Le contraddizioni della sofferenza. Eutanasia e accanimento terapeudico

Gennaro Matino (November 16, 2014)
Una riflessione sulla decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere prima che la sofferenza della fine lo distrugga


« Vorrei morire anch'io con dignità». Non è la prima volta che sento pronunciare tale lucida richiesta, non mi sorprende, non mi scandalizza, capisco chi fa i conti con una sofferenza insopportabile che sembra svestire d'umano la sua storia. Morire con dignità, questa la richiesta, che oggi ad alcuni sembra ancor di più in dovere di essere gridata dopo che i media del mondo hanno raccontato l'esperienza di Brittany Maynard, la ventinovenne americana, che ha scelto l'eutanasia. Domenica scorsa si è tolta la vita in Oregon alla presenza di suo marito e dei suoi genitori. Aveva annunciato la sua volontà di mettere fine alla propria sofferenza in un video su youtube che era stato visto da 9,5 milioni di persone.

Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere, prima che la sofferenza della fine lo distrugga al punto da farlo vergognare di essere uomo. Per molti autorevoli commentatori è inaccettabile infatti lo spettacolo della sofferenza del condannato a morte. È una ferocia non liberare dallo strazio chi potendo chiederebbe di essere soppresso. «Nel suicidio consapevole responsabilmente esercitato c'è una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di essere padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare». Eroismo scriveva Augias qualche tempo fa, così l'eutanasia per lo scrittore che, in questi giorni, forse sembra meno convinto. Mettere fine alla sofferenza, anticipare la morte, è per Augias un'antica e resuscitata virtù. Il suicidio come valore. Legittimo ritenerlo. Tuttavia è legittimo anche ritenere, fuori dal clamore del potere mediatico, che fa dell'eccezione sistema mentre troppo silenzio cala invece sulla quotidianità di chi vive il dolore anche estremo con dignità, che possa esserci un eroismo contrario. Un eroismo molto più diffuso, vissuto come offerta di sé e che, non solo la mia fede, ma la mia stessa dignità di uomo, spinge a considerare un'esaltante esperienza di vita benché il dolore: il morire quando la morte, che arriva a suo tempo, abbia avuto il tempo di fare il suo mestiere.

 

La morte fa parte della vita, come è parte della vita la sofferenza. Sono contrario a ogni accanimento terapeutico che prolunghi un'esasperata sopravvivenza. Lo spettacolo di dolore al quale Augias aveva assistito e che raccontava in un suo articolo di qualche tempo fa, l'amico che si spegneva trasformato in altro dalla sofferenza e che lo avrebbe indotto a pensare alla dolce morte come più dignitosa, è spettacolo a cui mi costringe il quotidiano e che certo mi provoca e pone domande anche alla mia fede: "Perché? Fino a quando?". Prego perché le sofferenze di chi sta morendo finiscano presto, spero che la medicina allievi il dolore e usi strumenti capaci di accompagnare chi soffre senza false illusioni.


Tuttavia ritengo che la fine della vita è pur sempre vita, ritmata dalle stagioni e dagli avvenimenti di ogni giorno e che questo segmento di vita è un bene concesso, un'esperienza comunque umana. Non cerco il dolore, lo combatto, ma eroismo non può essere negare la sofferenza togliendosi la vita. Il suicidio antico era altra cosa. Si può ragionare su questo, ma allargarne il concetto sarebbe rischioso, come il dover stabilire quale sia il limite della vergogna, lo spazio concesso alla libertà del morire per garantire la propria dignità. Ma c'è di più: a ben leggere l'eutanasia e l'accanimento terapeutico sono facce della stessa medaglia.

 

Solo chi davvero è contro il potere assoluto della medicina, e non crede che la scienza abbia una risposta a tutti i problemi, ha anche l'umiltà di governare le contraddizioni della sofferenza. Solo chi conosce la vita, e impara ad accettarla nella sua verità, fa i conti con il dolore e la morte. La presunzione di resistere alla morte quando è arrivata l'ora o di anticiparla quando ci sembra troppo in ritardo sono di uguale natura. Il delirio di onnipotenza non permette all'uomo di accettare la natura e inchinarsi di fronte all'evidenza della morte.


Provare a resistere all'inevitabile è eroico o temerario? Fuggire dallo strazio della morte è coraggio o vigliaccheria? Fino alla sua morte il morente resta un uomo e da uomo dovrà attraversare quel baratro inevitabile che agli spettatori sprovveduti del suo dolore apparirà come il baratro della vergogna. Ma lo è davvero? Per il momento sarebbe più giusto accarezzare di amore chi ci chiede di essere soppresso forse solo per non dare fastidio, solo per non darci l'angoscia di pensare alla morte.

 

Si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere prima che la sofferenza della fine lo distrugga.


* Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


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