Afghanistan. Oltre la paura. Intervista con Daniele Mastrogiacomo

Letizia Airos (May 17, 2010)
!ntervista a Daniele Mastrogiacomo negli USA per presentare il libro “I giorni della Paura” dove racconta la sua prigionia in Afghanistan.

Marzo 2007, Daniele Mastrogiacomo, inviato di Repubblica, viene catturato dai talebani e comincia una prigionia di diversi giorni che lo trascina nell’Afghanistan più nascosto, nel profondo sud, proprio al confine con il Pakistan. Tra le montagne, nei villaggi, a diretto contatto con un mondo sconosciuto, il giornalista si deve confrontare con la paura di non sopravvivere ma anche la curiosità naturale di un professionista che  vuole capire. Anche il proprio nemico.

Dopo più di due anni dalla sua liberazione esce il suo libro, "I giorni della paura", con cui ripercorre la sua storia di ostaggio. Un racconto vero, autentico che ricostruisce le ore, gli attimi, i respiri di un’esperienza unica e crudele insieme ai compagni di prigionia. Il tutto contrasta con i colori ed i paesaggi suggestivi dell’Afghanistan.

L’esecuzione dell'autista del giornalista italiano: Sayed Haga, sgozzato e decapitato, rappresenta il momento più delicato di questa storia.

E va detto, Mastrogiacomo vive giorni difficili anche dopo la sua scarcerazione. Infatti molte sono state subito dopo le polemiche. Abbiamo deciso di non affrontarne i dettagli in questa intervista che vuole raccontare prima di tutto questo libro che, dopo aver riscosso un notevole successo in Italia, viene pubblicato negli Stati Uniti.

Incontriamo Daniele nella nostra redazione. Arriva in anticipo. Ci aspetta, insieme ad una responsabile di Europa Editions. Incuriosito si guarda intorno mentre lo accompagnamo in biblioteca, dove si svolgerà l’intervista. I-Italy? Cosa fate? Chiede.

Mastrogiacomo è prima di tutto un giornalista e si vede dalle prime parole. Risponderà con precisione ed efficacia alle nostre domande.

E’ in giro negli Usa da diversi giorni per presentare il suo libro. Un viaggio intenso, pieno di appuntamenti.

“Europa Editions ha fatto un ottimo lavoro, organizzato importanti presentazioni. Siamo stati a Los Angeles, Chicago, Washington e adesso qui. Ha letto brani tratti dal libro in diversi bookstores. E’ stata un’esperienza importante ed unica per me”.

Quando è nata l’idea di tradurre il libro per il lettore americano?

“E’ stato Michael Reynolds, a pochi mesi dalla sua uscita in Italia. Ha creduto subito che poteva avere successo negli USA. E’ stato tradotto con un linguaggio forse un po’ esotico, non è proprio come in italiano, ma rimane lo spirito e il senso.

E’ un po’ particolare, una sorta di romanzo-verità, però con tutta una serie di sentimenti dentro.”

Giorni di presentazioni.  Di incontri con americani. Come ha trovato il pubblico?

“Molto caldo, sono affluite centinaia di persone alle presentazioni. E considerando che vengono venduti migliaia di altri libri al giorno è stata una grande soddisfazione.”

Forse una delle chiavi del successo è nell’equilibrio che hai saputo trovare tra la cronaca e l’elemento romanzesco…

“Io non ho tecniche particolari, faccio l’inviato da 15 anni. Come giornalista, hai sempre uno spazio un po' limitato. Scrivere un libro è tutta un’altra cosa. Secondo me la forma che ho scelto è la più diretta, in ogni caso è quella che mi è venuta spontanenamente. Ho pensato che se io raccontavo questa storia e contemporaneamente descrivevo cosa avevo provatoavrei realizzato  un mix interessante. Ci ho ho lavorato tanto, ma in definitiva la stesura finale è variata di poco rispetto a quella originale...”

Racconti anche di non aver desiderato subito di scrivere il libro.

“Inizialmente non volevo. Non mi considero una star, siamo dei giornalisti, le star sono altre. Per questo ho mantenuto un bassissimo profilo. Poi l’ho mandato al mio editore perchè è un mio amico, giusto per avere un’opinione. In quel periodo erano usciti tanti libri sull’Afghanistan… Perché anche il mio? Ma ad un certo punto ho pensato che andava scritto, che era un dovere anche nei confronti di amici che erano morti, gente che aveva sofferto. E poi per chiunque volesse sapere il resto della storia”.

E volutamente non ha affrontato le polemiche sorte dopo la liberazione, nonostante lo abbia rielaborato proprio in quei giorni. Perché?

“In Italia fanno polemica su tutto. A loro interessano le loro polemiche e così tutto diventa strumentale. Persino i morti. ‘Scambio, non scambio, trattativa...’ Non sanno nemmeno cosa sono i talebani! Adesso si negozia con i talebani. Sono cose che accadono purtroppo sempre più spesso, quindi è ovvio che di fronte a delle vite umane si negozi. Erano polemiche astruse, mi facevano molto male…”

Ed i talebani poi, sono stati accostati anche alle Brigate Rosse…

“Secondo me non hanno idea di cosa siano i talebani. E’ un accostamento infelice e che non ha senso, perchè sono due realtà completamente distinte. Le Brigate Rosse erano un piccolo gruppo degli anni settanta, con un alto livello d’istruzione. Con i talebani parliamo di una parte consistente del paese, il 5% della popolazione. Non sono nati sull’onda di un progetto politico, come le Brigate Rosse. Sono presenti da tantissimo e sono stati al potere per anni.

Ed hanno lasciato il Paese allo stato medioevale. E non solo perchè costringevano le donne ad indossare il burqa, ma perchè vietavano qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di cultura, d’informazione, perchè vivevano nell’ignoranza. I talebani hanno paura del diffondersi della cultura, perchè attraverso la cultura tu riempi le menti delle persone e quando una persona può farsi delle opinioni magari sceglie e quindi può cambiare. Loro temono questo.”

Cosa è, cosa era per te la paura?

“La paura la viviamo sempre. Per esempio l’ansia alla mattina, quando temiamo di non riuscire ad arrivare a fine giornata. Ma la paura che ho provato quando ero prigioniero era diversa, era la paura di perdere tutto, di non poter continuare a fare quello che facevo. In questo caso quindi hai la paura del confronto anche con te stesso. La paura di misurarti con te stesso: come potrai reagire alla prova della morte? Di fronte al fatto che sei rimasto un sopravvissuto e quindi come potrai reagire dopo? Paura di essere diverso, e quindi non essere più come prima, di non conoscerti più e quindi non saperti più misurare con il mondo esterno. Ma oggi, per fortuna, quei fantasmi sono alle spalle…”

La tua non è stata una prigionia "classica". Nel corso di quei giorni hai 'studiato' a fondo i tuoi carcerieri. Chi erano quei talebani?

“Si, abbiamo parlato molto. Ho scoperto che sono dei gran bugiardi, che sono in fondo dei criminali, sono delle persone che in realtà non vogliono sicuramente il bene del Paese. Si sentono detentori o custodi della verità assoluta, in senso religioso. Un fenomeno di fanatismo estremo, come ai tempi dei crociati. Quando c’è il fondamentalismo e il radicalismo si arriva inevitabilmente al fanatismo e quindi alla convinzione di essere nel giusto. Fino alla decisione di farsi esplodere. Ritengono che qualcuno ti abbia dato il diritto di farlo. Ma chi? Sulla base di cosa? Per seguire i precetti del Corano? Io ho tanti amici musulmani che li additano come pazzi: pazzi che la guerra ha trasformato in terroristi.”

 

Come vedi oggi il futuro dell’Afghanisthan?

“Sono favorevole al nuovo approccio di Obama che consiste nel coinvolgere tutti gli Stati e i gruppi che circondano l’Afghanistan. Non è una cosa semplice ma bisogna convincere gli altri paesi ad assumersi le proprie responsabilità.”

Quindi un briciolo di ottimismo nei confronti dell’approccio di Obama?

“Sì, sono ottimista rispetto a questo approccio perchè è completamente diverso da quello precedente di Bush. Trovo che stia producendo dei risultati. Il fatto che il Pakistan all’inizio dell’anno abbia avuto più morti che in Afghanistan, significa che ha un problema serio, in casa. E quindi bisogna combatterlo. Poi si potrà negoziare, appena si ottengono dei risultati. Ormai si parla di negoziato, ed è normale che sia così. Questa è una parola che spaventa gli italiani forse…”

Parliamo dell’attività di Emergency in Afghanistan...

Emergency è una grandissima organizzazione non governativa, presente anche qui negli Stati Uniti, fa un lavoro egregio, riconosciuto da tutti, sia da esponenti di destra che di sinistra in vari paesi. Loro si occupano della prevenzione e della cura dei feriti di guerra e quindi è ovvio che siano presenti nelle situazioni di guerra e nelle zone di front-line, in prima fila. 

L’unico ospedale presente lì è stato costruito da loro e permette a tutti, senza distinzione, di essere curati. Questa cosa magari dà fastidio agli inglesi che son presenti lì, o ad altri. Se costituisce un problema che delle figure neutrali, curino anche dei nemici,  allora bisognerebbe chiedere a quelli che hanno fatto il giuramento d’Ippocrate. Dovrebbero rifiutarsi, fare obiezione di coscienza e dire: ‘voi siete i cattivi perciò noi non vi curiamo’? Lo trovo un po' stupido.

In realtà la decisione di scegliere i medici di Emergency come mediatori è una cosa dipesa dal governo afghano e dalla sua sovranità. Ha agito attraverso Emergency perchè era l’unica forza presente sul territorio."

C’è un messaggio particolare che negli Stati Uniti più che in Italia vorresti portare con il tuo libro?

“Quello che voglio fare è offrire un piccolo contributo ai lettori americani e raccontare chi sono queste persone che vivono a decine di migliaia di chilometri. Quindi, in qualche modo, prendere per mano il lettore, portarlo dentro, nel Sud dell’Afghanistan, in un’area considerata  territorio storico talebano. Sono in molti a chiedersi chi sono queste persone che hanno dato ospitalità a quel Bin Laden che si è assunto la responsabilità dell’attentato delle torri gemelle.

Voglio  raccontare al pubblico il mondo di queste persone, il loro diverso concetto di giustizia, di religione, cosa pensano delle donne, degli uomini, del cinema, della tv... Penso che sia fondamentale che non ritornino più al potere in Afghanistan.”

Quella di fare il giornalista di guerra è una tua scelta? 

“Obbligata, a causa delle due guerre che ci sono state durante l’amministrazione Bush. Prima ero un inviato internazionale, ma viaggiavo spesso in Medioriente.

Ma hai fatto anche molta cronaca giudiziaria...

“Dieci  anni, durante l’inchiesta di Mani pulite. Scalfari, il direttore di Repubblica, mi chiamò per seguire la squadra investigativa a Roma, allora io ero in giro per l’Europa. Ma nel giudiziario non mi sentivo troppo a mio agio. Bisogna esserci portati, però è stata un’ottima scuola. Serve tantissimo, perchè è una scuola di pratica. Ma poi ho smesso e sono tornato a fare quello che facevo prima, l’inviato.”

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