BOSI. Storia di una famiglia, un uomo e una galleria

Diana Del Monte (April 18, 2012)
La lunga strada di Sandro - terza generazione di galleristi romani - verso la BOSI Contemporary a New York. Questo giovedi apre, presso la sua galleria newyokese, la seconda collaborazione con il curatore Renato Miracco per la mostra dedicata a Laura Ann Jacobs e Benedetta Bonichi, intitolata: EROS AND THANATOS"

Downtown Manhattan. Al 48 di Orchard Street c’è la BOSI Contemporary di Sandro Bosi, erede di terza generazione di una famiglia di antiquari romani.

Dalla città eterna, dove la sua galleria ha saputo coniugare con successo contemporaneo ed antico, alla Grande Mela metropoli per eccellenza dell'arte e del design.  Siamo andati a trovarlo.

Ci accoglie subito con un suggestivo suo ricordo: “Lavorare negli Stati Uniti fa parte della storia della mia famiglia. Ho uno zio, fratello di mia madre, che vive in Connecticut e una cugina che vive in Florida. Quando ero piccolo, mia madre seguiva un corso di inglese perché voleva raggiungere il fratello ed io restavo seduto in fondo all'aula a guardare. Stare in quella classe mi ha dato familiarità con la lingua, non che abbia veramente imparato l'inglese, ma mi ha allenato l'orecchio al suono della nuova lingua e soprattutto mi ha dato lo slancio per impararla da adulto. Insomma, lo slancio verso gli Stati Uniti viene da questi ricordi d'infanzia. Lavorare qui, invece, nasce da tutta un'altra storia.”
 

Ed ecco un pò della sua storia.

 “Dopo essermi laureato in Economia, ho lavorato per tre anni in una societa americana che si occupava di ristrutturazioni aziendali. Viaggiavo in Business Class, guadagnavo molto bene, ma dopo tre anni sentivo che mi mancava qualcosa e cosi ho deciso di tornare a Roma, a fare quello che era il “mestiere di famiglia”. Undici anni alla Bosi Art Center, che era di mio padre. Abbiamo lavorato tutti e tre insieme, io, mio padre e mio fratello, fino al 2000."

E quando e come e successo che Sandro Bosi antiquario e diventato Sandro Bosi gallerista di arte contemporanea?

"Nel '96, abbiamo deciso di aprire una galleria a Montecarlo e li ho avuto occasione di conoscere alcuni coetanei che avevano opere  di maestri impressionisti o del novecento. Il periodo monegasco, insomma, ha dato l'avvio alla contaminazione. Ho iniziarto ad interessarmi all’Espressionismo, alle prime correnti del '900, le avanguardie storiche, Picasso ecc. Cosi, dopo la chiusura della galleria monegasca, sono tornato a Roma e nella sede che avevo in via del Babbuino il Salvatore Emblema ha iniziato ad accompagnare i pezzi del '500 italiano, francese e tedesco e un mobile marocchino giaceva tranquillamente accanto ad un Oliviero Rainaldi.
 

Nel frattempo sono successe diverse cose. Ho iniziato una collaborazione con l'archivio Balla; siamo venuti a New York, al MoMA, a studiare ed archiviare tutte le mostre del MoMA sui futuristi. Intanto, il proprietario di una collezione 800esca italiana che stavo comprando mi chiede di aiutarlo con un suo problema inerente una scultura di Alberto Giacometti. Una lunga storia di autentuicazione che aveva portato la statua sotto processo ed il proprietario sfinito dalle vicissitudini che ancora non gli avevano consentito di ottenere il certificato di autenticità. Per questo mi chiedeva aiuto.

Io non ero un esperto di arte contemporanea, ma volli comunque provare ad ottenere un risultato. Due anni e mezzo dopo sono riuscito a far autenticare l'opera. Infine, in quel periodo ero riuscito a rintracciare un bassorilievo policromo di Gauguin perduto e a comprarlo.

Insomma, il lungo studio dedicato a Giacometti e queste ed altre esperienze su cui non mi dilungo troppo, l'Italia cominciava a starmi un po' stretta. Cosi, quando questo ragazzo di 28 anni (Nikola Damjanovic), con un'intelligenza e una preparazione straordinaria mi chiede se voglio aprire una galleria a New York insieme a lui, colgo l'occasione. Dopo sei mesi ero qui a New York e dopo altri sei mesi avevamo aperto la 'BOSIDAMJANOVIC Gallery'.
 

Dopo breve, però, le nostre diverse prospettive sono andate in collisione; fortunatamente abbiamo risolto amichevolmente la questione e, a gennaio, e nata la BOSI Contemporary."

La BOSI Contemporary ha aperto ufficialmente a gennaio e sul sito è possibile leggere una dichiarazione d'intenti molto precisa, ovvero ospitare almeno sei mostre l'anno. Puoi spiegarmi bene questa progettualità?

"In realtà si tratta di un vero e proprio calcolo sulla carta: nove mesi effettivi di lavoro e circa quarantacinque giorni da dedicare ad ogni evento. Nella pratica, durante questo primo anno ho lanciato diverse mostre e le ho fatte durare un mese invece che un mese e mezzo. A settembre, poi, vorrei fare una mostra storicizzata. Un progetto importante, è il motivo per cui sono stato a Parigi."

 

Ovvero?

"Dovrei riuscire ad organizzare una mostra di Jesus R. Soto. Ho già accesso a due opere importanti e ad un video molto bello e sono attualmente in contatto con la curatrice della mostra che è stata ospitata questo inverno dalla Grey Gallery Soto: Paris and Beyond, 1950–1970. Una mostra davvero molto interessante.

Il mio intento è quello di dare spazio tanto al nuovo, ai giovani artisti, quanto a mostre storicizzate come questa di Soto; in questo modo, chi non mi conosce può intuire il livello dei nomi nuovi, ed investire nella loro arte, attraverso la qualità della mia selezione di artisti più conosciuti."

 

A proposito dei nuovi emergenti, come cerchi e, di conseguenza, come hai trovato artisti come Max Glasser e Dean Dempsey?

"Quando sono arrivato a New york ho messo a disposizione della galleria U.S.A. i programmi ed gli artisti della galleria romana. Tuttavia, una cosa che non volevo proprio fare era il gallerista italiano che porta la sua galleria italiana a New York, presentando solamente artisti italiani. Nel 2012 questo approccio sarebbe fallimentare e, in realtà, lo sarebbe stato anche molto prima del 2012. L'arte contemporanea richiede un linguaggio contemporaneo.
 

Così, sono andato in giro per le università, quando a fine anno si presentano i lavori dei neolaureati e laureandi, per vedere cosa succedeva. Per ora ho trovato solo Max (Glasser), ma sto selezionando altri artisti proprio adesso.
 

Inoltre, dopo che io e Nikola (Damianovic, il primo socio di Bosi) abbiamo aperto a settembre, è venuta la direttrice di un prestigioso istituto: il Location1 di New York e, dopo aver visto la galleria, mi ha chiesto di far parte del comitato direttivo dell'istituto, per fare strategia insieme. Il fatto di essere collegato ad un'istituzione newyorkese mi da accesso ad artisti nuovi, che tra l'altro coprono tutti i settori e provengono da ogni parte del mondo. Ed è così che, man mano, sto facendo la mia selezione di artisti. La stagione di settembre per esempio aprirà con un artista francese e, dopo di lui, vorrei aprire la mostra di Soto di cui abbiamo parlato prima.

E nel frattempo, cosa sta succedendo alla tua galleria romana (Sandro Bosi ha da diversi anni una galleria, la Bosi Artes, in via Pinciana a Roma)

"La mia galleria di Roma è affidata ad una ragazza bravissima che durante il suo dottorato in Storia dell'Arte ha collaborato con la collezione della Farnesina. Dopo un anno e mezzo di training le ho affidato sia organizzazione che amministrazione. Sai, intendo mantenere la mia presenza in Italia perché, devo confessare, che lo spessore che trovo negli artisti italiani è maggiore di quello che trovo qui; vorrei portarne alcuni qui. Tuttavia, non mi lego particolarmente, penso di dover sempre tenere gli occhi aperti per capire cos'è e dov'è il meglio."

Quindi il tuo rapporto con New York non è affatto scontato e necessariamente duraturo.

"Sono qui perché ritengo questa città la migliore per il mercato dell'arte e per il modo in cui viene trattata l'arte."

In che senso?

"C'è tanto rispetto per ogni tipo di espressione artistica, poi se viene comprata o meno e un altro discorso, pero c'e tanto rispetto."

Lo scorso 25 marzo hai ospitato una performance legata alla precedente mostra MUTATIO. Dal 2010, inoltre il MoMA ha modificato il nome di uno dei suoi dipartimenti da Department of Media in Department of Media and Performing Art. Cosa pensi delle performance nell'ambito delle arti visive?

"La mia personale condizione di crescita mi ha tenuto la mente aperta ad ogni espressione artistica. Poi, ciliegina sulla torta, ho sposato un'artista performativa (Marta Jovanovic) e, anche quello che non vedevo e non apprezzavo, oggi lo avvicino guardandolo con un occhio diverso. Marta mi ha introdotto in questo mondo partendo dalle nozioni più elementari."

Insomma, la tua posizione è di totale apertura.

"Se mi viene un artista che mi chiede di voler fare una performance, non so, dicendomi “prepariamoci perché questo muro lo distruggerò' completamente” oppure “voglio attaccare questo quadro in questo modo invece che in quest'altro” io sono aperto, purché, ovviamente, non si faccia nulla di troppo pericoloso. L'espressione artistica secondo me necessita della libertà dell'artista."

E come pensi si posizioni questo genere di “oggetto” artistico?

"Io sono un gallerista, in pratica un mercante d'arte. Non sono un filosofo dell'arte, non sono un curatore, non sono uno storico dell'arte. In realtà, ho un conflitto d'interessi con le peculiarità della performance, perché una volta finita, se non hai fatto pagare un biglietto per farla vedere, non ci fai molto altro.

Cosa che, d'altra parte, sarebbe un po' contraria ai principi di un certo genere di performance d'arte, senza considerare che non è sempre facile far pagare il biglietto per alcune performance, sto pensando a tutte le pièce che avvengono in strada ad esempio.

In qualità di mercante so e capisco che quello che potrei vendere è il prodotto; però, d'altra parte, mi rendo anche conto che non può esserci un vero prodotto finale, tangibile, nella performance. Ci sono le foto ed i video.

Che, però, sono una documentazione della performance e non il suo prodotto. Se consideriamo la performance in funzione di questo "prodotto" tradiamo il concetto stesso di performance. L' 'Hic et Nunc'.

Se devo pensare come gallerista, devo pensare a del materiale che potrebbe attirare l'attenzione di qualche collezionista. La cosa che potrei pensare di vendere potrebbe essere la performance stessa, quando richiesta."

Andando verso un'attività quasi da manager teatrale. Passando ad altro, vedo che sei anche un amante del design d'interni (la splendida versione bianca della libreria di Antonio Pio Saracino, dopo la mostra a lui dedicata, è diventata parte integrante della galleria. Posizionata proprio dietro il front desk).

"Come antiquari, la mia famiglia vendeva anche mobili, si trattava di mobili antichi, ovviamente, ma il design è ciò che tra 300 anni sarà antiquariato, Questi saranno i pezzi che qualche Sandro Bosi del futuro venderà'.
 

In fondo si tratta sempre di questo mio floating, questa mia continua transizione, evoluzione verso quella che e' l'espressione del mondo contemporaneo, anche se sempre agganciato ai canoni classici delle accademie o delle università. Io, probabilmente non scoprirò mai un Basquiat o un Rousseau. Si tratta di una mia deformazione professionale."

Tu hai detto che preferisci lavorare su piazza newyorkese piuttosto che su piazza romana, anche con gli stessi artisti italiani. Qual'è secondo te la differenza?

 

"Roma è  una bellissima signora di una certa età che si porta avanti elegantemente, gestendo sapientemente la sua anzianità e perdurante bellezza. New York, invece, è una giovane signora che sgambetta, corre e non ha tempo di riflettere. Deve raggiungere i risultati e nell'arte ritrovi questa immediatezza, anche negli artisti italiani che vengono qui. Devono imparare l'immediatezza senza stare troppo ad elucubrare sui concetti dell'immagine estetica. Sono due processi diversi che portano comunque a grande qualità. I ritmi, il tempo... e' questa la differenza.
 

Inizialmente pensavo che questa immediatezza fosse un male, pensavo non ci fosse profondità, e invece non è così. Qui si viaggia ad un tale livello di base che è soltanto un eliminare il superfluo. Quello che resta e talmente alto, perché nasce da un livello altissimo, che automaticamente ti permette di riflettere, pensare. Per arrivare a questa velocità non si deve solo fare caso alla velocità, devi prima caricarti di input, di sostanza e poi corri il più veloce possibile con tutto il bagaglio che hai."

E, a tuo giudizio, qual'è il tuo bagaglio? La caratteristica che ti fa correre, insomma.

"Il mio più grande asset è il mio conome. Quando giravo per i mercati europei, la gente sentiva il mio conome, il nome di mio padre, e mi dava fiducia. Il mio obiettivo è questo, sostenere l'arte mantenendo questa preziosa eredità familiare. Non è un caso che abbia dato il mio nome alla galleria, e non un nome di fantasia o di diversa origine. Io ci metto me stesso, il mio nome, la mia faccia. Sono in prima linea."

Tornando alla mostra che aprirà giovedi, per la seconda volta hai Renato Miracco come tuo curatore. Una soddisfazione non indifferente rinnovare una collaborazione di questo rilievo. Come è iniziata?

"Certamente. In realtà è una storia abbastanza semplice. Renato Miracco ha visitato la galleria diverso tempo fa, ha visto le opere che ospitavo ed ha apprezzato il mio lavoro, conseguentemente si è proposto di scriverne. Da qui la nostra collaborazione prima con  MUTATIO, di Max Glaser e Dean Dempsey, e poi con questa seconda di Laura Ann Jacobs e Benedetta Bonichi, un italiana, EROS AND THANATOS"

LAURA ANN JACOBS

BENEDETTA BONICHI
Eros and Thanatos

Opening Reception:

Thursday, April 19th 2012
6-9pm

click for more info >>

 

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