Look up, America! La vita all’ombra di Wall Street

Francesca Di Folco (November 17, 2012)
Il teatro dell’Orologio, a due passi da Largo Argentina, nel cuore nella Capitale ospita il monologo sulla storia di un ex top-manager che, folgorato dalla traversata del funambolo francese Philippe Petit 27 anni prima tra le Twin Towers, decide di cambiare vita. i-Italy ha intervistato l’attore Ugo Dighero e il regista Marco Melloni che ci hanno regalato il loro personali punti di vista sull’opera

Buio screziato di luce fioca, sul palco cartoni e newspaper sparsi qua e là, per sfondo uno schermo sul quale scorrono spaccati di vita newyorkese...

Su tutto, giochi di colori e fari iridescenti inquadrano un manichino vestito dell’eloquente scritta “One song, one dollar” e, coricato a terra, un clochard avvolto in una tenda di cartone.

C’è questo e molto altro a far da cornice ad una piccola produzione teatrale indipendente, capace di accendere gli animi... 

E’ la serata del 6 novembre, ricca di emozioni, forecasting, ed exit poll rivolti all’altro capo dell’oceano per le elezioni presidenziali americane, quando, varcando la soglia del teatro dell’Orologio, su Corso Vittorio Emanuele a Roma, assistiamo a Look up, America!, monologo per la regia di Marco Melloni, recitato da un eccelso Ugo Dighero, dove sono entrambi autori.
 

Eccoci catapultati nel vissuto americano degli ultimi trenta anni, perchè Look up, America! è proprio questo: un dramma comico in cinque atti, veri quadri-siparietti “per attore e manichino”, verrebbe da dire... Infatti i protagonisti sono un manichino, fantoccio ricavato con quanto di meglio la strada può offrire, avanzi e spazzatura, e un clochard avvolto in cartoni e giornali.
 

Sulla scena brilla l’eclettico Ugo Dighero nei panni di un ex-manager della Coca Cola caduto in disgrazia e, c’è spazio anche per Mr. Smith, un pupazzo, suo alter-.ego, il solo interlocutore, impassibile ascoltatore dell’unica storia che il protagonista può e sa raccontare, quella della sua vita che si intreccia con momenti clou della storia americana.

La giornata che si dipana davanti ai nostri occhi è quella del 10 settembre 2001.
 

L’homeless ci trascina in un’America dove il concetto stesso di umanità è sinonimo di superficialità, ben si sposa con quello di egoismo e fa rima con noncuranza in una girandola di no-sense sociale...

Rivolgendosi a un silente Mr. Smith, che ci assomiglia così tanto nella nostra ignavia, il monologo di Dighero ci dipinge soggetti socialmente deboli, dall’indole plastica, votata ad un'ottica d'inermità...

Dal passivismo al prevaricare sugli altri, le qualità positive le abbiamo tutte...
 

Eccoci, agli occhi del clochard-filosofo, “formichine impazzite” capaci di puntare i piedi, solo per accaparrarsi sempre il meglio della vita, anche a discapito degli altri, lottare per conquistare e tenersi stretti il posto di lavoro, pronti ad isterismi che svelano l’arrivismo dominante che non conosce limiti pur di affermare e far prevalere il proprio “io” immorale...

Niente male come ritratto socio-personale in cui tutti, più o meno, ci rivediamo.
 

Uno specchio implacabile questo Look up, America!: ci restiuisce il riflesso reale dello spaccato sociale delirante di cui siamo protagonisti...

E spara con una potenza devastante.

Da questa fotografia della nostra coscienza, non poteva che scaturire una certa istantanea di felicità...   

“Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”, recita un superbo Dighero...

Il frammento della Dichiarazione di Indipendanza americana dedicato al Diritto di tutti i cittadini alla ricerca della Felicità, entra nella storia degli States il 4 luglio 1776, e da allora non ne esce più, incarnando però principi divergenti, contrastanti, che, in conflitto esistenziale tra loro, poco o nulla hanno a che vedere con una concezione sana di Felicità...

Riteniamo che la felicità non passi per imbastire relazioni sociali significative: abbiamo una vita familiare inesistente perchè i rapporti nati all’interno sono percepiti come “dovuti”, è “banale e scontato investirci su”...


Calpestiamo le amicizie vere, autentiche, sincere, meglio usarle, sfruttarle scavalacarle per raggiungere le vette della scala sociale...

Il “bene comune”? Nemmeno a nominarlo, ignoriamo proprio cosa sia. Il benessere sociale davvero non ci appartiente...

Questa Felicità non potrebbe essere più distante da quella autentica, come una catena fatta di realtà vacue che, anello per anello, provvediamo noi stessi a forgiare...
 

“Se la Felicità non viene da questo, allora da cosa?” si e ci chiede il clochard-Dighero nel suo monologo-invettiva...

La fatwa è lapidaria e ci inchioda tutti...

Il mantra della nostra presunta Felicità o la promessa della stessa è una contraddizione infarcita di Capitalismo.
 

Siamo ossessionati dalla frenesia della vita pubblica, in cui più cose facciamo e meglio è, purchè sia abbia il massimo della visibilità e dell’apparire agli occhi degli altri...

Ci votiamo alla schiavitù del lavoro, concepito come strumento il cui unico scopo non è certo quello di crescita professionale e umana, ma di far soldi e convertirsi al Dio-Denaro...

Abbiamo sete di Potere a tutti i costi, incuranti dei compromessi più o meno legali con cui scendere a patti, e da raggiungere anche venendo meno ai principi di una vita...

“Per sentirci veramente felici siamo disposti a vivere una vita di merda” e “l’economia capitalista si basa su un equivoco di fondo: viviamo come se a morire dovessero essere solo gli altri”.

Ecco il Capitalismo-Felicità, una Felicità ambivalente, contrastante e impossibile che l'inconteniile monologo Look up, America! recitato dall’istrionico ex-top manager Ugo Dighero , ci consegna, condita dai pilastri del più fermo Capitalismo, svelando quella che sembra essere l’unica versione di felicità conosciuta dall’uomo moderno...

Il secondo atto termina sulle note di Eclipse e Breathe, dall'album dei Pink Floyd Dark side of the moon...
E il terzo si avvicina al cuore pulsante della storia che orbita intorno all’anno chiave, il 1974, carico di segni premonitori e si apre con il racconto di un episodio sulla mancanza di ascolto.

Ad un Mr. Smith ascoltatore silente, l’homeless racconta che il 15 luglio Christine Chubbuck,  presentatrice di punta di Channel 40, sconvolge l’America suicidandosi in diretta con un colpo di pistola alla testa, durante la trasmissione “Suncoast Digest”, il programma di news che conduceva tutti giorni su WXLT, l’attuale WWSB, da Sarasota, Florida.
 

Togliersi la vita in diretta tv. Atto dirompente. Decisione spizzante. Volonta totale di rottura con il mondo...

E non come avviene di solito, lontano dagli altri, soli con se stessi, nell’ombra di una dimensione privata.
Al contrario, raggiungendo il massimo della visibilità mediatica, coinvolgendo quanti più spettatori possibili, diffondendo la propria morte come valore di condivisione dell’atto estremo...

Tutto per richiamare ovviamente l’attenzione della Società...

Eppure, sentenzia Dighero, l’America il giorno dopo si sveglia turbata si, ma senza interrogarsi troppo sull’accaduto, o auto-indursi alla riflessione, pochi si prendono la briga di capire le motivazioni, i perchè potessero esserci dietro il gesto così forte, la soluzione lapidaria, all’apparenza folle, di una reporter appena trentenne in mondovisione...

Come se un suicidio in diretta televisiva non riguardasse, nè coinvolgesse la Società tutta...

D’un tratto le immagini di Christine Chubbuck s’arrestano, i riflettori si spengono di botto, capiamo che il terzo quadro si chiude, quasi in un blackout metafisico...

I fari si riaccendono nel quarto atto, puntando sul clochard-funambolo che, bombetta in testa ed ombrello in mano, è intento a camminare su una fune...

Con gli occhi della mente è facile “vederlo”, sospeso tra altezze vertiginose...

Ecco che la storia narrata raggiunge la sua catarsi massima...

Ugo Dighero ci conduce nei meandri del lontano 7 agosto ‘74, quando Philippe Petit, funambolo francese, porta a termine l’improbabile impresa di camminare lungo un cavo teso che congiunge le Twin Towers.
 

Alle 6.45, in un alba di foschia, in quella che inizia come una giornata come tante a Manhattan, l’intrepido acrobata si diletta con la sua folle passeggiata tra i grattacieli, tra lo stupore generale dei passanti che, alzando lo sguardo, strabuzano gli occhi, additano dal basso ed esclamano all’uomo sospeso a 412 metri d’altezza tra gli skyscraper del World Trade Center.

Petit, strabilia per 45 minuti la folla, dilettandosi per ben 8 traversate tra la torre sud e quella nord, tra polizia che gli impartisce di scendere, security sbalordita, alla quale pereva impossibile avesse trasportato senza essere visto sbarre di ferro, e soprattutto senza copertura mediatica...

Si, abbiamo capito bene, si e ci esorta Dighero, ora nei panni più dell’ex dirigente della Coca Cola, che del clochard...

A vedere le gesta dell’equilibrista non ci sono testimoni, se non coloro che sono immersi nella febbricitante, già iperattiva Manhattan e, per caso, sollevano lo sguardo al cielo. Nessun giornalista allertato per riprendere o documentare l’impresa, niente clamore mass mediale tra stampa, radio e tv, nè il gesto è anticipato da lanci pubblicitari, l’uomo non era con nessuna etichetta...

“Dunque -riflette il nostro cantastorie- il funambolo aveva rischiato la vita per cosa?”

Nell’andirivieni di Petit non c’è alcun desiderio di apparire, intento di spettacolarizzazione, di legare la sua impresa a fini di marketing...

E’ solo una sfida privata lanciata a se stesso, alla propria esistenza.

Quando scende dalla sua avventura aerea, viene arrestato, condotto in un ospedale psichiatrico, e il giorno dopo le copertine dei media sono per lui, ma la sua impresa verrà immediatamente scavalcata dallo scoppio del caso Watergate, l’8 Agosto 74 infatti il presidente Richard Nixon fu costretto a dimettersi in seguito allo scandalo che lo travolse...
 

Il quarto atto si chiude con un “nulla di fatto”, un’esistenza magra e vana di un’Umanità equilibrista, disposta a muoversi con ritmi febbricitanti, in bilico sull’eterna fune della precarietà perdendo di vista valori della Vita vera... "Per cosa?" E' la domanda che riecheggia... 

Il filo della memoria si riavvolge intorno al personaggio-Dighero che, nel quinto ed ultimo quadro, svestendo i panni del funambolo, si riappropria di quelli del barbone illuminato quale è, e ci racconta come, intorno all’atto prorompente di Philippe Petit, si ricomponga il puzzle della sua coscienza.

Se per tutti il peregrinare di Petit si traduce in un gesto folle, l’unico ad averne compreso la reale entità sembra essere il dirigente della Coca Cola, che per questo cambierà vita...

Siamo rapiti dai toni solenni, quasi gravi, le sfumature profonde, perchè vissute, con le quali parla un Dighero, alias l’ex top-manager della multinazionale d’impatto, autodefinendosi un uomo “completamente abbagliato dal Sogno americano, dalla promessa della Felicità che lui stesso aveva contribuito a creare, dalla vendita-svendita degli ideali come fossero spazi pubblicitari”.
 

Il manager rinato scopre in se stesso la vera chiave della vita, ossia una separazione da tutto quello per cui finora aveva lottato: il lavoro, la famiglia, gli amici, il suo stesso nome.

Per ventisette anni quell'uomo conduce una vita volutamente immobile, fermo a guardare tutte le formichine umane che corrono qua e là, indifferenti l'una verso l'altra e inconsapevoli della vacuità delle loro aspirazioni.
 

Queste le riflessioni con le quali si congeda l’homeless, riavvolgendosi nel cartone che lo ospita per la notte... E’ termina la giornata del 10 settembre 2001...
 

La radio scandisce bene la data, siamo alla vigilia dell’atto che cambierà il volto dell’America.
 

Dopo l’indifferenza per il suicidio di Christine Chubbuck, la noncuranza del gesto di Philippe Petit, l’ultima denuncia al non-ascolto è l’attentato alle Torri.

Ecco la chicca ultima. Il tassello finale che chiude il monologo. La Storia che si ripete: interpretando i segni premonitori, la tragedia delle Twin Towers, forse poteva esser evitata.

Con Look up, America! scopriamo che i Mr.Smith-fantocci, siamo tutti noi quando ci rendiamo inetti ai cambiamenti, inermi di fronte alla superficialità che ci circonda, incapaci di riconoscere e di far nostri i reali valori della vita...

Questa lezione sull’esistenza dalla quale abbiamo la sensazione di uscire arricchiti sul piano umano ci svela che possiamo scegliere di essere funamboli, avere cioè il coraggio di camminare sul filo della precarietà, rischiare se necessario di mettere in gioco le nostre false certezze, affrontare un'esistenza altra...

Come? Senza essere bandiere al vento. Quando decidiamo di mordere la vita, prendercene in carico tutte le incomenze e comportarci in maniera coerente con la nostra coscienza.

 

i-Italy ha poi chiesto un’itervista sia a Marco Melloni che a Ugo Dighero, regista e monologhista di Look up, America! che gli autori ci hanno regalato, contribuendo ad impreziosire ancor più l’emozionante performance teatrale.

Look up, America! è un tripudio di riflessioni... Quale è stata l'idea iniziale che ha "dato il là" al monologo? Da cosa avete preso spunto, a cosa vi siete ispirati nella stesura del testo?

Marco Melloni L’idea del monologo è nata come una folgorazione il 12 settembre del 2001. Qualche anno prima avevo letto il “Trattato di Funambolismo” di Philippe Petit e nei giorni terribili che sono seguiti all’attentato al World Trade Center la sua figura onirica, allora infatti non sapevo che faccia avesse, ma sapevo che cosa aveva fatto, continuava ad andare avanti e indietro nella mia mente, sospesa nell’agghiacciante vuoto di Ground Zero. Della sua camminata tra le Torri Gemelle, quasi trent’anni prima, l’America aveva perso memoria, e con lei anche il resto del mondo. Di quel gesto così sublime ed effimero non restava che il vuoto, immenso e surreale che lui aveva sfidato e vinto. Nient’altro.

Così ho immaginato che si potesse affrontare quella tragedia immane in un modo poetico, colmando gli spazi lasciati con la storia. Li abbiamo riempiti con il racconto archetipico ma immaginario di un uomo che è riuscito a scorgere nell’impresa del funambolo, il 7 agosto del 1974, i segni profetici dell’imminente caduta.  Il suo unico interlocutore è un manichino, Mr. Smith, costruito con gli scarti del Sogno Americano.

Ugo Dighero L’“illuminazione” è tutta di Marco Melloni.  Da tempo stavo cercando di costruire un testo che parlasse dell’esigenza di un radicale cambio di comportamenti dell’uomo nei confronti della sostenibilità e quindi della sopravvivenza. Look up, America! contiene in sè questi temi, e ho sposato subito il progetto perchè li affronta con sfumature di leit motiv che sa di sentimento...

I due protagonisti di Look up, America! sono quanto di più insolito si possa immaginare: Ugo Dighero interpreta il top manager per eccellenza, l'uomo-marketing, il guru della comunicazione improntata alle vendite, solo all'apparenza caduto in disgrazia dopo aver assistito alla performance di Philippe Petit, poiché in realtà molla tutto e decide di vivere al di là, lontano dalla giungla patinata di Wall Street...

Mr. Smith è il manichino che divide con lui il marciapiede sotto le Twin Tower. Chi simboleggia?

Marco Melloni L’homeless che racconta ogni giorno inascoltato l’impresa di Philippe Petit è un precursore della “decrescita felice” teorizzata da Serge Latouche, dice di essere arrivato preparato all’appuntamento con il Nuovo Millennio: “Ho le pezze al culo da tempi non sospetti, io!”. Quel mattino d’agosto di trent’anni prima lui c’era, era sotto le Torri col naso per aria, e in quel momento si rende conto che anche lui sta camminando sul filo, sottile e teso fatto di promesse, speranze, illusioni che rimarranno tali, non si realizzeranno mai, perché non c’è nessun premio alla fine della traversata...

Un filo destinato a spezzarsi, prima o poi, e farlo precipitare nel vuoto. La bellezza effimera dell’impresa del funambolo costituisce per lui un presagio di morte, lo stesso funesto pensiero che Petit stava cercando di nascondere con la grazia e la sicurezza dei suoi movimenti, così come la Civiltà dei Consumi cerca in tutti i modi di farci dimenticare la nostra impermanenza, ammaliandoci con la promessa della felicità...

Che cosa accadrebbe al Sogno Americano, e a quello che chiamiamo “il nostro stile di vita”, se ci aggiungessimo una sana consapevolezza della morte?

Mr. Smith è il golem che prende vita con gli scarti del Sogno Americano, è l’uomo nuovo costruito con la roba vecchia, destinato a tornare di moda perché i cicli della storia si ripetono, come le mode, e sarà così all’infinito finché non impareremo dai nostri errori, come diceva Santayana “chi non sa ricordare il passato è destinato a ripeterlo”.

Mr. Smith è il totem del tempo ciclico, destinato a sopravviverci e a restare su quel marciapiede per sempre.

Ugo Dighero In realtà entrambi i personaggi rappresentano tutti noi. Il barbone è un uomo che ha finalmente ampliato il suo orizzonte, che ha sposato il punto di vista. Ha realizzato con consapevolezza la follia della quotidianità che ci circonda e ha reagito in modo estremo. Al tempo stesso è un monito per tutti noi perché ci mostra quale condizione ci attende se non modificheremo il nostro modo di vivere.

Mr Smith assume fattezze umane ma in realtà è a pezzi, è una forma senza contenuto. Indifferente a tutto quello che gli succede intorno. Sordo, fermo, rigido. Non vi ricorda qualcuno? Noi...

La concezione della felicità, di cui il cuore vibrante s'esprime e ci affascina nella Dichiarazione d'Indipendenza americana, assume i connotati di smanie, frenesie, isterie che svelano in realtà come la promessa della stessa sia condita solo d'aspirazioni capitalistiche...

Marco Melloni La “promessa della felicità” è la carota in fondo al bastone, è ciò che ci fa alzare presto la mattina e ci fa correre per avvicinarci al nostro ideale di soddisfazione che siamo destinati a non raggiunger mai perché non ci siamo dati un limite, quindi non possiamo sapere quando sarà arrivato il momento di fermarci a riposare.

Il sogno del progresso illimitato, come scriveva Fromm, si è dimostrato una chimera, un mesmerismo che ci fa essere ogni giorno più disumani, perché è in contrasto con le leggi stesse che regolano la natura, nell’impossibilità di realizzare il moto perpetuo: è arrivato il momento di ammettere a noi stessi che da questa crisi non usciremo, a prescindere da quello che ci dicono le sirene del libero mercato...

Ugo Dighero Il problema non è il capitalismo in sè e le sue promesse...
 

Oggi le multinazionali chiudono le aziende nel proprio paese per sfruttare condizioni di lavoro disumane nei paesi dove è possibile farlo. Il mondo della finanza è ormai totalmente disumanizzato e non può che condurci alla catastrofe...

Comunque preferisco le esagerate promesse all’americana ai ridicoli professionisti della promessa all’italiana.

Dagli States all'Italia la correlazione è diretta. Ritratto e anima del Capitalismo statunitense sono specchio della società italiana odierna votata al consumismo?

Marco Melloni Il “mercato globale” sta annullando le distanze, le distinzioni tra le diverse culture del mondo stanno scomparendo, viviamo le stesse angosce, l’instabilità è mondiale, le ricette per affrontarla prescindono dalle peculiarità delle singole nazioni e dalla nostra stessa volontà, il sistema è fuori controllo e purtroppo ormai è tutto collegato, l’effetto farfalla teorizzato da Lorenz sembra avere un applicazione quotidiana nelle fluttuazioni di Borsa: un battito d’ali in Giappone provoca una catena di licenziamenti a Pomigliano d’Arco.

Non dimentichiamoi che il modello di sviluppo che stiamo perseguendo in Italia è stato finanziato col piano Marshall...

Ugo Dighero Negli States ci sono grandissimi contrasti, eccessi e anche grandi voli. E’ probabilmente una nazione che deve ritrovare se stessa, ma con grandi potenzialità.

In Italia da decenni copiamo solo il peggio di quello che ci viene dall’America.

Siamo morti parecchio tempo fa scimmiottando la nazione più pre-potente del mondo.

Loro hanno i razzisti del Ku Kluz Klan, e noi i seguaci di Borghezio, va bene.
Ma provate a fare un falso in bilancio negli States: ti incarcerano buttando la chiave...

Il trance finale del monologo è emblematico: il gesto spettacolare di Petit, dopo il clamore iniziale si dissolve in una bolla di sapone, complici le cronache d'attualità di un Presidente, Nixon, travolto dallo scandalo Watergate, la crisi economica incombente, la disoccupazione crescente, l’inflazione alle stelle, la disastrosa politica estera…

Il clochard nel suo racconto dopo 27 anni, ai piedi di Wall Street, alla vigilia dell’11 settembre 2001, porta alla luce una situazione politica pressoché identica con George W. Bush alla Casa Bianca, il crollo della New economy, le politiche ambientali disattese, le discriminazioni tra le minoranze...  

Tutto cambia perché tutto rimanga come prima, sembra essere il mantra portante...

Marco Melloni La prosa è sempre più forte della poesia: vivremmo in un mondo migliore se riuscissimo a invertire questo rapporto di forze. Sì, Petit restò sul trono più alto del pianeta per poche ore, poi le dimissioni di Nixon - un evento che non era mai accaduto nella storia degli Stati Uniti d’America – gli rubano la scena e il funambolo si avvia verso un lungo oblio della Storia. Fino a quando gli eventi tragici dell’11 settembre 2001, cancellando anche quel poco che è rimasto del suo incredibile gesto (una firma sulla trave da cui era partito per la sua camminata tra le nuvole), non lo fanno tornare paradossalmente protagonista.

La sua vicenda è paradigmatica: è un mito moderno, in essa c’è un grande insegnamento per chi riesce a spostare, anche solo di pochi gradi, il suo punto di vista sul mondo.

“Look up, America!” riesce a sorprenderci ogni giorno, perchè lo sentiamo sempre più necessario, più attuale...

Inizialmente l’ho scritto pensando di affrontare la crisi prodromica che gli Stati Uniti stavano attraversando alla vigilia dell’attentato alle Twin Towers parlando di un’altra crisi, quella del 1974, che è praticamente speculare: crollo dei mercati, inflazione galoppante, disoccupazione a due cifre, il prezzo del petrolio alle stelle, alla Casa Bianca un Presidente senza alcuna legittimazione popolare, l’esercito americano impantanato su diversi fronti…

Portandolo in scena, con Ugo ci siamo resi conto che in realtà stavamo parlando di oggi, della crisi strutturale del capitalismo che stiamo attraversando e dalla quale usciremo dandoci nuove regole, cambiando punti di vista, mutando scala di valori.

Ugo Dighero Il materialismo estremo a cui ci ha trascinato un capitalismo malato ha il grande potere di distrugge la sensibilità delle persone rendendole grette e acide, impossibilitate a riconoscere il valore simbolico di un gesto come quello del funambolo francese.

Come ben ci spiegano gli scienziati che da anni studiano i limiti dello sviluppo, questi corsi e ricorsi delle crisi economiche e politiche sono fasi che si ripeteranno sempre più di frequente e, ad ogni giro che completiamo, siamo più imprigionati nel gorgo

Dall’uomo di Cro-Magnom agli anni 70 l’uomo è cresciuto fino a raggiungere i tre miliardi di individui. Da quando io bevevo una spuma al ginger per 50 lire ad oggi siamo diventati 7 miliardi… c’è qualcosa di letale in tutto ciò.

Gli States ieri hanno votato e riconfermato il primo presidente nero democratico, Obama, l'Italia che posizione prenderà tra qualche mese, quando si terranno le nostre elezioni?

Marco Melloni Nel nostro paese stanno agendo due forze contrarie: una che cerca di mantenere l’ordine costituito e un’altra che spinge verso l’entropia. Alla tua domanda potrei rispondere con un aforisma di Marcello Marchesi del 1971: “Ma procediamo con disordine. Il disordine dà qualche speranza. L'ordine nessuna. Niente è più ordinato del vuoto”.

Ugo Dighero La parola “rieleggere” dovrebbe essere tolta dal vocabolario italiano. ..

Noi, a forza di "rieleggere" abbiamo costruito su questo "non-revisionismo" intere classi politiche... Siamo un paese mummificato

Gli stranieri devono percepire il nostro paese in modo molto curioso. Pensate se a proposito dei francesi si parlasse ancora di Charles De Gaulle al potere, di Helmut Kohl per i tedeschi e così via. 

Spero arrivi uno Tsunami politico, non è possibile riformare una classe dirigente costituita da maschere della commedia dell’arte.

La tournèe della pièce teatrale è alla sua seconda stagione in giro per l'Italia. Pensate di esportare Look up, America! nei teatri indipendenti newyorkesi?

Marco Melloni Sì, abbiamo questo grande sogno: è la nostra carota in fondo al bastone...

Ho già preso accordi per la traduzione. Il problema è che Ugo sta allo Shenker Institute come Renzo Bossi detto il Trota sta alla Normale di Pisa.

Ugo Dighero Si, siamo molto curiosi di vedere come accoglierebbe “Look up America” la Grande Mela. Io poi ho appena scavallato la “Lesson two” e sono in grado di dire con grande naturalezza: “Is this your handbag?”

Avete già affrontato traversate transoceaniche a New York con il vostro progetto “Voci nel Deserto”. Ci raccontate in cosa consiste?

Marco Melloni “Voci nel Deserto” è un movimento di circa 150 tra artisti e professionisti della comunicazione che porta avanti da quattro anni, come impegno civile, “La raccolta differenziata della memoria”, ovvero il recupero delle parole profetiche di chi ha saputo leggere, negli eventi della sua epoca, ciò che avremmo vissuto nel nostro tempo.

I “frammenti di memoria” sono stati catalogati e raccolti in un archivio in progress che oggi conta più di 500 testi. Assemblando questi frammenti e associandoli a suoni e immagini del presente prendono vita performance, rave teatrali, flashmob e attività formative nelle scuole: azioni di teatro civile gratuite per il pubblico, volontarie e anonime per chi le realizza, replicate da gruppi sorti spontaneamente in tutta Italia e all’estero.

In quattro anni di attività sono stati portati in scena più di 80 copioni differenti tra Roma, Milano, Catania, Ravenna, Bologna, Rimini, Cosenza, Bergamo, Parigi e New York, happening che hanno coinvolto circa 20mila spettatori.

E’ un nuovo modo di intendere la cultura come Bene Comune, un modello che riusce a superare le logiche di mercato sposando la filosofia della libera condivisione dei saperi, verso quella che Rifkin ha teorizzato come la “Civiltà dell’Empatia”.

Ugo Dighero L’essenza di Voci nel deserto è tutta nel titolo.

In un paese privo di memoria diventa importante far rivivere le parole di grandissimi autori che hanno letto in maniera così lucida la debolezza umana. In questo periodo storico l’operazione si fa “nel deserto”, dove non ci sono ascoltatori possibili.

Lo scopo quindi non è la divulgazione che è diventata un’impresa irreale, ma la sopravvivenza delle “voci” parlanti...

Una terapia monodose singola per sopravvivere trovando senso.

Se durante la seduta qualcuno rimane contagiato è l’eccezione che conferma la regola.

Non sembra ma, oggi come oggi, è già un risultato straordinario...

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