Com’è fatto il verbo essere?
Sono – ero – fui – sarò – essere – stato.
Sono tutte voci di uno stesso verbo: del verbo essere della lingua italiana.
Sono – ero – fui – sarò, sono le prime persone dei “tempi semplici” del modo “indicativo”: sono, è presente; ero, imperfetto; fui, passato remoto; sarò, futuro semplice. Questi tempi verbali sono definiti semplici perché le loro voci sono formate da una sola parola. Mentre i tempi composti hanno o due o tre parole come, ad esempio: “ero stato”, oppure “ero stato visto”. I tempi semplici sono quelli che nel loro modello di flessione (io …, tu …, egli …; ecc.) contengono solo forme (quelle che si chiamano: voci del verbo) di una sola parola (è questo il vero significato di semplice: costituito da un solo elemento); perciò le possiamo definire “morfologicamente strutturate”. So voci, cioè, che in un’unica parola – scusate se lo ripeto – contengono tutti gli elementi significativi (radice verbale, caratteristica temporale, desinenza personale). Gli altri sono i tempi composti.
Le voci dei tempi composti, essendo formate col sostegno del verbo ausiliare (essere, avere, e qualche altro verbo copulativo) in unione ad un participio, contengono – evidentemente – più di una parola; nel caso del verbo essere, per restare nell’ambito dell’indicativo: sono stato, ero stato, fui stato, sarò stato sono le prime persone; poi seguono le relative flessioni. Dal punto di vista del significato i tratti semantici sono ricavati dal participio (il significato stesso del verbo + l’idea dell’azione compiuta), mentre le altre indicazioni (tempo e persona) sono ricavabili dalla voce del verbo ausiliare. Queste voci composte si chiamano anche voci perifrastiche e si contrappongono a quelle morfologicamente strutturate.
La perifrasi, più in generale è quella figura retorica per cui il parlante, in maniera del tutto originale crea una forma espressiva di più parole in sostituzione di una parola della lingua, o esistente, oppure mancante nei modelli analogici (flessioni dominale e verbale). Ma nella integrazione dei modelli paradigmatici (le flessioni) la perifrasi diventa necessità della lingua ed entra come capito specifico nei trattati di grammatica; perciò si preferisce chiamare perifrastiche (cioè formate da più di una parola) le voci dei tempi composti del verbo. Ma mentre nella coniugazione attiva, da come sono organizzate le rappresentazioni visive degli schemi, la differenza tra tempi semplici e tempi composti è evidente, nella coniugazione passiva, invece, pur mantenendo i tempi lo stesso nome e la stessa classificazione tutte le voci verbali sono esse perifrastiche. Infatti nella lingua italiana il verbo passivo presenta solo voci perifrastiche: cioè, anche nella formazione dei tempi che si continuano a chiamare “semplici” viene usato l’ausiliare “essere” (oggi per influsso della lingua tedesca anche il verbo venire) in unione col participio passato. Ciononostante continuiamo a chiamarli tempi semplici, per amor di simmetria. Mentre i tempi composti presentano tre parole (Es.: “sono stato visto”).
Ma torniamo al verbo essere.
Essere, è l’infinito presente. Stato, il participio passato. Potremmo aggiungervi anche “ente”: strutturalmente è il participio presente. Ma questa forma è usata solamente come nome sostantivo.
Allora, se essere, sono, ero, sarò, sia, fossi, stato, sono tutte voci del verbo essere, qual è la radice che le accomuna?
Intanto è evidente che fu- (di fui, fossi, ecc.) e stato hanno diversa derivazione, per cui le radici di essere sono tre: es-, fu-, e sta-.
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