestivo insieme a mio marito. Avevamo tre bambini piccoli, e la nostra situazione economica non era peggiore di quella di altre famiglie, riuscivamo a non farci mancare il pane, ma volevamo qualcosa di più.”… “Qualche anno prima mia madre e due delle mie sorelle avevano lasciato Monte San Giacomo e si erano trasferite qui, negli Stati Uniti. Ci raccontavano della loro vita e ci chiedevano continuamente di raggiungerle, così, poco a poco, io ho iniziato a pensare veramente a una vita lontana dal piccolo centro della provincia di Salerno, nonostante mio marito non ne fosse del tutto convinto visto che la sua famiglia viveva in Campania; comunque, alla fine, armati di coraggio, decidemmo che saremmo partiti”… “Ricordo con precisione il momento in cui ho visto questa terra per la prima volta: l’America non era come la sognavo e non era esattamente come ce la raccontavano, ero spaventatissima, solo la vicinanza di mio marito e dei miei tre bambini mi hanno impedito di piangere: volevo tornare indietro!”… “Siamo stati accolti qui dal marito di mia sorella che ci ha portato ad Hobocken (NJ), in quello che sarebbe stato il nostro alloggio: non sono mai riuscita a definire quel posto <<una casa>>, era nulla di più che una stanza con dei letti non separati dalla cucina. Rimpiangevo la mia casa nel Sud Italia, quella casa che avevamo lasciato e in cui, in fondo, stavamo bene.”… “All’inizio è stata dura: non solo sentivamo una grande nostalgia di casa, ma non conoscevamo una sola parola d’inglese. Mio marito ha subito iniziato a lavorare in una pasticceria, ma dopo pochi giorni è stato costretto a lasciare quell’impiego.

    Ha poi lavorato come muratore per un immigrato campano, ma nonostante le molte ore di lavoro, la paga era bassa e non bastava a sostenere l’intera famiglia così ha deciso di fondare una piccola società con un parente acquisito, sempre lavorando come muratore. La società però non è durata molto, e presto i due soci hanno pensato di dividersi. Mio marito ha quindi cominciato a lavorare per conto proprio. Lavorava davvero duramente. Io intanto avevo trovato un impiego: cucivo, ed ero fortunata perché potevo svolgere il mio lavoro a casa, diversamente avrei dovuto rinunciarvi avendo dei bambini piccoli e non avendo nessuno a cui affidarli. Comunque, dopo qualche anno avevamo cambiato appartamento, i nostri figli crescevano e si integravano perfettamente nella società americana; eravamo persino riusciti ad accendere un mutuo per acquistare la casa dove viviamo ora.”

    “Dopo un inizio difficile, devo dire che adesso mi trovo benissimo qui: i miei figli sono andati all’università e ora hanno impieghi che non costringono a sacrifici come quelli che abbiamo affrontato io e mio marito, e già questo mi rende felice.” Finalmente negli occhi della signora si è accesa una luce diversa mentre spiega “in fondo l’Italia non mi manca più, vivo qui da quasi quarant’anni, la mia famiglia è qui, la mia casa è qui, la mia vita è qui. Mi piace tornare una volta l’anno al piccolo paese natale, vedere i miei parenti e le persone che frequentavo da ragazza, ma mi assicuro sempre di aver comprato anche il biglietto di ritorno!”.

    Oggi gli italiani alla sempre famosa canzone di Gigliola Cinquetti, preferiscono canzoni di artisti americani e qualcuno ha pensato di volgere in versione remix l’immortale “tu vuò fà l’americano”. E’ forse, questo, il sintomo di una nuova ondata migratoria che dalla penisola italica muove nuovamente verso l’America? Basterà soffermarsi a pensare pochi attimi per accorgersi che chiacchierando in un locale o in un negozio è facile imbattersi tanto in persone di origine italiana quanto in italiani solo recentemente arrivati in America. Si tratta soprattutto di ragazzi che per lo più non superano la trentina, ragazzi che lasciano l’Italia armati in genere di sogni ed ambizioni, con il cuore in gola per il timore e una valigia pesante di saluti e raccomandazioni.

    A New York, in un luminoso appartamento a Manhattan, vive Federica Mercuriello, una energica ventottenne che nel 2008 ha lasciato il suo Paese. “Dopo aver conseguito la laurea in Italia ho subito trovato un lavoro con cui riuscivo a pagare le mie spese” racconta piena d’entusiasmo Federica, “ma non mi bastava, sentivo che potevo ancora impegnarmi per migliorare, così, avendo vinto una borsa di studio, dopo una serie di ricerche, ho visto che la Columbia University proponeva il master che mi interessava, così mi sono data da fare, decisa a superare il test d’ammissione.

    Una volta ricevuto l’esito positivo tutto è successo velocemente: nell’arco di una settimana, eccitatissima, ho lasciato il mio lavoro e mi sono trasferita nella Grande Mela: iniziavo i corsi all’università con due settimane di ritardo, per cui dovevo recuperare tutto il lavoro arretrato e rimettermi in pari con il programma, per questo, almeno immediatamente, non ho avuto modo di guardarmi intorno e farmi impressionare dalla città, quello che ricordo, però, è il senso di smarrimento che ho provato: non avevo avuto tempo di cercare un alloggio, quindi ho trascorso le prime cinque notti in un albergo, e tra le luci di questa città che non dorme davvero mai, tra la gente che cammina frettolosamente lungo i marciapiedi, mi sentivo spaesata, quasi stordita, ero veramente tentata a tornare a casa mia, tra le mie cose, nella calma del mio pesino di provincia.

    Lo studio però mi coinvolgeva,” spiega orgogliosa Federica, “e alla fine ho deciso di tenere duro e di rimanere qui”... “A posteriori devo ammettere che è stata una scelta saggia, ma sul momento è stata dura: il mio inglese non era ottimo, e l’integrazione non è stata semplice: i miei compagni di corso americani non erano particolarmente amichevoli: erano molto concentrati sullo studio, tutti estremamente competitivi, sembravano non avere tempo né voglia di relazionarsi con me” … “Ancora oggi, se c’è una cosa che mi manca dell’Italia, credo sia proprio la calma con cui scorre la vita e la cordialità delle persone: non penso sia casuale il fatto che le persone che frequento di più siano tutte europee o sud americane, tutte persone con cui condivido il modo di percepire e condurre i rapporti interpersonali… e poi c’è quel pezzo d’Italia a cui non potrei rinunciare, un angolo che mi sono ritagliata istintivamente: mi piace uscire con italiani che come me si trovano qui per motivi di studio o di lavoro, sono proprio gli italiani le persone con cui ho contatti più di frequente, anche solo per bere un caffè, fare una passeggiata, o semplicemente fare un saluto.”

    “Vivo a New York da più tre anni” continua Federica accennando un sorriso più disteso, “ormai il mio inglese è fluente, mi sono perfettamente adattata alla mentalità americana, e ho trovato un lavoro che mi piace e che mi permette un tenore di vita abbastanza agiato (e so bene che probabilmente in Italia questo non sarebbe stato possibile), ma devo ammettere che penso sempre alla mia terra: sono veramente decisa a tornare in Italia: non so bene quando questo avverrà, ma sono certa di non saper rinunciare a quel calore tutto italiano, a quel sereno scorrere della vita.”

    Quella della signora campana e quella di Federica sono due storie estremamente diverse eppure sorprendentemente simili: iniziano a quasi quarant’anni l’una dall’altra, ma hanno al centro la stessa ambizione di migliorarsi, lo stesso rispetto e ammirazione per un paese che ha accolto le loro protagoniste e la stessa nostalgia di una casa lontana: sono storie allo stesso modo affascinanti poiché il loro epilogo è ancora da scrivere.

  • Fatti e Storie

    Grazie lo stesso, Azzurri!

    Noi italiani eravamo tutti pronti nei locali e nelle piazze, nelle case e nelle tendopoli, negli accampamenti militari e nei villaggi turistici: noi italiani eravamo tutti pronti alla grande festa!

    Da Milano a Messina eravamo arrivati davanti ai maxischermi con gli striscioni ben in vista, eravamo seduti nei locali con in indosso una maglietta azzurra, nelle case, al fresco, tutta la famiglia si era ritrovata davanti al televisore, nelle tendopoli emiliane e negli accampamenti militari avevamo dimenticato la tristezza e la paura, nei villaggi turistici avevamo rinunciato a vedere il tramonto dalla spiaggia.
     

    Alle 20:45 eravamo arrivati davanti ai grandi e ai piccoli schermi con un incontenibile entusiasmo che ci teneva uniti tutti. Eh già, eravamo tutti uno solo, l’altra sera, noi “fratelli d’Italia”.

    I presupposti non erano a nostro favore: un’Italia nuova e stanca si trovava a fronteggiare un’eccellente Spagna, campione del mondo 2010 e campione d’Europa 2008; ma noi italiani ci credevamo davvero: credevamo davvero che Balotelli avrebbe potuto regalarci quei quattro goal che ci aveva promesso dopo la doppietta di tre giorni prima, credevamo veramente che Buffon si sarebbe gonfiato fino a superare le dimensioni della porta di cui è vigile guardiano, credevamo veramente che Cassano, Di Natale, Montolivo avrebbero potuto correre più velocemente; ci credevamo anche dopo i primi due gol subìti.

    Durante l’intervallo continuavamo a sperare in un riscatto, speravamo nel piede di Pirlo o in un colpo di testa di De Rossi. Speranze destinate a rimanere inesaudite: nel corso della ripresa, gli spagnoli hanno continuato il loro gioco e i tifosi italiani, attoniti, assistevano ai due goal che, sommati ai due subìti nel primo tempo, diventavano fatali.

    Un’Italia sconfitta duramente, dunque, che ha lasciato tanta amarezza non solo nei tifosi, ma anche nei giocatori, rimasti in lacrime sul campo di gioco. 

    Niente coppe issate al cielo per gli azzurri, niente caroselli per le vie delle città italiane, niente inno, niente cori, nessuna “notte magica”. Solo televisori spenti con rabbia e mesti ritorni a casa: nonostante le bandiere sventolassero ancora, anche i colori che ci eravamo dipinti sul volto sembravano un po’ sbiaditi.

    E d’altra parte, durante i 90 minuti di gioco non c’è stata partita almeno sul piano tecnico e fisico: la Spagna ha dominato spavalda, e i nostri ragazzi, un po’ impreparati e un po’ sfortunati, non sono riusciti a reagire.
     

    Si conclude così il nostro europeo, iniziato tra mille polemiche e turbato dallo spettro dell’inchiesta calcio scommesse che ha offuscato lo stesso concetto di sport competitivo, si conclude con l’immagine di Prandelli che consola i suoi ragazzi seduti sul prato verdissimo con gli occhi pieni di lacrime, si conclude applaudendo a una Spagna meritevole, ma lodando entrambe queste squadre dal DNA passionale e i loro uomini orgogliosi della propria appartenenza, <<un po’ della serie “Poveri ma belli”>> ha commentato qualcuno col pensiero rivolto alle economie di questi due paesi cugini di crisi e di spread.
     

    E mentre  in Spagna si festeggia, Prandelli e i suoi ragazzi tornano a casa rammaricati: all’arrivo all’aeroporto di Fiumicino, però, non si aspettano che una piccola folla li aspetti plaudente e fiera mentre intona l’inno di Mameli, ma quella folla c’è e, forse, convince il CT a non lasciare l’impegno in nazionale: <<possiamo essere orgogliosi di quest’Italia>> commenta <<abbiamo schierato una squadra propositiva e corretta>>.

    E se Mario Monti aveva assistito da Kiev, quanto mai impassibile alla disfatta azzurra (tanto impassibile che la rete gliene attribuisce la responsabilità asserendo che “porta sfiga”), i giocatori e il commissario tecnico, ieri, sono stati ricevuti al Quirinale dal tifoso numero 1 che ha commentato <<io non ho mai giocato al calcio, e non posso misurare la fatica, ma comprendo la tensione, l’emozione, la responsabilità>>.

    E in effetti la responsabilità, forse, i nostri ragazzi la sentivano davvero, volevano regalarci quella vittoria che desideravamo tanto. Non ce l’hanno fatta, ma siamo comunque tutti con loro, a dispetto di quegli italiani verdi che esultavano ai goal spagnoli, noi veri “fratelli d’Italia”, anche nella sconfitta restiamo uniti ed entusiasti: a due giorni dalla finale su facebook si vedono ancora foto e frasi di ammirazione verso i nostri azzurri, a Roma alcuni display degli autobus di linea recano ancora la scritta “GRAZIE ITALIA”.
     

    Grazie Italia coi tuoi problemi e con le tue bellezze, grazie per la pizza e il mandolino, Grazie per Margherita Hack e per Umberto Eco…Non è solo calcio, è amore per un paese.

  • Fatti e Storie

    Italia-Germania: La vittoria vista da Piazza del Popolo

    Il pomeriggio romano si preannunciava rovente e io, seduta alla mia scrivania, leggevo stancamente un manuale per un esame imminente. Fin dal giorno precedente avevo ricevuto diversi SMS che mi invitavano a “guardare tutti insieme la partita” sul maxischermo allestito a Piazza del Popolo.

    Avevo più volte declinato l’invito, perché, dicevo, “devo studiare”, ma già alle 16,00 il viale in cui vivo era super animato e gli studenti in affitto negli appartamenti dei palazzi vicini davano già fiato alle vuvuzela acquistate due anni prima in occasione del mondiale in Africa; così, trascinata dall’entusiasmo generale avevo deciso di chiudere quel noioso manuale e di unirmi ai miei amici in piazza.

    Nei corridoi della metropolitana della stazione Tiburtina risuonavano altissimi i cori da stadio, e le bandiere tricolore sventolavano o coprivano le spalle dei ragazzi a mò di mantello: c’era chi gridava “forza azzurri” e chi invece rivolgeva a un’immaginaria Merkel interiezioni non proprio cortesi. In effetti, questa volta, l’incontro Italia-Germania, sembrava infervorare di un ambiguo entusiasmo i tifosi italiani per colpa, probabilmente, di questo fantomatico spread.
     

    Durante il viaggio in metropolitana continuavo a pensare che mi sarei amaramente pentita per tutta la notte di aver chiuso quel libro, ma una volta arrivata a piazzale Flaminio sono stata costretta a ricredermi: dalle uscite della metropolitana e dalle fermate degli autobus di linea urbana era un inarrestabile fluire di gente verso una piazza stracolma e urlante. Soprattutto ragazzi, ma anche adulti e bambini, non avevano saputo resistere alla tentazione di assistere e partecipare all’entusiasmo di una folla di tifosi, e armati di parrucche tricolori, col volto dipinto e una maglietta azzurra, avevano deciso di lasciare condizionatori e ventilatori per lasciarsi travolgere dalla febbre del calcio.
     

    Io avevo trovato una posizione privilegiata da cui guardare la partita: ero riuscita a raggiungere l’obelisco al centro della piazza e, dall’alto di un muretto, avevo un’ottima visuale non solo dello schermo ma anche di tutte le ottantamila teste dei tifosi che riempivano la piazza.

    Al fischio d’inizio dell’arbitro le bandiere vengono calate e i cori cessano: gli occhi di tutti sono rivolti al maxischermo che proietta le immagini della partita che viene seguita con attenzione e concentrazione.

    Al ventesimo minuto il goal di Balotelli fa esplodere la folla in un festoso boato: ci si abbraccia, si accendono fumogeni e si sventolano i tricolori, si canticchia quel “po po po po po” mutuato dal 2006 e si inneggia a “Supermario”.

    Sedici minuti dopo la replica: arriva la doppietta di Balotelli e una nuova, più forte esultanza dei tifosi: nuovi fumogeni, nuovi cori, nuovi abbracci, e un ragazzo africano vestito con la divisa azzurra e con una sorta di turbante ricavato da una bandiera italiana grida a Balotelli “VAI FRATELO!!!….SEI GRANDE FRATELO!!!”.

    Si conclude, nella gioia collettiva, il primo tempo. La ripresa, nonostante gli azzurri abbiamo subito un goal, servirà solo da detonatore per quella che sarà, a fine partita l’esplosione finale: da Piazza del Popolo partiranno festanti caroselli che bloccheranno il traffico del centro della città fino a  notte inoltrata, gli autisti degli autobus di linea festeggeranno  la vittoria facendo apparire sui display motti calcistici, e appariranno striscioni con le frasi più originali come “noi co voi c’avemo perso solo quanno eravamo alleati”.
     

    Ancora una volta il calcio ha dimostrato di essere uno dei più forti motivi di coesione tra gli italiani: nessuna lamentela per la congestione del traffico in città, anzi, un gioioso Alemanno ha annunciato di aver già programmato l’allestimento di un maxischermo al Circo Massimo per consentire, ancora una volta, ai romani e a chiunque lo voglia, di guardare all’aperto l’incontro finale tra Italia e Spagna in cui di determinerà la squadra campione d’Europa.
     

    All’indomani della partita la rete è un pullulare di articoli, videoclip, fotografie riguardanti l’incontro Germania-Italia: si ricordano i tre incontri precedenti (1070 l’Italia aveva battuto la Germania col punteggio di 4-3, nel 1982 col punteggio di 3-1, nel 2006 col punteggio di 2-0), si commenta l’intera partita, ma soprattutto si parla di Balotelli, il ragazzo  con l’espressione da cattivo che a fine partita si scioglie in un abbraccio con la mamma adottiva, il ragazzo di colore che col petto nudo ha dedicato i suoi goal alla mamma che lo ha cresciuto e a tutti i ragazzi italoafricani che hanno ancora problemi con l’acquisizione della cittadinanza nonostante siano nati in questo paese: il ragazzo di colore con l’espressione da cattivo che in fondo ci fa sperare in un mondo diverso!
     

    Ma non dimentichiamo che, almeno per oggi, di Supermario nazionali, noi italiani ne abbiamo ben due: nella notte si è infatti svolto un consiglio tra i capi di statu europei che hanno finalmente approvato la proposta italiana riguardante gli aiuti agli stati europei in difficoltà.
     

    28 Giugno 2012: Italia batte Germania 2-0…. grazie ai nostri due Supermario!

  • Opinioni

    Riforma del mercato del lavoro. Per un’Italia che sia di tutti!

    In un momento storico in cui l’Italia soffre gli effetti della recessione, come un esercito deciso e disciplinato, il governo tecnico capitanato da Mario Monti, prosegue la sua marcia che, stando alle intenzioni dei Ministri-soldato, risolleverà il paese dalla crisi economica. Il Presidente del Consiglio, già a Novembre, quando si era insediato a Palazzo Chigi, aveva preannunciato quanto questa marcia verso la stabilità finanziaria sarebbe stata ardua e lunga. In pochi mesi le riforme proposte dal nuovo governo si sono succedute copiose e rapide: dopo quella che riguardava le liberalizzazioni e che, solo pochi mesi fa, aveva provocato disordini e disagi lungo tutta la penisola, questa volta a far clamore è la riforma del mercato del lavoro.

    Il disegno di legge elaborato da Elsa Fornero, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, è
    stato presentato il 23 Marzo al Consiglio dei Ministri che ha esplicitato il suo appoggio; si attende ora che il ddl venga presentato al Parlamento… ed è già polemica.

    Il ddl elaborato dal Ministro Fornero sarebbe atto a rendere maggiormente flessibile, sia in entrata che in uscita, il mercato del lavoro. Per esempio l’apprendistato, che dovrebbe diventare il canale privilegiato per l’ingresso nel mondo del lavoro, non dovrà avare una durata superiore ai cinque anni, e comunque l’azienda sarà obbligata ad inserire al suo interno un determinato numero di dipendenti integrati attraverso questo tipo di contratto, dipendenti che, sempre, svolgeranno un lavoro retribuito. Inoltre, attraverso questa proposta di legge, si tenterebbe di scoraggiare sia i contratti a progetto (non solo attraverso l’aumento delle aliquote contributive, ma anche privando l’azienda della possibilità di poter licenziare ingiustificatamente il dipendente con sole due settimane di anticipo), sia i diffusissimi contratti a tempo determinato (attraverso l’imposizione di un aggravio dei contributi dell’1,4%, percentuale che andrà a finanziare l’ASPI –Assicurazione Sociale Per l’Impiego- che riguarderà tutti i dipendenti pubblici e privati con contratto a termine).

    Ma il punto più discusso e meno accettato di questo disegno di legge che pare, fin qui, tutelare in toto il dipendente, riguarda le modifiche relative all’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori dei quali si implementa la tutela reale disciplinando eventuali licenziamenti illegittimi. Allo stato attuale, l’Art. 18 prevede, tra le altre cose, che nel caso in cui il licenziamento per cause disciplinari o per cause economiche sia reputato dal giudice arbitrario, il dipendente ha il diritto di essere immediatamente reintegrato nell’azienda occupando il medesimo posto. La proposta di legge del Ministro Fornero prevede la parziale modifica di questo articolo tanto caro ai sindacati da sempre; il nuovo disegno presentato da Monti prevede che in caso di illecito licenziamento per cause disciplinari sarà il giudice a optare per il reintegro del lavoratore nell’azienda o per l’assegnazione di un’indennità  che avrà una durata minima di 15 mesi e che non si protrarrà oltre i 27, nel caso invece di licenziamento per infondate cause economiche il lavoratore avrà diritto solo all’indennizzo senza possibilità di ricorso.

    Nell’ultimo decennio, molti sono stati i tentativi di modifica di questo articolo dello Statuto dei Lavoratori, tutti sistematicamente falliti per via delle ferme opposizioni mosse dai sindacati, e anche questa volta, sebbene in un primo momento le parti sociali di Cisl e Uil si erano espresse favorevolmente rispetto alla riforma, adesso, sotto la spinta della base, si accodano alle posizioni ferme della Cgil e del suo segretario generale Susanna Camusso che il 24 marzo dichiarava “Contrasteremo con ogni mezzo che abbiamo a disposizione la soluzione costruita sui licenziamenti”... “una grande ingiustizia”.

    Una riforma, dunque, quella del Ministro Fornero circa il mercato del lavoro, che coinvolge un po’ tutti, i più giovani che si apprestano a entrare nel mondo del lavoro, ma anche i meno giovani che vedono minate le loro poche superstiti sicurezze, e che, inevitabilmente divide in due le opinioni; come preannuncia la leader della Cgil “ci sono state così tante tensioni nel Paese che saranno molte anche nel prossimo periodo”.

    Ma al di là delle parti prese a priori, considerando che l’oggetto della polemica in corso è l’italiano medio, quello che non fa politica, ma quello che la politica, troppo spesso, la subisce, è forse urgente e prioritario comprendere proprio le impressioni degli italiani a proposito della bufera che riguarda la riforma del mercato del lavoro.

    Saverio, 26 anni, è uno studente fuorisede perennemente in cerca di lavoro: “qualche volta faccio volantinaggio, altre volte, nel week end, faccio il cameriere in pub o ristoranti, niente di stabile, sono lavoretti saltuari e assolutamente occasionali” e dopo una breve pausa, accennando un sorriso colpevole aggiunge “ovviamente in nero…sono impieghi che però mi permettono di contribuire alle spese necessarie per gli studi” racconta Saverio, “dopo la laurea comunque credo che andrò all’estero”, continua “per costruire qualcosa che permetta di vivere decorosamente, i miei lavoretti sporadici sono tutt’altro che sufficienti, e purtroppo, l’Italia sembra non aver posto per la mia generazione nel mondo del lavoro, è un paese che amo moltissimo, un amore che ho ereditato dalla mia famiglia, ma le priorità sono altre, sono quelle materiali, quelle più urgenti: non si vive solo di ideali”. Poi, a proposito della riforma in questione spiega “A Novembre avevo deposto grande fiducia nel governo di Monti, e in verità neppure ora lo disdegno, però guardo a questo governo in maniera disillusa: la riforma è certamente attuabile se i vertici lo vogliono, ma non credo che le conseguenze saranno quelle auspicate”… “personalmente non sono in grado di fornire soluzioni alternative, nè compete a me farlo, però penso che l’Italia non sia pronta ad affrontare cambiamenti così drastici: il modello di flessibilità che propongono Monti e il suo governo non può ancora prendere piede in Italia, un paese che si regge su piccole e medie imprese che non possono sostenere il continuo ricambio di personale, soprattutto se si tengono in considerazione le nuove tassazioni proposte dal ddl del Ministro Fornero”.

    Si dice invece “totalmente delusa dal governo Monti e fortemente contraria a questo disegno di legge” Camilla, 23 anni, studentessa. “L’Europa intera loda Monti e i suoi Ministri, di cui io non metto in discussione il valore, però nella quotidianità dell’Italia media non vedo l’entusiasmo, vedo solo la sfiducia dei miei coetanei che dipendono irrimediabilmente dalle loro famiglie e vedo la depressione di queste stesse famiglie che faticano e che risparmiano, sono famiglie che non credono più nella politica, né nel sindacato, credono solo nello stipendio”. Come Saverio, Camilla spiega “non credo che il progetto del Ministro del Lavoro riuscirà a sciogliere i nodi del Paese, anzi, credo che gli intoppi saranno, se è possibile, anche più numerosi perché l’Italia non ha le figure adatte all’attuazione del disegno elaborato dalla professoressa Fornero”… “Inoltre reputo inaccettabile che a un lavoratore che ingiustamente viene espulso da un’azienda venga negato il pieno diritto di essere reintegrato, in questo modo viene calpestata la sua dignità di lavoratore e quindi di uomo, gli viene negato il diritto a ciò che gli spetta, quindi” conclude “spero che la Cgil non demorda e che il suo leader, che ammiro e appoggio, mantenga ferme le sue posizioni come ha fatto sino a ora”.

    Si leva, infine, una voce fuori dal coro. E’ quella di Isabella, 27 anni, neolaureata disoccupata che spiega: “ho ancora grande fiducia nel governo di Monti. L’Italia ha bisogno di queste riforme per uscire dalla crisi, credo che sia indispensabile che L’Italia si adatti ai tempi di oggi e se è la mia generazione a doversi sacrificare per qualche anno per la ripresa, io credo che sia doveroso accettarlo”. Isabella racconta che presto lascerà l’Italia “starò a Londra per qualche tempo, non so ancora per quanto, ma sono fermamente convinta di voler tornare qui. Sono molti i giovani che, come me, sono costretti ad allontanarsi dall’Italia, ma credo che torneremo tutti indietro, è importante farlo!”

    Storie simili, eppure punti di vista non sempre concordi quelli di Saverio, Camilla e Isabella. Solo un elemento è comune a tutti e tre: la passione per un’Italia che  sia di tutti!

  • Fatti e Storie

    Roma. Il mercato rionale piange. Pochi euro nel portafogli

    Su ogni manuale, su ogni atlante, su ogni guida turistica, nelle pagine dedicate alla nostra bella penisola, leggiamo che lo stilale gode di un clima “mite e temperato che favorisce l’agricoltura”. Ma se l’Italia gode davvero della possibilità di produrre da sé i maggiori beni di consumo alimentare come frutta, verdura e cereali, perché esplorando il reparto ortofrutta del supermercato sotto casa siamo costretti a sorprenderci nello scoprire che mele e zucchine ci vengono proposti a prezzi impensabili? La spiegazione è semplice e, mai quanto ora, nota: recessione, ossia  quella condizione macroeconomica caratterizzata da livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando completamente ed in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione.
     

      Siamo stati nel piccolo mercato coperto che tutte le mattine ha luogo nella capitale in via San

    Romano. Al nostro arrivo, intorno alle 10 del mattino, molti banchi erano già chiusi, ne abbiamo chiesto il motivo ad altri commercianti. Luana, fruttivendola, ci ha spiegato che “in passato il mercato non si svolgeva solo al mattino, ma anche nel pomeriggio erano in molti a venire a fare la spesa, oggi invece non solo a mezzogiorno quasi tutti i banchi sono chiusi, ma moltissimi, hanno abbandonato questo posto definitivamente: le persone non possono spendere e non vengono al mercato, ecco perché molti di questi banchi sono vuoti!”. Le fa da eco la signora Anna: “vengo a fare la spesa in questo mercato da più di dieci anni, ma ormai non trovo tutto quello che mi serve: non c’è più il macellaio né il panettiere, quindi sono costretta a comprare queste cose al supermercato dove i prezzi sono molto più alti”.
     

    Notiamo poi, davanti al banco della verdura, un anziano signore che, affondando le mani nelle

    tasche dei pantaloni sembra cercare qualcosa: ne estrae un mucchietto di monete. Le conta. Sono circa ottanta centesimi di euro, le mostra al commerciante e gli chiede “Mario, che mi dai per questi soldi?”. Mario prende una busta di carta e vi mette dentro qualche carciofo. Ci avviciniamo, e Mario ci spiega “quel signore che avete visto comprare dei carciofi viene qui tutti i giorni. E’ un pensionato, ma fa difficoltà ad arrivare a fine mese. A me dispiace, quindi qualche volta gli regalo qualcosa, quello che posso; ultimamente però vendo poco e il mio disagio si riflette anche su di lui”. E di commercianti come Mario ce ne sono tanti al mercato di San Romano. Luigi vende pesce da cinquant’anni: “è tutto, di nuovo, come quando facevo il garzone: siamo tornati a fare credito alle persone come si faceva quarant’anni fa, perché già a metà mese una famiglia media non ha più soldi da spendere…ci sono le bollette e il mutuo da pagare, e se una madre di famiglia viene a comprare del cibo, non si può negarglielo anche se non ha i soldi per pagarlo: ci si limita a sperare che torni a pagare!”
     

    E’ chiaro allora che il piccolo mercato coperto, pieno solo del profumo delle arance e del pesce è frequentato soprattutto da anziani, pensionati o casalinghe: sono questi i pochi clienti abituali.
     

    Ci spostiamo così all’interno di un supermercato su via Tiburtina non lontano dai banchi di via San Romano. E’ tutto un tripudio di cartelloni che, posti ben in vista, recano la scritta “OFFERTA SPECIALE”: tonno, vino, formaggi. Percorrendo i corridoi delimitati dagli alti scaffali incontriamo la signora Sabrina che nel suo carrello ha posto del pane, del pollo, del caffè, e un flacone di detersivo. Ora, ferma davanti al grande frigorifero dei formaggi, esamina con attenzione le etichette di diverse confezioni: “sto cercando di capire qual è quello che costa meno”, ci spiega, poi le facciamo notare che il pecorino è in offerta: senza pensarci due volte, la signora Sabrina ne depone 3 confezioni all’interno del suo carrello: “è un formaggio che si conserva a lungo e visto che è in offerta ne comprerò più di una confezione”… “cerco sempre di comprare i prodotti che sono in promozione, ne faccio una bella scorta!”. Le chiediamo in che modo abbia selezionato gli altri prodotti che ha nel carrello e ci risponde che “il caffè e il detersivo non sono di marca, quindi costano poco; poi ho preso un pollo intero per non pagare i costi della lavorazione…il pane invece è una tragedia, è carissimo! La frutta e la verdura, poi, le compro al mercato, ma non ci vado al mattino presto perché intorno all’orario di chiusura i commercianti abbassano i prezzi della merce deperibile!”
     

    Stiamo per uscire dal supermercato quando incontriamo Pamela e Katiusha, due sorelle siciliane sulla ventina. Stringono in mano delle borse da spesa che sembrano pesantissime e, curiosi, chiediamo loro cosa abbiano comprato. Ci mostrano orgogliose il loro scontrino “con poco più di quaranta euro abbiamo riempito cinque buste” gioisce la prima, e continua “quasi tutti i prodotti che abbiamo comprato sono di sottomarca; abbiamo fatto un carico di uova e ali di pollo perché sono alimenti sostanziosi ma molto economici; pochi ortaggi e niente pane per via dei prezzi eccessivamente alti; e soprattutto cerchiamo sempre di attenerci rigorosamente alla lista della spesa e di non farci tentare”. Pamela e Katiusha sono studentesse, ci spiegano che, come tutti gli studenti, cercano di risparmiare su ogni cosa: “incontriamo i nostri amici a casa, preferiamo invitarli a cena piuttosto che andare in un pub dove una birra costa quasi quanto un pasto completo; usiamo sempre i mezzi pubblici, credo di non aver mai preso un taxi da quando vivo a Roma; e poi non compriamo mai i pacchetti di sigarette, è più economico fumare quelle fai-da-te; e per quanto riguarda l’abbigliamento ricorriamo qualche volta all’usato, in questo modo eventuali sfizi non devono sempre rimanere inesauditi: non si può in fondo rinunciare a tutto e limitarsi a sopravvivere!” conclude sorridendo.
     

    Che siano studenti o pensionati, disoccupati o lavoratori, tutti, allo stesso modo, sono impegnati in una faticosissima lotta al risparmio e alla sopravvivenza. E visto che la crisi incalza e le finanze scarseggiano, anche la rete, a modo suo, offre un contributo agli italiani che, sempre più numerosi, vogliono imparare l’arte della parsimonia. I blog pullulano di consigli per il risparmio, innumerevoli liste propongono metodi più o meno noti che consentirebbero di schivare gli sprechi: si va dal più banale “prestate particolare attenzione alle offerte promozionali” al più curioso “recatevi al supermercato solo dopo aver mangiato per evitare che lo stomaco invii impulsi tentatori al vostro cervello”. E neppure YouTube pare essere da meno: non è difficile imbattersi in video su “come preparare una cena romantica con meno di 20 euro” o in video che illustrano “manuali del lesinare”.
     

    La parola d’ordine all’alba del 2012 è senzadubbio “economizzare”.

  • Opinioni

    "Festa della donna"? O "Giornata della donna"?

    Esco di casa e, svoltato l’angolo, vedo un venditore ambulante di colore contrattare con un ragazzo per l’acquisto di un mazzolino di mimosa confezionato in una bustina di plastica rosa: l’avrà per un solo euro. Più avanti qualcuno mi porge un volantino che promuove una discoteca, leggo “…DONNA INGRESSO OMAGGIO…”. Cento metri più in là, un enorme cartellone pubblicitario raffigura un ragazzo in perizoma che, con sguardo ammiccante, invita tutte le passanti a partecipare alla festa durante la quale si terranno degli spogliarelli maschili. Ma che succede? Ah, sì… è l’8 Marzo!

    Di rado ho festeggiato questa ricorrenza, mia madre mi portava con sè insieme alle sue amiche quando ero piccola: andavamo a mangiare una pizza e mio padre le regalava dei fiori…lei non sembrava apprezzare molto il gesto, ma tutti gli anni mi raccontava la triste storia della fabbrica di camicie e diceva che da grande avrei capito che non si trattava solo di una favola senza il lieto fine.
     

    Oggi so che quella che mia madre mi raccontava da bambina non era affatto una favola triste in cui alla povera, sottomessa ragazza non veniva dato il tempo di scoprirsi principessa, oggi so che quella che mia madre mi raccontava è storia vera, e credo che me la raccontasse tutti gli anni per assicurarsi che io ne conservassi il ricordo e che ne acquisissi la coscienza.
     

    Ma la genesi della ricorrenza dell’8
    Marzo, in realtà, pare essere abbastanza incerta: per le femministe francesi degli anni 50, per esempio, la ricorrenza sarebbe atta a commemorare il 50° anniversario di uno sciopero di lavoratrici tessili brutalmente represso a New York l’8 marzo del 1857; per il bollettino del Pci Propaganda nel ’49, invece, si celebrerebbe l’8 marzo 1848, quando le donne di New York scesero in piazza per avere i diritti politici. Quale che sia, di queste o di altre supposizioni, quella corretta non è importante perché nel 2012 è piuttosto importante ricordare tutti questi episodi.
     

    Eppure continuiamo, imperterriti e ripetitivi, a chiamarla “festa delle donne”. Non sono sicura che  ci sia veramente qualcosa per cui festeggiare: certo, nel corso dei secoli, per mezzo di dure lotte e affrontando tutte le conseguenze del caso, migliaia di donne hanno contestato e urlato e manifestato per la parità dei diritti, e molti e importantissimi sono stati i traguardi da loro raggiunti, traguardi di cui noi, donne del 2012, ci gioviamo e da cui non potremmo prescindere. Ma abbiamo veramente raggiunto questa tanto agognata parità dei sessi? La risposta è evidente e scoraggiante: gli uomini vengono ancora preferiti alle donne sul lavoro, e si parla di “quote rosa” al governo. Personalmente, in quanto donna, trovo tutto questo umiliante e retrogrado. Sin dal 1800 le donne si battono per una parità che nel XXI secolo sembra ancora lontanissima: la società occidentale, mentre punta il dito accusatore verso il burqa, ostenta progressi che in realtà non esistono perché, se veramente i pregiudizi di genere fossero superati, che senso avrebbe parlare oggi di femminismo? Che senso avrebbe istituire delle quote rosa se fosse stato accettato il postulato secondo cui una donna è in grado di svolgere le stesse mansioni che può svolgere un uomo?
     

    Io credo, insomma, che se oggi ci troviamo a parlare di femminismo è perché ce n’è ancora bisogno, e se c’è ancora bisogno di eroine come quelle del ‘900, allora è ancora necessario ricordare e partecipare all’8 Marzo, perché quella che chiamiamo “festa della donna” dovrebbe essere la “giornata della donna”, una giornata che ricordi che siamo ancora indietro rispetto alle nostre idee, una giornata che celebri tutte quelle donne che vengono discriminate in quanto tali, una giornata che rivolga lo sguardo a quelle che invece, nonostante tutto, ce l’hanno fatta a farsi valere. E’ solo così che può acquistare significato quel mazzolino di mimosa avvolto in una bustina di plastica rosa: quel fiore non deve più essere uno sterile omaggio, ma deve essere un segno di appoggio a tutte coloro che credono possibile la realizzazione dell’utopia della parità dei sessi.

  • Gianni Morandi, Rocco Papaleo, Elsabetta Canalis e Belen Rodriguez
    Fatti e Storie

    Sanremo all'indomani del NUN M’AREGGE DE GUARDARLO

    Anche quest’anno, puntualmente, il palcoscenico del teatro Ariston di Sanremo ha ospitato il prestigioso Festival della Canzone Italiana. A gareggiare ventidue canzoni, quattordici delle quali eseguite dai cantanti “big”, le restanti otto interpretate dai “giovani” scelti in rete o nella zona di Sanremo. Sebbene il Festival sia una delle più importanti manifestazioni televisive del Paese, negli ultimi anni sembra aver perso consensi soprattutto tra i più giovani: i blogger della rete non sembrano apprezzare lo show, si leggono infatti, tra i post, commenti inequivocabili come “NUN M’AREGGE DE GUARDARLO!!!!!!”, mentre i più volenterosi, quelli che si sono sentiti quasi in dovere di sintonizzarsi su Rai1 in previsione della pioggia di polemiche e di notizie relative allo spettacolo scrivono “quest'anno ho deciso di farmi del male e vederlo anche io”. E in effetti il Festival appare a molti obsoleto nella monotonia del suo susseguirsi dei brani musicali che non hanno la forza del coinvolgimento proprio in quanto inediti. Le cinque serate hanno comunque riscosso un grande successo d’ascolti con uno share che ha sfiorato il 51% nella puntata conclusiva.

    Ma, com’è noto, il Festival, non è solo una gara musicale, esso può considerarsi a tutti gli effettiun varietà, puntellato com’è di ospiti che non necessariamente hanno a che fare con la musica: il duo de I Soliti Idioti, Federica Pellegrini, Sabrina Ferilli, Luca e Paolo, Geppi Gucciari, Alessandro Siani e il commentatissimo Adriano nazionale, sono solo alcuni dei personaggi che hanno calcato il più ambìto palcoscenico italiano regalando al pubblico, con gag, monologhi, sketch (più o meno apprezzati) minuti di relax e di riflessione tra una canzone e l’altra.

    A fare da padroni di casa sono stati un disteso e disinvolto Gianni Morandi e un brillante e simpaticissimo Rocco Papaleo; al loro fianco la bellissima Ivana Mrazova, modella ceca diciannovenne che dalla critica è però stata definita “un’inutile presenza sorridente e muta”. Ma quella sollevata a proposito della giovanissima valletta, non è l’unica critica mossa al Festival giunto ormai alla sua sessantaduesima edizione: come di consuetudine, anche quest’anno, le polemiche fioccavano giàprima dell’inizio dello show: a riempire le testate giornalistiche e egli spazi dei programmi televisivi è stato inizialmente l’ampio cachet concesso a Celentano, successivamente la difficile scelta della presenza femminile che avrebbe affiancato i conduttori. A Festival già inoltrato, poi, a fare notizia è stato soprattutto l’attesissimo monologo del Molleggiato, nonché l’ormai popolare “farfallina di Belen”, il tatuaggio che la subrette ha, casualmente o furbamente, lasciato scoprire agli italiani.
     

    Ma al di là delle polemiche e delle critiche, delle accuse e delle lodi, delle etichette affibbiate arbitrariamente o meno ad ospiti e cantanti, il Festival di Sanremo deve essere considerato soprattutto in quanto omaggio alla musica. E perché proprio la musica venga celebrata nella maniera più universale possibile, Gianni Morandi e il suo cast hanno pensato bene di ospitare sul palcoscenico dell’Ariston, lungo tutta la terza serata, una serie artisti di fama mondiale e dal talento indiscusso: Bryan May, Patty Smith, Gary Go e molti altri maghi della musica hanno deliziato e coinvolto il pubblico italiano duettando con i concorrenti del Festival.
     

    All’indomani della fine dello spettacolo, però, si tende ad accantonare tutti gli episodi che hanno fatto scalpore per concentrarsi soprattutto sui testi dei brani che hanno partecipato alla gara. Emerge immediatamente che il tema preferito dai cantautori e dagli autori è quello amoroso: ancora una volta a Sanremo viene cantato l’amore in tutti i suoi aspetti: l’amore nascente, l’amore perduto, l’amore ritrovato, l’amore condiviso, l’amore disperato. Non sono tuttavia mancati testi che si allontanano dai sentimentalismi per dare  spazio a temi sociali e introspettivi; tre, in particolare, sono i brani che vengono lodati dai gruppi e dai blog più impegnati sul web: il primo è “E tu lo chiami Dio” scritto da Roberta Di Lorenzo ed interpretato da Eugenio Finardi che, raccolti i lunghi che in gioventù coprivano il volto, canta una religiosità senza dogmi: “tu lo chiami Dio/io non do mai nomi/ a cose più grandi di me” dice Finardi seguendo una melodia classica e dolce. Ad essere molto apprezzata è anche la canzone proposta da Samuele Bersani “Un pallone”: sulle note di una melodia affatto banale e per niente mielosa, anzi giocosa, attraverso la metafora di un pallone viene descritta l’Italia di oggi che, all’interno di “un contesto vigliacco”, è descritta come un Paese “bloccato” e “malato”; il brano di Bersani è stato molto apprezzato anche dalla critica, tanto da aggiudicarsi il premio Mia Martini. La lode che il web concedeva poi al brano di Emma Morone, “Non è l’inferno”, è stata talmente tanto condivisa, che la giovane cantante è risultata vincitrice della manifestazione canora: con grinta e passione, Emma offre, più che una storia, una serie di immagini che descrivono un’Italia i cui giovani non hanno più fiducia nelle istituzioni e temono il  futuro, e i cui anziani, anch’essi, nonostante i sacrifici affrontati e superati durante e dopo due grandi guerre, versano in disagi economici, eppure non perdono il vigore, anzi stimolano alla speranza spiegando che quello di oggi, appunto, “non è l’inferno” della guerra. La vincitrice di Sanremo che si dichiara coinvolta nel testo che Silvestre, Sala e Palmosi hanno composto per lei, propone ai ragazzi italiani, a quelli che sperano e che sognano, la sicurezza di un cambiamento.
     

    Non resta allora che dire ARRIVEDERCI AL PROSSIMO SANREMO, che, speriamo porti con sé meno strascichi musicali e più buona musica

  • Fatti e Storie

    Aplomb, rigoroso, essenziale, fermo. Ma chi è Mario Monti?

    Sobrio, elegante, colto, fermo: è Mario Monti, il tanto acclamato e discusso nuovo Premier italiano. Le sue apparizioni televisive lo vedono protagonista di interventi essenziali, mai superflui, sempre esposti con estrema decisione e compostezza; i giornali e le trasmissioni tv ne lodano la regolatezza e la preparazione.

    Presidente del Consiglio di un Paese reduce da una reggenza fallita, Mario Monti, nel suo  austero contegno, è visto dall’Europa e dall’America come l’unico uomo capace di evitare il tracollo finanziario del Paese. L’opinione pubblica italiana, da parte sua, anche nel fornire un’opinione sul nuovo Premier, risulta invece irrimediabilmente spaccata in due parti contrapposte: mentre alcuni ne lodano la morigeratezza e ripongono in quest’uomo tanto deciso quanto temperante, la loro fiducia di cittadini, altri lo accusano di nutrire celati e subdoli interessi a favore delle banche, essendo egli stesso parte integrante dei cosiddetti “poteri forti”.

    Ma chi è Mario Monti? Economista, accademico e, solo di recente, anche "politico" italiano. Conseguita la laurea in economia presso la più prestigiosa università del Paese, l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano, trascorre un anno a Yale, dove incontra in qualità di professore, James Tobin, che nel 1981 riceverà il premio Nobel per l’economia. Al ritorno dagli States comincia la sua carriera  accademica: prima docente ordinario all’Università degli Studi di Trento, poi professore presso l’Università degli Studi di Torino e, ad ultimo, ottiene la cattedra di economia politica presso l’Università Bocconi dove diventa prima direttore dell’Istituto di economia politica, poi rettore dell’ateneo e, alla morte di Giovanni Spadolini, ne prende il posto come presidente. Riveste intanto incarichi di rilievo all’interno di diverse commissioni governative e parlamentari: è relatore della commissione sulla difesa del risparmio finanziario dall'inflazione, presidente della commissione sul sistema creditizio e finanziario, membro della Commissione Sarcinelli e del Comitato Spaventa sul debito pubblico, nonché vicepresidente della Comit.

    Nel 1994, mentre riveste la carica di rettore dell’università milanese, ottiene la carica di commissario europeo, inoltre gli vengono assegnate le deleghe a Mercato Interno, Servizi Finanziari e Integrazione Finanziaria, Fiscalità ed Unione Doganale. Cinque anni più tardi la commissione si dimette in blocco, a causa di uno scandalo legato a cattive pratiche di gestione ed amministrazione da parte di alcuni commissari: pare che Monti non fosse coinvolto nello scandalo, e infatti, l’anno successivo la sua carica viene confermata. E’ comunque proprio sotto la sua guida che la Commissione Europea avvia il procedimento contro la Microsoft, imputata di aver violato le norme antitrust, e blocca la proposta di fusione tra  General Electric e Honeywell perché anch’essa considerata contraria alle normative antitrust.

    Il resto è storia recentissima: Monti è il primo Presidente del Brungel (un comitato, indipendente dalla forze politiche, che si occupa di analisi delle politiche economiche), è stato, sino alla sua nomina a Presidente del Consiglio, oltre che presidente europeo della Commissione Trilaterale (un gruppo di interesse di orientamento neoliberista, fondato da David Rockefeller) anche membro del comitato direttivo del Gruppo Bildemberg (una sorta di salotto in stile ottocentesco che conta circa 130 partecipanti, i quali annualmente si incontrano per discutere temi globali, economici, politici). Inoltre è stato advisor della Coca Cola Company, membro del "Senior European Advisory Council" di Moody's, ed è uno dei presidenti del "Business and Economics Advisors Group" dell'Atlantic Council.

    Insomma, il nostro attuale Presidente del Consiglio vanta un curriculum vitae invidiabile, tanto invidiabile da fargli guadagnare l’appellativo di Super Mario, un appellativo che in realtà egli stesso rigetta, non amando questo genere di frivolezze; un curriculum che, comunque, spiega molte delle sue scelte e decisioni politiche. In verità pare che Monti non abbia mai espresso il desiderio di occupare i posti dei vertici della politica, pur essendo sempre stato attratto dalle istituzioni aveva sempre guardato con ripugnanza all’ipotesi di una candidatura elettorale, ed effettivamente ha più volte dichiarato la sua ferma intenzione di non candidarsi alle prossime elezioni: “I nostri sforzi saranno indirizzati a risanare la crisi finanziaria, crescita e attenzione all’equità sociale. Agirò con spirito di servizio e senso di responsabilità” aveva sottolineato subito dopo aver accettato l’incarico che il Presidente Napolitano gli affidava.

    E’ forse proprio questa la carta jolly del nuovo governo: le reazioni degli italiani alle manovre non avranno peso sul futuro politico del Paese, per cui, in virtù soprattutto delle personali esperienze internazionali ed intercontinentali, Monti propone riforme che gli italiani reputano impensabili: la fine dell’era del posto fisso, le varie liberalizzazioni che Monti progetta per l’Italia, il rigore dei conti pubblici, rispondono alla sua ferma volontà di fare in modo che l’Italia venga pensata non con l’Europa, ma dentro l’Europa, e d’altronde è inevitabile e naturale che un uomo con esperienze extraeuropee pensi di far rientrare il progetto Italia all’interno di un progetto più grande: nel suo discorso al Senato del 25 gennaio, Monti ha sottolineato che “certi principi cardine dell’Unione Europea hanno un fondamento etico che gli stati nazionali hanno avuto la saggezza di collocare nella Costituzione Europea”, cita i principi della “giustizia distribuita, della parità di trattamento degli Stati grandi e piccoli, delle equità intergenerazionali”.

    Anche Franco Bruni, suo ex allievo, oggi docente dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, lo aveva definito “profondamente europeo, un sostenitore dell’economia sociale di mercato” e aveva continuato “è stato bravo e intellettualmente coraggioso a introdurre nel dibattito politico alcune cose abbastanza scontate per gli economisti ma non così scontate per l’opinione pubblica”.

    Il ritratto di Mario Monti delinea, dunque, la figura di un uomo aplomb, rigoroso, fermo nelle sue posizioni ipereuropee che, sempre devono combaciare e confluire nella tutela degli interessi pubblici.

    Ricordiamo infine, per chiudere con un sorriso, quella che forse è stata sua prima imitazione realizzata da un comico, parliamo di Maurizio Crozza. Era il 15 novembre 2011 e nella trasmissione Ballarò il comico genovese apre la puntata con la sua satira indirizzata al neo presidente del Consiglio:  un inedito ed esilarante "Monti-robot".

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