L'universo americano di Cesare Pavese

Francesca Di Folco (July 16, 2013)
L’Istituto Italiano di Cultura a New York ricorda Cesare Pavese, ospitando una lectio magistralis in occasione della ristampa de La luna e i falò con la collaborazione della Professoressa Francesca Parmeggiani, docente presso la Fordham University nel Bronx, moderatrice dell'evento

Herman Melville, Walt Whitman, Sherwood Anderson, Sinclair Lewis, O. Henry e alla lista si aggiunga anche l’irlandese Joyce, sono solo alcuni degli autori americani che Cesare Pavese ebbe la bravura di tradurre nella sua carriera. 

  

Moltissimi altri come Hemingway, Lee Masters, Cummings, Lowell, e la Stein furono analizzati dal nostro perché ritenuti pietre miliari, pilastri fondanti, radici vive permeate della cultura e perpetranti nella letteratuta americana...

Studi che Pavese approfondì fino a divenire membro del comitato direttivo della rivista "La Cultura", per cui scrisse il primo saggio sull'autore di BabbittSinclair Lewis, iniziando così la serie detta "Americana".

Al 686 di Park Avenue, sede dell’Istituto Italiano di Cultura, la prof.ssa Francesca Parmeggiani, docente presso la Fordham University nel Bronx, ci ha condotto lungo un viaggio affascinante nella vita di scrittore, traduttore ed insegnante di Pavese e fra le opere più rilevanti tra cui spicca quella che da il titolo all’incontro, La luna e i falò.

 

L'interesse di Pavese per il mondo americano nasce presto: già negli anni dello studio universitario tra il 1926 e il 1930 infatti il futuro scrittore predilige film d’avventura americani, si distingue come intenditore dell'arte di attori, attrici, registi fino ad arrivare a scegliere come tesi di laurea, l'analisi della poesia di Walt Whitman.
 

Sempre in quegli anni inizia la sua attività di traduttore: tra gli scrittori americani il prediletto era Herman Melville di cui, per un compenso di 1000 lire, tradusse Moby Dick.
 

Nel 1931 a Firenze vede la luce la sua prima traduzione con relativa recensione: si tratta del romanzo "Il nostro signor Wrenn" di Sinclair Lewis, primo autore americano ad avere ottenuto il premio Nobel nel '30.

Fu la volta di "Riso nero" di Sherwood Anderson per il quale scrisse un saggio e ancora de "La Cultura", poi di un articolo sull'Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry.

Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e The Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce.

Francesca Parleggiani ci racconta di una febbrile attività del Pavese traduttore...

Il mestiere di traduttore ha una grande importanza non solo nella vita di Pavese, per ciò che concerne la sua crescita in ambito letterario, ma per tutta la cultura tanto da aprire uno spiraglio ad un periodo nuovo nella narrativa italiana.

Nei primi due articoli di recensione alle opere di Lewis e Anderson risulta chiara la ricerca di Pavese: nel primo, infatti, lo scrittore pone in rilievo quelli che ritiene i due meriti più grandi di Lewis, cioè la provincializzazione dei personaggi e l'utilizzazione della nuova lingua americana, lo slang e pone l'enfasi sulla ricerca della provincia, innesto della lingua parlata nella scritta, rottura con la tradizione accademica nazionale. 

Nel secondo lavoro su Anderson Pavese propone un parallelismo fra l'Italia e l'America, nel senso che ciò che gli italiani, e soprattutto i piemontesi, hanno tentato invano di fare, cioè raggiungere l'universale attraverso la scoperta e l’approfondimento dei caratteri regionali, gli scrittori americani sono già riusciti a metterlo in atto.

Pavese afferma che nei romanzi americani è indicata la via da seguire anche per i letterati italiani...

Dall'amore per la traduzione a quello per sfumature e gherghi ben definiti...

L'analisi su Pavese si fa sempre più speculare e minuziosa specificando l'enfasi che l'autore pose  sullo slang... 

 

L'aspetto più innovativo è l'introduzione nei romanzi proprio dello slang che risulta elemento unificante dal punto di vista linguistico, poiché era "la lingua volgare parlata da tutti in contrasto con l'inglese colto e aulico insegnato nelle scuole". Il lavoro di ricerca linguistica portato avanti dagli scrittori americani si era rivelato ben più proficuo di quello intrapreso dall'Italia, dove la grande frammentarietà dei dialetti ostacolava l'utilizzo di un linguaggio quotidiano comprensibile a tutti.

Ad un amico italoamericano, Antonio Chiuminatto, Pavese scrisse: "Ora io credo che lo slang non è una lingua distinta dall'inglese come per esempio il piemontese dal toscano... Lei dice: questa parola è slang e quest'altra è classica. Ma lo slang è forse altra cosa che il tronco delle nuove parole ed espressioni inglesi, continuamente formate dalla gente che vive, come lingue di tutti i tempi? Voglio dire, non c'è una linea che possa essere tracciata tra le parole inglesi e quelle dello slang come tra due lingue diverse..."

 

Dalla critica letteraria ora il piano della lectio magistralis ora si sposta sulle opere di Pavese concentrandosi su una in particolare La luna e i falò...

 

Il romanzo si apre con le riflessioni del narratore e protagonista, Anguilla, che, nelle vesti di io-narrante, spiega le ragioni del suo ritorno nelle Langhe piemontesi dall’America, ripercorrendo la storia della sua vita, dal momento in cui la madre lo ha abbandonato sugli scalini del duomo di Alba. Il ritorno diviene fonte di ricognizione della propria infanzia, alla ricerca costante di radici e delle proprie origini.

 

Questi due temi nodali de La luna e i falò, il mito delle origini e l’infanzia, sono la chiave per comprendere a fondo la narrativa di Pavese, ma il desiderio di rincongiungersi alla propria fanciullezza viene ostacolato dallo scorrere del tempo, che allontana sempre di più l’uomo da questa età felice. Il ritorno quindi diventa un confronto inevitabile con i cambiamenti subiti dalla realtà:

“Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parte del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati. la macchia di noccioli sparita, ridotta a una stoppia di meliga [...] Non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire che era tutto finito [...] mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti".

 

Ma questo ritorno porta Anguilla anche ad interrogarsi sulla sua condizione di orfano e sulle sue origini, ciò che la sua riflessione evidenzia è l’assenza di un luogo natale, a cui sentirsi attaccato:

“Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire ‘Ecco cos’ero prima di nascere’ [...] chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”.

 

Il protagonista sembra sentire il bisogno di identificarsi in un luogo, ma dall’altra sente anche il desiderio della scoperta e della novità, come afferma il protagonista stesso:

“C’è qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo è rotondo e avere un piede sulle passerelle”.

 

Ed è in questa celebre frase che Pavese riesce a riassumere la natura contraddittoria di Anguilla, che rappresenta l’alter ego dell’autore, tra il desiderio irrealizzabile di ritorno alle origini e il bisogno di novità e cambiamento:

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Parallelismi con lo stile americano? La Prof.essa Parmeggiani ne scorge davvero tanti...

Il linguaggio di periodi brevi, asciutti, dalla semplicità solo apparente, certamente affini alle scelte linguistiche della letteratura americana, conduce Pavese ad una scrittura "epica e solenne" che risente del legame con la tradizione classica italiana.

Eppure questa similarita' di stile conduce ad una fondamentale differenza di situazioni storiche: se il problema degli autori americani era quello di dare un linguaggio, una maturità nuova all'America del loro tempo, una nazione in cerca di se stessa, di un Paese alla ricerca di una sua tradizione, Pavese invece aveva saldamente questa tradizione, e talvolta in maniera opprimente, alle spalle.

 

In possesso di una perfezione formale di tradizione, il suo problema artistico non era quello di inventare, sotto diverse e più contemporanee forme, questa tradizione, ma di inserirsi in essa, di ripeterla nella propria vicenda. Nel linguaggio non poteva contare su quel fortissimo organismo linguistico che è lo slang americano, una sorta di parlata media estesa per tutto il gran corpo della nazione, ma si ritrovava, come Verga, alle spalle una ufficialità letteraria e negli antipodi la realtà viva della tradizione locale e dialettale.

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