Enzo Capua. “L'uomo del jazz”

Vincenzo Ruocco (May 18, 2009)
Jazz. Ne parliamo con un esperto. Con colui che è riuscito a portarlo dall'Italia a New York. Enzo Capua ci racconta i successi ottenuti, gli obiettivi futuri. Il valore di questo genere musicale oggi

 Enzo Capua, l'italiano che è riuscito a portare il nostro jazz a New York.

Giornalista, scrittore, regista, produttore televisivo, ma soprattutto grande appassionato di jazz.

Nella sua lunga carriera si è occupato di musica contemporanea, scrivendo per le principali riviste specializzate e per alcuni importanti quotidiani fin dagli anni '70.  Ma soprattutto è l'uomo della promozione del Jazz italiano qui e  a cui spetta il compito di curare la presentazione di Umbria Jazz oltre oceano.
 

Enzo è venuto a trovarci in redazione e si è reso amabilmente disponibile a qualcosa di più di semplici domande.  Si è aperto e ha raccontato molto di sè e della sua passione per la musica.

Un uomo, prima di tutto, prima ancora di essere un grande professionista. Lo abbiamo evinto dalla maniera di porsi, dallo sguardo vivo, dai pensieri lucidi, dalla calma. Una persona estremamente curiosa che non ha mancato di porre a sua volta domande.
 

Ci è piaciuto il suo modo di ragionare, di vedere le cose, di soffermarsi quel poco di più per approfondire.

La passione per il mestiere che ha deciso di intraprendere, o da cui forse è stato scelto, lo spinge a porsi nuovi obiettivi, sempre. Anche anticipando i tempi.  È questa lungimiranza accorta e decisa ad averlo reso "l'uomo del jazz" a New York.

Un genere musicale che l'ha coinvolto fin dai tempi dell'infanzia, ricorda l'entusiasmo del padre per Louis Prima e l'interesse che la madre aveva per Ella Fitzgerald. Ed è quello stesso genere che l'ha accompagnato nella crescita fino all'età adulta, il jazz, capace di permeare anche in altri mondi artistici da lui sperimentati come la letteratura e il cinema, differenti note appartenenti al medesimo spartito, quello della sua passione.

Enzo Capua affascina chi lo ascolta con le sue ponderate scelte musciali e attrae anche chi lo legge.  Come nel caso di "New York night & day. Storie, voci e suoni della città che non dorme mai", un libro uscito nel 2005, intenso e vivo,  realizzato  battendo palmo a palmo la Grande Mela, città che ha saputo accoglierlo, ospitarlo, rapirlo, fino a diventare la sua casa e forse qualcosa di più.

Cominciamo la nostra conversazione con Enzo Capua  parlando dell'ultimo  "Umbria Jazz" a New York, appena terminato.
 

Enzo, come è nato il progetto americano di Umbria Jazz?
"Tutto è iniziato con l'incontro che ebbi col direttore di Umbria Jazz - Carlo Pagnotta - nel 2003. A quel tempo ero corrispondente di 'Musica Jazz', la rivista italiana più importante del settore. Pagnotta mi parlò del progetto di creare un minifestival a New York nel gennaio del 2004. Si pensava di farlo diventare un mezzo di diffusione di Umbria Jazz in tutto il mondo, cominciando proprio da New York. Nel 2006, dopo qualche anno, si registrò un successo definitivo che ci consentì di allargare la presentazione di Umbria Jazz anche in altri paesi, in Giappone, in Argentina e in Brasile.

Ora si sta pensando di organizzare, a partire dall’anno prossimo, un tour di Umbria Jazz anche in altre città importanti americane, mi riferisco a Los Angeles, San Francisco e Chicago."

Che obiettivi si pone il festival?

"L’obiettivo di Umbria Jazz quando va all’estero è quello di portare sempre musica italiana. Il jazz nel nostro paese è cresciuto in maniera vertiginosa negli ultimi dieci anni, sia nella qualità che nell’ascolto. Ci sono grandi musicisti italiani che non hanno nessun problema ad essere paragonati ai più grandi jazzisti del mondo. Umbria Jazz nello stesso tempo ha fatto in America un grosso sforzo contribuendo in maniera decisiva alla diffusione del linguaggio jazzistico italiano. Perché è vero che il jazz è nato in America ma ormai questo genere musicale si fa dappertutto, e non è detto che quello che si fa in America sia sermpre il migliore in assoluto. Considerando l’Europa, l’Italia è il paese in cui si fa il miglior jazz. La manifestazione qui ha avuto il merito di far conoscere in America molti musicisti importanti italiani invitando i giornalisti di settore americani poi anche in Italia. Questo ha permesso che se ne parlasse sempre di più, arrivando a quella che viene definita ormai una overexposure, una sovraesposizione."

Dieci anni fa Enzo Capua iniziò la sua avventura americana trasferendosi definitivamente negli Stati Uniti. Ricorda che a quel tempo andando nei negozi di dischi più importanti di New York si poteva trovare nell'angolo jazz un elenco in ordine alfabetico e, a parte, una sezione piccolissima denominata European Jazz. Come dire, “prima c’erano gli americani e poi il resto del mondo.”

Oggi la musica è cambiata. “Se tu parli coi giornalisti e col pubblico ti accorgi subito di questa realtà. Il jazz italiano ha ormai le porte aperte nei più famosi locali jazzistici, come il Blue Note Jazz. Ciò che è mutato è perciò la consapevolezza.”

Il jazz italiano è considerato dagli esperti un jazz maturo, adulto, in grado di superare le matrici iniziali, creando anzi un linguaggio autonomo. “In Italia ci sono artisti con un carattere e uno stile tutto proprio. Nella composizione semmai c’è ancora da crescere.”

C’è un musicista che ritieni possa essere in grado di aprire una nuova strada nel Jazz?
"Negli ultimi trent’anni è successo un fenomeno mondiale riguardo a questa musica, nel senso che il jazz è diventato sempre più popolare. Oggi tanta gente lo segue perché piace l’idea. Una volta era qualcosa solo per gli addetti ai lavori, i quali erano probabilmente anche un pò snob. Nel contempo è avvenuto un ristagno dal punto di vista delle innovazioni. Siamo nell’attuale fase neoclassica, di ritorno a certi stilemi del passato ma nessuna grande esplosione di novità. Ci sono artisti che fanno cose molto interessanti oggi ma non vedo nessun Miles Davis o John Coltrane o Charlie Parker, personaggi che hanno girato pagina nel jazz, ed è ciò che in verità aspettano un pò tutti."
 

Fin dagli inizi l'interpretazione jazzistica ha posto un grande accento sull'espressività, e, nel corso degli anni, anche sul virtuosismo strumentale. Come viene visto dunque il jazz contemporaneo da quegli addetti ai lavori? E quanto è difficile per un giovane avere successo?

"Oggi ci sono i tradizionalisti che pensano più al passato, e coloro che considerano anche l’opportunità di contaminazioni, magari con l’elettronica, col folk, con la cosiddetta etnomusica fusa proprio insieme al jazz.
L’Italia è il paese in cui d’estate si fa più jazz dal vivo che nel resto del mondo, compresa l’America. Nel periodo tra giugno e settembre si organizzano più di 200 eventi d jazz. Ci sono grandi festival come Umbria Jazz che possono puntare al pubblico, altri festival più ristretti che puntano invece alle nuove proposte d’avanguardia.
Per quanto riguarda i giovani oggi non ci sono difficoltà per emergere, c’è spazio per imparare, ci sono conservatori con sezioni dedicate al jazz, ci sono scuole, insegnanti.  Dal punto di vista della didattica non vedo difficoltà.

E devo anche dire che ci sono musicisti italiani che guadagnano molto di più dei loro corrispettivi americani. In America il jazz fa parte del pane quotidiano, molti musicisti americani accettano di suonare anche per poco ma un grande musicista italiano ha invece la possibilità di guadagnare moltissimo per una singola serata. È un momento d’oro da noi."

Quando è nato il tuo amore per il jazz?

"Avevo 14 anni.  Il passaggio tra i 14 e i 15 è stato fondamentale perché venni a contatto diretto con due cose che mi hanno segnato: il cinema e la musica. Quando parlo di cinema mi riferisco a “2001 Odissea nello spazio”. Il film, appena uscito alla fine del ’68/inizio ’69, è stato uno spartiacque nella mia vita. Relativamente alla musica il contatto l’ho avuto coi Beatles attraverso i dischi che mia cugina portava a Napoli. Personalmente sono nato con un interesse più vicino al rock, ma quel film mi spinse a cercare qualcosa altrove, sempre. Nel ’70 ascoltai per caso un disco di Miles Davis, alla radio. Ne rimasi talmente affascinato che decisi di approfondire la conoscenza di quell’artista. Mi avvicinai poi a quel tipo di jazz che all’epoca era considerato di ricerca, quello mescolato con l’avanguardia, con altra musica elettrica. Mio padre aveva i dischi di Armstrong, di Nick La Rocca, della Fitzgerald, Luis Prima e di Frank Sinatra, artisti che oggi considero come dei santi. A quell’età però come ragazzo tendevo a controbattere mio padre per una ragione di indipendenza generazionale.
Per lavoro ho cominciato a occuparmene con le radio private, facendo trasmissioni sulla Radio Rai, tramissioni notturne e pomeridiane come 'Un certo discorso'..unico programma radiofonico con all’interno tutti gli argomenti che potevano interessare ai giovani di quell’epoca, c’era musica, politica e cultura."

Quali i progetti futuri?

"Continuare con le produzioni personali e con Umbria Jazz. Avevo un club che si chiamava 'Enzo Jazz' qui a New York all’interno del Jolly Club, spero di poterlo riaprire. Era l’unico club dedicato ai cantanti, uomini e donne, a coloro con una particolare predisposizione per il canto jazz."


Le donne sono sempre più importanti per il jazz. Tu hai realizzato un evento unico nel suo genere. Un festival dedicato alle donne, si chiamava Italian Women in Jazz. Quest’anno non sei riuscito a proporlo... perchè? E' davvero un periodo così difficile economicamente?

"A dire la verità sono accadute  una serie di coincidenze, dei ritardi negli accordi con certi club e richieste di artiste che non erano disponibili in quel preciso momento. Mi sono ritrovato privo della possibilità di presentare l’evento. Spero di poterlo riprendere nel 2010.

Certo la crisi economica è pesante negli Stati Uniti. Chi gestisce un locale deve essere molto più rigido nelle proprie scelte, deve selezionare maggiormente. Non potendo più rischiare come si poteva fare prima tutto diventa più complicato ma non per questo certo impossibile. L'importante è proporre qualità."

Tu sei anche regista, giornalista e scrittore. Trovi che nel tuo stile letterario ci sia un riflesso di questo genere musicale?

"Il rapporto con la musica fa parte del mio essere. Certo sicuramente ci sono influenze, ma devono dirlo gli altri.  Quando scrivo però non posso ascoltare musica perché mi disturba, distoglie l’attenzione di cui ho bisogno. La musica assorbe moltissimo la mia energia. Posso avere bisogno magari dei rumori attorno, magari quelli che giungono da fuori, dalla strada."

È possibile considerare la musica pericolosa?

"La musica è molto pericolosa, mi ha cambiato la vita radicalmente. C’è un famoso regista che si chiama Wim Wenders che dichiarò di essere appassionato di rock’n roll. 'Se non ci fosse stato il rock’n roll oggi farei altro, non certamente il regista' disse.
La musica, in bene o in male, ti muta il tuo rapporto con le cose. Più sei sensibile, più assorbi la musica e il tuo rapporto con la realtà ne è compromesso. È la forma d’arte più potente perché è immateriale. Tutte le altre forme d’arte sono materiali, persino il teatro o il cinema sono materiali, le puoi toccare quasi. La musica è nell’aria, sono vibrazioni messe insieme, raccolte, codificate, ma stanno nell’aria."

Che caratteristiche ha il Jazz italiano?"
"Il jazz è una musica di interazione emotiva con le persone con cui stai suonando, improvvisare sul momento è un modo molto caldo, molto latino di proporsi. Gli italiani come popolo e come natura non potevano non esserne attratti.
Oggi il jazz è considerato l'espressione artistica più alta che l'America sia stata in grado di manifestare nell'ultimo secolo, espressione che il nostro paese ha imparato a improvvisare, plasmandola attraverso quel sentire italiano unico e inconfondibile."
 
 

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