Don Ciotti. Per una terra "Libera" dalla Mafia

Marina Melchionda (October 20, 2009)
Intervista con Don Luigi Ciotti, Presidente di "Libera", un network di più di 1,200 associati nato il 25 marzo 1995. Un vero e proprio movimento di mobilitazione civile e sociale che dal Sud oggi abbraccia tutta l’Italia e si espande per il resto del mondo

Dal “Gruppo Abele” a “Libera”, dal CNCA alla LILA, il suo è diventato un vero e proprio movimento di mobilitazione civile e sociale che dal Sud oggi abbraccia tutta l’Italia. Perché mettersi così tanto in gioco, come uomo e come sacerdote?

Voglio precisare che il movimento non è “mio”, ma di tutti quelli che ci hanno messo e continuano a metterci idee, energie, passione. Nell’impegno sociale è il “noi”, non l’ “io”, a contare. In secondo luogo queste realtà sono nate nel nord Italia, a Torino, la città dove il Gruppo Abele nel 1965 ha cominciato a muovere i suoi primi passi. La diffusione nazionale è però venuta di conseguenza, frutto di proprio di quel “noi” in cui il Gruppo ha sempre creduto: “noi” come collaborazione, come relazione tra pubblico e privato, tra istituzioni e cittadini. E’ avvenuto all’inizio degli anni 80 col Cnca (Coordinamento delle comunità di accoglienza impegnate per le persone tossicodipendenti), poi con la Lila quando si trattò di dare risposte alla tragedia dell’Aids e poi con Libera a metà degli anni 90. Perché mettersi in gioco? Perché è la nostra stessa libertà a chiedercelo. Non si può essere liberi da soli: si è liberi insieme agli altri, in uno sforzo collettivo e rivolto ai tanti a cui la libertà e la dignità è ancora negata. In questa scelta una parte determinante la giocano ovviamente i luoghi e le persone con cui sei vissuto. Io ho avuto la fortuna di avere genitori che si sono amati e hanno molto amato me e le mie sorelle; amici con cui ho condiviso tante esperienze, gioie e momenti difficili, con i quali ho discusso e dai quali ho imparato l’ascolto e il valore della relazione.

Poi certo nel mio percorso è stata fondamentale la fede, un dono impreziosito dall’incontro con persone come il cardinale di Torino, Michele Pellegrino. Quando mi ordinò sacerdote, nel 1972, Pellegrino, che si faceva chiamare semplicemente “Padre”, mi assegnò come parrocchia la strada con un avvertimento: andrai sulla strada ad imparare, non a insegnare. La strada, i suoi volti e le sue storie, le fatiche e le sue fragilità, i suoi bisogni e le sue speranze, è rimasta il mio riferimento, bussola di una fede che cerca di saldare il cielo e la terra, di riconoscere la figura di Gesù nei tanti volti della fragilità umana.    

 
Se dovesse citare un riferimento biblico che spieghi il “perché” di quanto sta facendo quale sarebbe?
Sono un sacerdote: la mia vita è Cristo, il Vangelo, l’annuncio della Sua Parola. È cercare Dio per incontrare le persone. Allo stesso tempo, le esperienze vissute mi permettono di dire che è possibile cercare l’uomo per incontrare Dio. Parlo di “cercare Dio” perché non Lo si possiede in modo automatico. Dio, per me, è meta, obiettivo, è mettermi in gioco tutti i giorni, è ricerca nell’articolarsi concreto della vita, nelle scelte terrene. Ho paura di chi ha capito tutto e sa tutto, dà tutto per scontato. In questo senso l’episodio narrato nel capitolo 22 del Vangelo secondo Matteo resta per me fondamentale. Alcune persone si recano da Gesù chiedendogli se sia lecito pagare il tributo a Cesare oppure no. Non vanno da Lui per incontrarlo, vogliono coglierlo in fallo. Sappiamo come prosegue l’incontro: Gesù non si fa prendere in giro, conosce la loro malizia, si fa dare la moneta e domanda di risalire dall’immagine e dall’iscrizione al suo legittimo proprietario. Ma se è chiaro il dire  “date a Cesare quel che è di Cesare” cosa significa “date a Dio quel che è di Dio”? Qual è l’immagine di Dio? È l’uomo, creato – come si legge nella Genesi – a Sua immagine e somiglianza. E allora è un dovere restituire a Cesare la moneta, ma lo è anche restituire a Dio l’uomo, la sua creatura. Ecco il punto: non possiamo restituire a Dio delle mezze persone, ossia persone disperate, usate, rese schiave dalla povertà, dalla solitudine, dall’emarginazione… Dobbiamo restituirGli persone intere, libere. È questa la grande provocazione che sento come cristiano: creare le condizioni perché tutti siano liberi. E non penso solo alle persone respinte, sfruttate, schiacciate, a chi è povero dentro. Nella nostra società esistono forme di povertà immateriale che stanno minando il corpo sociale dall’interno: l’indifferenza, la rassegnazione, la corsa al potere, al successo, al denaro. Povero è anche chi ha smarrito il senso del vivere pur disponendo di tutti i mezzi materiali per vivere comodamente su questa terra. 

Ci parli anche di un episodio che l’ha colpita, una dimostrazione 
concreta dell’efficacia del suo operato che l’ha incoraggiata… E di ostacoli ne ha incontrati? E di quale tipo?
Non mi piace parlare di “mio” operato. A costo di ripetermi, ribadisco che solo insieme possiamo far sì che la vita delle persone sia più libera e dignitosa. Ostacoli certo non ne mancano. Ogni cambiamento porta fatiche ma anche resistenze, pregiudizi, egoismi. E magari ostacoli più diretti ed espliciti, come quelli posti dalle organizzazioni criminali, le intimidazioni e i danneggiamenti con cui ci avvertono che il nostro impegno sui beni confiscati dà fastidio. Un grande magistrato che coordinò il pool di Falcone e Borsellino, Nino Caponnetto, disse un giorno che “la mafia teme più la scuola della giustizia, l’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Libera è attiva nelle scuole di tutta Italia, promuove percorsi educativi e formativi, anima strumenti d’informazione, ma anche l’impegno in quei beni appartenuti alle cosche mafiose, le cooperative riunite  nel consorzio “libera Terra”, è cultura: offre lavoro vero e opportunità di vita a tanti giovani e così dimostra che un cambiamento è possibile, sradica la rassegnazione e il fatalismo su cui le mafie fondano il loro potere.
 Alla fine del film “I Cento Passi”,  il migliore amico di Peppino 
Impastato dice: “noi Siciliani la mafia la vogliamo, perché la mafia siamo noi”. A distanza di 30 anni dalla morte del giovane, crede che questa frase rispecchi ancora la mentalità del comune cittadino siciliano?
In Sicilia come in altre zone del Sud, ci sono realtà ed esperienze impensabili fino a 15-20 anni fa. Esperienze nate anche da chi, come Peppino Impastato, ha seminato speranza e trovato persone pronte a raccogliere e proseguire il suo cammino. Ma è un grave errore associare le mafie alla sola Sicilia. Certo ci sono nel nostro paese terre segnate più delle altre dall’oppressione mafiosa, ma le organizzazioni criminali non sono più un fatto né locale né nazionale ma internazionale, strettamente connesso alle dinamiche della globalizzazione economica e finanziaria, all’espansione e deregolamentazione dei mercati. Anche per questo da Libera è nata l’esperienza di Flare (Freedom, legality and rights in Eurpe), una rete di associazioni che attualmente conta l’adesione di realtà di trenta paesi diversi.
 
Il 9 maggio 1993, a Siracusa, Giovanni Paolo II è stato il primo Papa a denunciare apertamente la mafia, definendola “civiltà della morte”. Crede che abbia contribuito a risvegliare la coscienza popolare sulla questione? 
La denuncia del Papa resta una pagina memorabile che ha certamente scosso le coscienze e segnato un punto di svolta anche all’interno della Chiesa, sgombrando il campo da qualche precedente eccesso di prudenza. Una svolta che era stata preparata dal documento della Conferenza episcopale italiana Educare alla legalità del 1991. «Il cristiano» recita il documento «non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia». Purtroppo la risposta delle mafie non sarebbe tardata: gli assassini di Padre Puglisi prima e di don Giuseppe Diana poi, a Palermo e a Casal di Principe, avvengono a ridosso della denuncia di Giovanni Paolo II, una denuncia che nacque da una rottura del “protocollo”. Il Papa si “arrese” a quel grido di giustizia dopo aver incontrato i genitori di Rosario Livatino, giudice ucciso da Cosa Nostra nel 1990, a soli 38 anni. Livatino era un credente che viveva la fede in modo radicale, coniugando la dimensione spirituale all’impegno civile per la giustizia. In suo quaderno furono ritrovate queste bellissime parole: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili». 

Lei ha scritto libri dedicati alle più varie problematiche sociali e  civili, dalla droga alla prostituzione, alla mafia. Ancora oggi è 
giornalista ed editorialista per diversi giornali, tra cui il mensile  “Narcomafie”, fondato da lei stesso. Al di là della carta stampata e di  fronte al crescere del fenomeno della digitalizzazione dell’informazione, che utilizzo fa e/o intende fare del web e degli strumenti che offre (ad esempio i social network) per ampliare promuovere le sue iniziative?
Come la carta stampata, anche la rete è un mezzo formidabile che va conosciuto nelle sue potenzialità ma anche nei suoi limiti. I grandi numeri vanno letti in controluce: non sempre quantità significa qualità, così come accessibilità può essere sinonimo di superficialità. La qualità dei contenuti resta un punto fondamentale.

Dobbiamo saper usare la tecnologia, non farci usare da lei. Per questo il progresso tecnologico deve essere finalizzato alla crescita culturale e etica dell’uomo, aiutarci a essere comunità nel segno della prossimità e della giustizia, spingerci a capire meglio la realtà per migliorarla. Se manca questa consapevolezza c’è il rischio che la navigazione nel “virtuale” diventi una fuga, un’occasione persa.

Credo tuttavia molto nell’importanza di questa nuova “frontiera”, e come Gruppo Abele e Libera sentiamo l’importanza di esserci con un impegno a tre livelli. Il primo: accompagnare a un uso consapevole delle tecnologie, scongiurare l’illusione che la telecomunicazione possa sostituire la relazione faccia a faccia, la fatica del confronto e del reciproco riconoscersi. Il secondo: promuovere e praticare una cultura che implichi la disciplina della ricerca e della profondità. Il terzo: allargare il campo degli interessi e delle passioni, parlando di pezzi di realtà ignoti o oscurati o conosciuti solo attraverso stereotipi banalizzanti. 

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