Riccardo Viale: "Un Istituto di Cultura a 360 gradi"

Letizia Airos (May 25, 2010)
i-Italy incontra il nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, Riccardo Viale, a pochi mesi dal suo insediamento nella prestigiosa sede di Park Avenue

L’arrivo di un nuovo direttore all’Istituto Italiano di Cultura ha sempre segnato un cambiamento, disegnando in maniera diversa gli obiettivi e le priorità della struttura.

Questa tradizionale discontinuità—forse la cosa più difficile da spiegare al lettore americano— d’altronde rappresenta anche l’indice della forte eterogeneità del mondo culturale italiano.

Viale è un uomo con un background molto diverso da quello dei suoi due più immediati predecessori, Renato Miracco e Claudio Angelini: entrambi napoletani, l'uno storico dell’arte e curatore di mostre, e l'altro giornalista, autore ed ex direttore del bureau statunitense della RAI. Viale è torinese, professore ordinario di Epistemologia delle scienze sociali alla Bicocca di Milano, Presidente della Fondazione Rosselli e fondatore della Herbert Simon Society, che raccoglie economisti e studiosi di scienze cognitive del mondo. Avviamo con lui una conversazione sul non facile compito di promuvere la cultura italiana negli USA.

Cosa porta all’Istituto Italiano di Cultura uno studioso con il suo background?
 Una chiave per affrontare certi temi che sono legati per esempio alla politica economica, per capire tutta una serie di novità che emergono in ambito scientifico, inclusi gli studi sugli aspetti di carattere cognitivo e razionale nelle scelte economiche.
 

Una chiave, ad esempio, che permette di spiegare perchè l’approccio più diffuso alla crisi finanziaria è legato a modelli d’interpretazione e di previsione assolutamente non più accettabili e che portano a grandi rischi nelle politiche pubbliche in campo economico.
 

Stiamo preparando in questo senso una serie d’iniziative per analizzare i nuovi modelli nella teoria economica che possono evitare la ricaduta in crisi di questo tipo…

Si intuisce dalle sue prime parole la necessità di un rapporto intenso con il mondo dell’Università, della ricerca…

 Cercherò di lavorare in questo senso sui collegamenti che non ci sono. Anche insieme all’ISNAF (Italian Scientists and Scholars in North America Foundation). Occorre aiutare i ricercatori italiani che hanno buone idee a trovare chi possa valorizzarle qui. Occorre creare un bridge tra Italia e Stati Uniti.

Poi, nel campo degli aspetti di carattere epistemologico, abbiamo messo in piedi una serie d’iniziative, una delle quali sarà intitolata ‘arte, filosofia e neuroscenze’. Il rapporto tra l’opera d’arte contemporanea e il suo  fruitore sarà analizzato guardando non soltanto a modelli esterni di carattere economico o sociologico, ma alla luce di diversi modelli neurocognitivi.

Ci si chiederà qual’è la dinamica neurocognitiva nell’impatto estetico e come cambia a seconda delle correnti artistiche, e cosa significa quello a livello delle dinamiche dei mercati. E si tratterà di riflettere sul perchè l’arte contemporanea sia forte pur avendo dal punto di vista dei modelli neurocognitivi uno scarso impatto a livello di fruizione estetica. Questo è legato al cortocircuito perverso che c’è tra artista, gallerista e speculatore nel campo del mercato dell’arte contemporanea.

Ciò che mi interessa introdurre è come questi studi sulla mente umana, dal punto di vista cognitivo e neurocognitivo, possano contribuire a modernizzare e rendere più forti a livello esplicativo una serie di discipline scientifiche: scienze sociali in genere ma anche estetica, etica. Per questo stanno nascendo infatti una serie di discipline come la neuroestetica, la neuroetica.

E’ inevitabile chiedergli come vede la differenza tra i due sistemi accademici, l’italiano e l’americano, e come la vive da direttore dell’IIC.
In rapporto alle frustrazioni che ha un accademico italiano e alle potenzialità che ha il mondo accademico americano? Ciò che un italiano viene a fare in qualità di direttore di un Istituto di Cultura è cercare di superare il senso di impotenza percepito nella sua vita professionale in Patria, rapportandosi con centri universitari che dovrebbero essere il modello da seguire nel nostro Paese.

D’altra parte, se è vero che gli Stati Uniti hanno attraversato un periodo di crisi, è anche vero che a differenza di tutti gli altri Paesi hanno la possibilità di uscirne perchè dispongono di un sistema universitario che produce classi dirigenti e conoscenze in grado di rimettere in piedi la capacità competitiva del sistema industriale americano.

Il vero punto di forza dell’America è la knowledge economy e ciò è strettamente legato a dove si produce la conoscenza, e dunque in particolare alla rete delle istituzioni accademiche americane. Io come direttore dell’Istituto di Cultura voglio rapportarmi con questa rete, il che significa parlare a giovani americani, ma anche cinesi o indiani. Saranno la futura classe dirigente, quelli che andranno a lavorare nei centri di ricerca, nel managment, nelle istituzioni. Comunicare a loro una certa visione della cultura italiana contribuirà a migliorare l’immagine dell’Italia nel futuro.

Dopo pochi mesi… quali sono le difficoltà che intravede?

I limiti sono tutti superabili e non bisogna piangersi addosso. Perfino i vincoli di budget sono spesso una scusa, i soldi si trovano. Anche se è un periodo difficile le iniziative si possono fare trovando i giusti partner e i giusti sponsor.

E ha già cominciato a tessere la sua tela. Rapporti intensi con università, istituzioni americane, musei …
Le università con cui abbiamo già aperto dei rapporti e sono entrate nel nostro comitato scentifico sono in ordine cronologico, Columbia, NYU, Princeton, Brown, Harvard, MIT, and the University of Miami. Poi andremo avanti con Yale in Connecticut, la Georgetown di Washington e i think-tank più importanti. Abbiamo già preso contatti con il Metropolitan Opera. Ho proposto tre iniziative: realizzare insieme una mostra di opere realizzata al Teatro dell’Opera di Roma negli anni sessanta, collocando quelle più grandi al Metropolitan e le più piccole qui all’Istituto; collaborare con la rassegna della famosa cantante lirica Renata Tebaldi e infine portare qui i costumi d’opera piu interessanti realizzati dalla Sartoria Tirelli. Nell’immediato mi sono parsi molto interessati alla terza iniziativa, e stiamo ora verificando gli spazi.

Che tipo di attenzione ha constatato da parte degli americani nei confronti della cultura italiana?
Vogliono cose di qualità. A volte gli Istituti italiani per pigrizia recepiscono le proposte che arrivano dall’Italia e diventa una specie di catena di trasmissione: ti arriva una cosa già preconfezionata, se costa poco si mettono i soldi di cui dispone l’Istituto, se costa tanto si rinuncia...

C’è quindi un problema di selezione?
La difficoltà è saper dire di no a molte di queste proposte. Io ho già cominciato a dirne tanti, per esempio sull’arte contemporanea, settore su cui ci giungono moltissime proposte di mostre. Abbiamo deciso, anche per una questione di principio universalistico, di concentrare tutte le proposte in un bando che scadrà a fine giugno e al quale potranno partecipare tutti gli artisti italiani, in particolare che abbiano meno di 40 anni e che non siano ancora stabilmente affermati. Una commissione indipendente, italiana e americana, selezionerà i primi tre e i vincitori avranno a disposizione un mese ciascuno presso l’Istituto Italiano di Cultura per esporre le loro opere, con un catalogo, la comunicazione e tutto ciò che serve alla promozione.

Dunque quali saranno in sintesi le prossime inizative dell’Istituto di Cultura di New York?
In autunno ci sarà una settimana dedicata al cinema italiano e al confronto fra cinema italiano e americano in collaborazione con la Film Commission Piemontese e il Festival di Tribeca, se aderirà.

Per la musica, ci sarà il Jazz Italia al Lincoln Center. Poi la mostra della Tebaldi  a settembre, e una serie di conferenze nel periodo autunnale con l’Accademia dei Lincei. Poi, dato che qui non è ancora stato celebrato il centenario di Noberto Bobbio, stiamo organizzando dei seminari in suo onore, uno sull’etica e la guerra con Micheal Waltzer a Princeton, ed uno sulla democrazia alla Brown, dove ci saranno sia Prodi sia Pasquino, ed altri esperti nell’area.
 

Stiamo anche pensando ad una serie di conferenze sull’innovazione: la prima sul motore bicilindrico a cui dovrebbe partecipare Sergio Marchionne (Ceo di FIAT e del Gruppo Chrysler), la seconda sulla fabbrica ecosostenibile torinese, la terza col gruppo Eni sull’energia fotovoltaica.

E c’è poi anche la Fondazione…
La fondazione Friends of the Italian cultural institute, che è già all’atto costitutivo e nel giro di due mesi sarà pronta, è composta soprattutto da giovani, con la componente americana maggioritaria su quella italiana. In questo modo si potrà orientare l’Istituto verso ciò che realmente interessa le giovani generazioni americane.
 

Di solito si fanno iniziative autoreferenziali, che interessano solo gli italiani, mentre noi cercheremo di andare incontro ad un reale interesse degli americani.
 

La fondazione si occuperà inoltre del fund-raising e dunque presenterà progetti che avranno già ricevuto il finanziamento.

Insomma cercherò d’impostare un Istituto aperto a 360 gradi sulla cultura, e che abbia come terminali i sistemi delle Università dell’East coast.”

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