Le università dei baroni e dei vassalli. Intervista a Nicola Gardini

Flavia Bagni (March 29, 2009)
Incontriamo Nicola Gardini alla Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU, dove presenta il suo libro “I Baroni”, storia vera di un ricercatore che dall’Italia è fuggito per poter lavorare. "I baroni sono figure di potere istituzionale che hanno cambiato la missione affidata a loro per un privilegio.Non lavorano per il bene del sistema, ma per autopromozione"

Nicola Gardini ha gli occhi vivaci e un sorriso gentile.  È a New York per presentare il suo libro “I Baroni”, casa editrice Feltrinelli, storia vera di un ricercatore che dall’Italia è fuggito per poter lavorare.

Lo incontriamo nella biblioteca delle Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University poco prima dell'evento. Risponde generosamente alle nostre curiosità. Domande che sembra aspettare con ansia da anni.

'I Baroni' non è un romanzo né un’inchiesta né una autobiografia, ma un memoir che nasce dalla voglia di raccontare un’esperienza; non “la verità”, ma una verità. Ne parliamo con l’autore e ne nasce una bella chiacchierata sull’università italiana e le sue regole non scritte, ma non solo.

Prima difficoltà: come tradurre dall’italiano all’inglese la parola “Baroni”? E si intuisce la distanza culturale di due mondi, quello italiano e quello anglosassone, almeno per quello che riguarda il sistema accademico e della ricerca universitaria.
 
Ci puoi raccontare la tua storia? Oggi presenti il tuo libro...

 
"Mi sono formato in Italia, sono laureato in lettere classiche; subito dopo la laurea sono venuto negli Stati Uniti e ho preso un PhD in letteratura comparata proprio alla NYU. Sono rientrato in Italia avendo vinto nel frattempo, mentre facevo il dottorato qua, un concorso per i licei come docente di latino e greco. Quindi, preso il PhD avevo questa possibilità di lavoro  e sono rientrato. Ho insegnato nei licei per diversi anni, dopodiché ho vinto inaspettatamente un concorso da ricercatore in letteratura comparata.

Questo avveniva nel 1999. Dal 1999 al 31 dicembre 2006 sono stato ricercatore all’ateneo palermitano. Ero residente a Milano, che è la città dove ho quasi sempre vissuto, a parte gli anni americani, e al terzo tentativo ho vinto un secondo concorso, prendendo un’idoneità da associato. Tutto questo  è raccontato nel libro.
Cosa è successo... è successo che io sono entrato all’università “per errore”... o diciamo per caso: chi aveva bandito il concorso decise di non assegnare il posto da ricercatore al candidato interno, e quindi tra i vari litiganti, godetti io.
Di questo non mi resi subito conto, pensai di essere stato premiato per le mie oggettive capacità, ma in realtà quelle servirono come alibi alla commissione che mi fece passare: in teoria deve vincere il candidato interno; questo non è scritto da nessuna parte, ma non c’è commissione che non faccia gli interessi dell’ateneo dove il concorso si tiene."

 
Anche perché spesso esiste un accordo fra atenei…
 
"Esatto... quindi io mi ritrovai a lavorare in un luogo ostile, che non mi aveva voluto…"
 
Tu non sapevi come funzionavano le cose?
 
"No, non ne avevo nessuna idea, e infatti ho vissuto nell’equivoco per diversi mesi. Non sapevo come interpretare certi segnali; anzi, non conoscendo bene i palermitani, non conoscendo la Sicilia, se non come turista, imputavo evidenti dispetti, evidenti maltrattamenti, un evidente mobbing, ad atteggiamenti di diffidenza iniziale, a una specie di sospettosità magari un po’ meridionale. Non mi rendevo conto invece che loro mi consideravano un invasore e un intruso."
 
Riuscivi a fare il tuo lavoro?
 
"No, assolutamente no."
 
Quanti anni avevi?
 
"35 anni. Io poi non pensavo neanche di farcela. Avevo la mia cattedra di latino e greco al liceo e pensavo di stare lì per un certo numero di anni e poi eventualmente di tornarmene in America, cosa che poi è realmente successa, ma attraverso un percorso più complicato.
Quindi si, mi fu fatta un’accoglienza gelida, non mi venne dato subito l’ufficio, dovetti aspettare, cioè tutta una serie di cose che ho raccontato con grande dettaglio nel libro.
A un certo punto la situazione è diventata molto negativa: una volta vinto il concorso da associato, mi fu intimato di "non scendere più".
Anche questo concorso l’ho vinto quasi per caso. Mi fu concesso al terzo tentativo per una serie di meccanismi automatici del sistema, per cui avendo tentato varie volte, a un certo punto questa idoneità da associato mi andava data. Con l’idoneità, tu non vinci il posto, ma vinci il titolo da associato. Il posto va creato, e il titolo ha una scadenza di tre anni. Per cui io mi ritrovavo con un titolo da associato e la necessità a questo punto di venire "chiamato" da qualche ateneo che avesse crrato un posto e volesse darlo a me. Questo in genere avviene nell’ateneo in cui tu già sei dipendente, perché esiste già un budget, l’ateneo non deve fare nessuno sforzo, se non quello minimo di aumentare di poco il tuo stipendio; quindi chi prende un’idoneità di solito viiene chiamato entro i 3 anni dalla sua università.
Mi fu subito fatto capire con chiarezza che loro non mi avrebbero chiamato, ma a me faceva anche comodo, detto inter nos, perché avendo ricevuto una tale accoglienza da ricercatore, immagina che vita avrei potuto continuare lì.
Uno spiraglio invece si aprì perché 'Corona', il barone che io nel libro chiamo così…"
 
Sembra una spy story...    
 
"Si… questo Corona a un certo punto dice che c’era una possibilità, mi avebbe fatto avere una supplenza altrove, la supplenza doveva trasformarsi in chiamata, quindi a un certo punto io sarei andato via da Palermo. Poi questo non avvenne perché all’ultimo minuto il barone decise di assegnare il posto a qualcun altro, quindi io rimasi ancora pendolante. Da solo, con molta fatica, mi trovai un’alternativa a Padova, che non era nella cartina del barone – stranamente questa era ancora zona franca, non colonizzata – e riuscii con rara abilità a estorcere la promessa di una chiamata in questo ateneo che a me non doveva niente. Ero entrato nelle grazie di un direttore di Dipartimento e lì fui tenuto in ballo per un sacco di tempo, un anno e mezzo. Nel frattempo l’idoneità invecchiava e iniziava anche a puzzare un po' come il pesce...
Poi neanche a Padova successe qualcosa, perché cambiarono ancora una volta le carte in tavola, stavolta forse non per cattiveria ma per ragioni tecniche; insomma, non fu trovato il budget, per cui era chiaro che io dovessi andare via.
Insomma, io avevo vinto dei concorsi, mi ero impiegato in un’università che mi avrebbe dovuto usare, eppure non c’è stato modo di lavorarci."
 

Quanti anni hai passato in questa situazione?
 
"Sette, dal 1999 al 2006."
 
“Non c’è stato modo di lavorarci”. Che vuol dire, tu che facevi?
"All’inizio, quando ancora non avevano capito che ero un appestato, mi adoperarono un pochino per gli esami, e feci dei seminari.
Progressivamente le ore di insegnamento mi vennero ridotte fino all’estinzione completa perché si capiva che ci sapevo fare, gli studenti erano contenti, quindi dimostravo di essere utile, ma loro non volevano me, assolutamente.
La candidata interna che avrebbe dovuto vincere e alla quale io portai via il posto, nel frattempo, era ancora lì; quindi, se io mi fossi reso così indispensabile, mi fossi integrato così come sembrava possibile che accadesse, per lei non si sarebbe creata una seconda possibilità di impiego perché sarebbe stata superflua. Di conseguenza, quando si vide che io potevo fare delle cose, mi vennero tolte le occasioni per farle.
Quindi a un certo punto mi ritrovai semplicemente senza nulla da fare.
A parte i numerosi dispetti di chiamarmi quando non ce n’era bisogno, ad esempio compravo il biglietto aereo arrivavo e non c’era la riunione e tutta una serie di episodi che ho raccontato nel libro."
 
Ma nel frattempo continuavi la tua ricerca...
 
"Assolutamente si, devo dire che sono stati anni anche di grande libertà perché loro, non volendomi, mi davano l’autorizzazione ad andare anche all’estero. Per cui ho fatto anche due visiting professorships alla Columbia University, dove a un certo punto ho anche avuto la proposta di una junior position che però non ho accettato perché credevo ancora di avere molte possibilità in Italia. Quindi insegnavo lì, e alla NYU a Firenze, sempre in luoghi e posti di prestigio…"
 
Quali erano le differenze che trovavi allora, e che forse ora vedrai in maniera più chiara, tra il sistema universitario italiano e quello straniero?
 
"Le differenze sono abissali, nel senso che le caratteristiche baronali, di un sistema nepotistico e corrotto dell’università italiana, in America e in Inghilterra non esistono.
Esisteranno delle forme di favoritismo, però l’obiettivo principale dell’accademia americana, dei singoli atenei, dei direttori di dipartimento, non è considerare una missione professionale un privilegio – come accade in Italia – ma fare il bene del dipartimento. Esiste in America un’etica del lavoro accademico che in Italia non esiste; e non esiste nemmeno presso quei professori-baroni che si sono magari anche distinti nel campo della ricerca. L’eccellenza nel campo della ricerca a volte non si accompagna a un’eccellenza etica. Però ci sono e ci sono stati tutto sommato baroni anche buoni, cioè baroni che hanno colonizzato l’accademia per mandare avanti una loro scuola."
 
Tutto questo, se non porta a devianze del sistema, può non essere del tutto sbagliato, nel senso che una persona valida nella sua ricerca può essere sponsorizzata…
 
"Certo ed è forse anche l’unica cosa possibile, perché il sistema purtroppo recluta solo attraverso questi benedetti concorsi; cioè non c’è altra via se voglio assumere quel certo personaggio che conosco e stimo e sul quale ho investito: devo brigare perché la commissione me lo mandi…"
 

Tu parli di “sistema”, ma forse il problema è più nella cultura che nel sistema. Sicuramente la prima cosa che un giovane nota quando viene negli Stati Uniti è la considerazione che riesce ad avere da professori anche molto importanti; ad esempio il fatto di poter presentare una relazione ad un convegno quasi subito, se ha esplorato un campo di ricerca interessante…
 
"Si, questa è una cosa sacrosanta. Il mio libro infatti è un attacco proprio alla gerontocrazia, e questo avviene in più punti. Addirittura c’è una parte chiaramente simbolica dove racconto il mito di Ippolito, cioè il figlio maledetto dal padre che viene poi squartato dai cavalli di Poseidone e miracolosamente ricomposto altrove da Eusculapio, il dio della medicina. Altrove però, e deve proprio abbandonare il paese del padre e farcela da un’altra parte. Il libro è pieno di vecchi malvagi — anche se ce n’è uno buono, un barone-non-barone, che è stato il mio maestro di latino all’università e con cui mi sono laureato; dovevo per forza mettere un esempio buono anche per creare un evidente parametro positivo rispetto al quale poi misurare la corruzione degli altri… Però si, in Italia, il giovane è mortificato; non c’è stima nei suoi confronti. Adesso lavoro a Oxford e sono veramente ammirato dall’umiltà con cui tutti i miei colleghi parlano dell’eccellenza sincera di tutti i nostri studenti. A volte anche con un eccesso di ingenuità, o comunque con una punta di retorica che non ho ancora fatto mia. Però davvero c’è una fiducia completa nell’intelligenza della gioventù. Questo atteggiamento in Italia non c’è assolutamente; per cui il giovane viene continuamente mortificato, fatto invecchiare, messo in salamoia, tirato fuori con le rughe."
 
Per cui oggi nell'accademia italiana abbiamo questi giovani tra i 35 e 50 anni  in salamoia? Questa generazione che rimarrà sempre piccola e non sarà mai grande? Non potrà mai fare carriera?
 
"Assolutamente sì. Tutto questo per questo sistema baronale. I baroni stanno facendo dei danni enormi"
 
Ma chi sono, insomma, questi baroni?
 
"I baroni sono figure di potere istituzionale che hanno cambiato la missione affidata a loro per un privilegio. Quindi non lavorano per il bene del sistema, ma per l’autopromozione; è il software che ha la meglio sul documento, cioè il contenuto si è completamente smarrito e si perpetua in una serie di rituali che sembrano fini a se stessi; in realtà il fine c’è, ed è appunto l’auto promozione del barone, l’acquisizione di potere, il suo mantenimento e il suo accrescimento. Quindi il barone chi è? È una figura metamorfica, camaleontica, priva di ideali, con degli obiettivi pratici - appunto l’autopromozione -, capace dei più vergognosi voltafaccia, delle incoerenze più bestiali, che non ha però assolutamente coscienza della contraddizione. Il barone è  quasi mercuriale insomma, è di un trasformismo quasi ammirevole, perché come obiettivo ha quello di non perdere mai il potere."
 
Come mai hai deciso di scrivere questo libro? Che tipo di lettore immaginavi?

 
 
"I giovani. L’ho scritto parlando: il tono è quello della conversazione, del dialogo, della testimonianza sicuramente; questa è una voce che avevo già messo in luce nel libro precedente, in cui raccontavo una vicenda altrettanto interessante, una malattia mentale, e i destinatari sono i giovani.
Non l’ho scritto subito con l’idea di una denuncia; non volevo né vittimizzarmi né togliermi il sassolino dalla scarpa, assolutamente. Lo lo dico nelle ultime pagine, nell'ultimo capitolo del libro, quando racconto del concorso vinto ad Oxford, che avevo solo voglia di andarmene, io non vedevo l’ora di licenziarmi, anche se dei colleghi, degli amici accademici, incluso uno che faceva il co-rettore in Bocconi, mi dicevano: 'Ma perché ti licenzi subito, continua a prendere qualche stipendio no?'.
- 'No, io non vedo l’ora di andarmene', rispondevo.
Basta, io volevo chiudere e non volevo certo mettermi a raccontare tutte queste cose, non ho scritto nulla a queste persone, non ho scritto neanche la lettera ai giornali che tutti mi dicevano di scrivere… niente, io volevo andarmene."
 
Quando hai deciso di scrivere "I Baroni"?
 
"Dopo un anno che ero a Oxford, ho visto questa come una storia veramente compiuta, raccontabile, interessante, dove la voce di narratore che avevo messo a punto nel libro precedente, aveva proprio voglia di mettersi a parlare. Mi sembrava di avere anche un dovere di testimoniare. Insomma, io sapevo delle cose, e le sapevo raccontare meglio di altri, perché non farlo. Così mi ci sono messo. È stato anche il fatto di essere a Oxford, in un mondo così diverso, così migliore, a farmi acquisire una coscienza nuova di quello che avevo vissuto."
 
Come sei riuscito a farlo pubblicare?
 
"L’ho scritto anche abbastanza rapidamente a Oxford, un po’ anche in una vacanza, e poi l’ho revisionato in più momenti. Diciamo che ci ho messo qualche mese. Ho un agente molto bravo, un uomo di grande cultura che si chiama Marco Vigevani, il quale ha subito creduto in questo libro; non gli editori, invece, dei quali non faccio i nomi. Però tutti mi dicevano: bello, scritto bene, colto, perché poi è anche pieno di inserti meta narrativi che mi sono serviti a creare una voce autorevole e rispettabile che giustificasse la ragione per cui parlavo dell’ingiustizia subita. Se avessi creato una voce

semplicemente giornalistica non sarebbe bastato, non sarebbe stato interessante; era interessante leggere il racconto di una voce rispettabile per il lavoro che aveva scelto di fare, quindi si parla di letteratura, di tante cose, tutte ovviamente legate al lavoro.
Marco Vigevani ha molto apprezzato come è stato fatto il libro, ma gli editori appunto dicevano: 'bello, pieno di cultura, ma è il tuo caso, non è emblematico; perché non parli anche dei medici per esempio? Perché non fai un’inchiesta?'
Alla fine Feltrinelli ha amato questo libro moltissimo. Il libro è andato in lavorazione subito. C’è stato un concerto di adesioni sentite per come era scritto, per quello che raccontava, e per come lo raccontava, e quindi hanno detto che il libro andava fatto immediatamente; abbiamo lavorato tantissimo, anche ripensando a certe cose, la struttura è rimasta quella, così come la scrittura; abbiamo limato le parti che potevano essere offensive o molto forti, che avrebbero forse anche indebolito la pulizia del racconto che è quasi più oggettivo adesso che sono sparite tutte le pance… quando dicevo: quel ciccione di … 'ciccione' non c’è più… ma è giusto così.
Ecco come sono arrivato a pubblicare: con un po’ di lungimiranza di questa casa editrice che però ha una tradizione di sinistra, di lotte, e di provocazioni."

 
Secondo te la tua storia è rappresentativa di una situazione  generale in Italia?
 
"Altroché, molto rappresentativa di tutto un sistema; io non faccio che ricevere mail di gente che mi ringrazia per aver raccontato come nessuno aveva fatto prima…  libri sull’università ne sono usciti diversi ultimamente, tra l’altro è uscito un libro abbastanza buono di Perotti, per Einaudi, che si chiama 'L’università truccata', che poi è un libro molto tecnico, con delle proposte di riforma, ed è fatto da un professore della Bocconi, che ha una cattedra anche alla Columbia University… il mio è proprio un memoir, è un pezzo di vita vissuta, e io credo moltissimo nel valore gnoseologico del racconto in prima persona… Chi mi ha seguito in questi anni - anche il mio compagno, che è francese - dice: ‘Devi fare anche riferimento ai medici, perché un conto è non imparare la letteratura comparata, un conto è far morire una persona sotto i ferri’. Ma io questo argomento non lo accetto perché la letteratura ha veramente un peso importantissimo nella formazione degli individui. È vero che se ti faccio morire di emorragia ho delle colpe più quantificabili e più circoscrivibili, ma dimenticare che attraverso la letteratura tu formi un senso critico e progetti di vita, questo è un danno enorme. L’atteggiamento verso la storia, la diversità, le culture, insomma, attraverso l’insegnamento letterario passa un’infinità di cose, non è soltanto l’operazione, noi non siamo soltanto soggetti ai ferri del chirurgo. Ci sono i ferri della vita che sono altrettanto pericolosi e la letteratura ci aiuta a vivere."
 
Reazioni dalla Sicilia ce ne sono state? 
 
"Mi ha scritto uno della Amministrazione, quello che mi ha aiutato a licenziarmi, dicendo: 'Professore, lei non si ricorderà di me, ma io sono quello che l’ha aiutata a fare le pratiche di licenziamento; ho letto il libro, molto amaro, congratulazioni, le posso assicurare che in Amministrazione le cose non vanno diversamente'. I baroni tacciono ovviamente.
 
Come si fa secondo te a scardinare questo sistema, che non è solo un sistema, ma è anche una cultura? Te lo sarai chiesto no, da dove si comincia? Non credo che basterebbe fare una riforma, perché poi riforma alla mano si troverebbero i modi di aggirare gli ostacoli…
 
"Ma guarda, io non ho molta fiducia… io me ne sono andato per quello; avevo voglia di far crescere l’università; credo nell’istruzione, credo nella letteratura, sono convinto che sia una delle grandi discipline salvatrici del mondo e me ne occupo in un posto che mi dà la libertà di farlo. Quindi io le mie forze le adopero altrove, cioè dove mi è consentito farlo.
A lavorare in Italia non tornerei mai, non ho fiducia negli italiani; non ho fiducia nei baroni, ma non ho fiducia nemmeno nel mio Paese."
 
E a un giovane ricercatore che inizia adesso e vuole fare ricerca e rimanere all’università n Italia, che consigli gli daresti? Gli diresti di andarsene?
 

"No, questo non posso dirlo perché ognuno poi sceglie di andarsene o di restare secondo la sua vita, i suoi impulsi, la sua storia. Però, questo libro credo che possa dire a qualcuno di tenere gli occhi aperti e di guardare anche altrove.
Occorre secondo me aprire questo sistema. Questo è un sistema che si continua a riformare su se stesso. L’università è un virus mutante."
 
Ma se un ragazzo in Italia vuole fare ricerca, deve avere una famiglia ricca… passare anni ad anni ad aspettare e magari lavorare gratis.
 
"Infatti, ci vogliono più soldi per la ricerca, ci vogliono graduatorie, ranking dei dipartimenti per cui occorre classificarli e distinguerli in centri di serie A e di serie B. Quando questo sarà evidente voglio vedere se un barone si adopererà  per portare nel suo dipartimento una persona poco qualificata che non gli consentirà di ricevere dallo stato dei soldi, non attirerà studenti, e sarà costretto a chiudere.
Occorre dinamizzare il sistema dall’interno, cioè occorre creare della concorrenza virtuosa.
Penso che così si crei mobilità: i docenti si spostano, i dipartimenti migliori tendono ad acquisire i più validi… è giusto che un padre che spende dei soldi per mandare il figlio all’università, scopra se quei soldi sono ben spesi; perché se scopro che sto spendendo dei soldi per un’istruzione che non vale un fico, io quei soldi li uso per un’altra università. Credo che trovare dei modi di dinamizzare e creare competizione interna, una dialettica che inserisca parametri e modelli in conflitto, possa far nascere delle alternative."
 
In Italia si insiste tanto sulla questione del ritorno dei cervelli che sono andati all’estero, e non si cerca mai di capire come mai tutto il resto del mondo non va in Italia…
 
"Non vengono perché non ce la fanno gli italiani, figurati… tra l’altro anche questa cosa del rientro dei cervelli è una pagliacciata: ti fanno rientrare per tre anni e poi non ti danno niente.
A me uno di questi "cervelli rientrati" ha scritto: “Ti ringrazio per questo libro che mi fa venire voglia di tornare là dove ero, cioè in America. Sto già cercando un posto per quando questo contratto scadrà, nessuno mi ascolta”. Perché appunto la logica baronale e nepotistica fa sì che anche chi è stato riportato a casa ne soffre… le istituzioni devono smetterla di far finta che il sistema baronale non esista, devono capire che devono scanzarlo…"
 

Questo potrebbe essere l’inizio di un tua missione?

"Forse si, cosa che invece all’inizio non mi sembrava possibile. Il libro all’inizio lo avevo in testa, ma non pensavo che un editore lo avrebbe usato in questo modo. Cioè, pensavo che lo avrebbe forse anche un po’ abbandonato, messo al mondo e lasciato andare con le sue gambe, e invece c’è davvero un investimento molto grande su questo libro. Vorrei anche usarlo bene questo libro. Anzi adesso le prime reazioni, che sono molto immediate e molto fresche, di padri, di madri, di ragazzi che mi riconoscono una responsabilità che non pensavo di avere, e mi piacerebbe usarla. È un’occasione, non so dove mi porterà, poi io in realtà sono anche uno studioso, quindi… Ma C’è stata una bella anticipazione su Repubblica e tante interviste, tante lettere, è nato un nicolagardinifanclub, su facebook, ho un blog su Feltrinelli…"
 
 
Niente di positivo che ti può venire in mente sull’Italia? Oppure c’è qualcosa di recuperabile? C’è qualcosa che ti porti dentro anche all’estero che non si portano gli altri?
 
"Io sono molto affezionato alla mia formazione di classicista, sono molto affezionato all’istruzione che l’Italia mi ha dato: il mio liceo classico, le mie lettere classiche. Ho dei ricordi bellissimi di quando insegnavo al ginnasio latino e greco ai ragazzini, e sono stati forse i momenti più belli della mia vita come insegnante. Però anche Oxford è molto bello, è il luogo ideale dove mettere a frutto tutto quanto."
 
Com’è il tuo rapporto con gli studenti inglesi?
 
"Buono, è tutto un altro lavoro, con problematiche e fini diversi, storie diverse e un concetto di cultura diverso; sono molto attivi, cioè sono padroni della propria educazione, e tu come docente li aiuti nel loro percorso, un percorso però che loro fanno e scelgono. Quindi sei proprio un mentore, un tutor, e non sei assolutamente il professore che apre le zucche e ci infila dei contenuti; in Inghilterra la conoscenza per la conoscenza non è un fine; l’obiettivo pedagogico principale è quello di aiutare degli studenti a sviluppare degli strumenti argomentativi in forma scritta soprattutto. Quindi si lavora sullo scritto, ogni settimana correggo centinaia di pagine, glosse, suggerimenti, ma tutto per aiutarli nel loro percorso."
 
Come ti vedi fra dieci anni?
 
"Non so, mi piacerebbe scrivere tanti libri."
 

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