Articles by: Donatella Scatamacchia

  • Arisa: il riflesso dell'identità lucana


    Arisa: A come papà Antonio, R come Rosalba, se medesima, I come Isabella, la sorella fotofrafa, S come la piccola di casa Sabrina, A come la mamma Assunta. Nel giro di pochi giorni è diventata una star: decine sono i video postati su youtube (www.youtube.com/watch) con migliaia di visite, più di 18 mila sono i fans su facebook. Il suo nome d'arte è l'acronimo familiare, ha vinto l'ultima edizione del Festival di San Remo nella categoria Nuove Proposte, ed è lucana. Nulla di strano o di particolare se non fosse che si tratta di una ragazza estremamente particolare che rispecchia l'identità della sua gente, i lucani.

     

    E' nata a Genova, ma i suoi genitori sono originari di Pignola, un piccolissimo centro in provincia di Potenza, dove Rosalba Pippa (è questo il suo vero nome) ha vissuto la sua infanzia e adolescenza nella semplicità più assoluta. E' dotata di una personalità artistica a 360 gradi; infatti è esperta di trucco teatrale, è pittrice e grafomane, ovviamente con una passione spropositata per la musica e la canzone. E così passa la sua vita tra un concorso canoro e l'altro, fino a quando, nel 2007, vince una borsa di studio presso il CET di Mogol a Roma. Ancora nulla di strano.

     

    Senza dubbio quella che ha presentato a San Remo è una canzone originale e diversa rispetto alle altre; senza dubbio, anche i profani in materia musicale, si accorgono che ha una bella voce. Senza alcun dubbio il suo modo di vestire un pò retrò e anni Venti è molto personale e "da personaggio". Ma allora perchè è diventata un vero e proprio fenomeno mediatico in un arco di tempo brevissimo?

     

    E' la sua personalità. Timida, tenera, dolce, umile. E' un personaggio unico. Talmente sui generis che più di qualcuno si chiede se ci è o ci fa. Assolutamente ci è! E lo si vede quando canta: si isola per entrare in un mondo tutto suo, poi smette e scappa via, senza guardare neanche per un attimo all'interno della telecamera.

     

    Una spiegazione, che va oltre le strategie della ricerca della popolarità, l'avrei. Molto del carattere di una persona dipende dall'ambiente in cui è cresciuta, e Arisa è cresciuta in Basilicata. E' una terra sconosciuta come lo sono i suoi abitanti, isolata tra i monti, neanche troppo alti, dell'Appennino meridionale, ricoperta di boschi e sterminati campi di grano. Il popolo lucano è abituato a stare in disparte, in un piccolo mondo fatto ancora di cose semplici, in cui l'umiltà e il duro lavoro restano i valori fondanti della società. E' un mondo senza tempo.

     

    Arisa esprime profondamente l'essenza dei lucani e della Lucania. Per fortuna o per sfortuna (dipende dai punti di vista) lei è proprio così come appare. Perchè così apparentemente fuori posto ci sentiamo noi lucani....non è una questione di insicurezza. E' solo il bagaglio culturale che ci portiamo dietro, quella solitudine geografica che si rispecchia nel nostro modus vivendi.

     

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  • Recensione: "Scuorno" di Francesco Durante. Ritratto della complessità napoletana


     

    Quando sette anni fa mi iscrissi all'università fu con una certa inconsapevolezza e casualità che mi ritrovai a Napoli. E con la stessa inconsapevolezza vissi il mio primo approccio con la città: questo mi aiutò a calarmi, senza che io me ne accorgessi, in una strana realtà, fatta di complessità e dualità, di riso ed urla , di divertimento e tristezza. Fu così diventai napoletana di adozione.
    Però, nonostante Napoli sia diventata la mia casa, non sono mai riuscita ad esprimere, a cercare di spiegare a parole ad un non-napoletano che cosa significhi questa città. In questa impresa penso ci sia riuscito Francesco Durante con “Scuorno”, ossia “vergogna”.
     
     
    Quello di Durante è il ritratto della Napoli come l'ho sempre percepita: una sorta di contraddizione in termini, tutto ed il contrario di tutto. Infatti attraverso gli episodi della sua personale esperienza napoletana, l'autore mette a nudo la personalità della città: “Napoli non è omologata, vive sui tempi di un suo orologio che di tutto si cura fuorchè dell'ora esatta, Napoli è il tropico a un passo dall'ultimo autogrill. Munnezza e bellezza, perchè questa città è per l'appunto anche bella d'infamia...”. Quindi quello di Durante non è l'ennesimo libro di denuncia di una assodata difficile realtà sociale, ma il ritratto di una Napoli che non è solo “munnezza” e camorra.
     
    Inevitabilmente la complessità del soggetto trattato, porta l'autore alla stesura di un libro altrettanto complesso, articolato in capitoli che non solo sono il racconto di fatti ed episodi. Da questi infatti viene preso lo spunto per un discorso molto più ampio ed articolato che percorre i più svariati temi: la storia, con uno sguardo particolare alle “rivoluzioni....Meglio si farebbe a chiamarle rivolte o, più all'antica, tumulti, moti, rivolture. Improvvise tempeste che si scatenano nel mare, e sollevano onde impressionanti, e inghiottono superbi navigli. Poi il mare si ferma...e sembra che non si sia mai mosso”; la lingua (“ancor oggi, certi bassifondi della lingua sono l'ardito ponte lanciato sopra gli abissi che separano le classi. E' attraverso il linguaggio che si stabiliscono una contiguità ed una complicità...”), la cultura, la geografia (ciò che l'autore definisce “connubio tra natura e cultura....l'incomparabile scenario naturale oltre che quello monumentale”), il costume, l'intimo rapporto che la città ha con la religione ed i suoi innumerevoli santi, la politica ed il suo "familismo".
     
     
    Il filo conduttore resta sempre lo stesso, ossia la dualità, e di conseguenza per ogni ragione di cui “mettersi scuorno” ci sta il suo opposto di cui andare fieri, per ogni torto subito ci sta almeno un motivo che subito dopo ti riporta al sorriso.
    Ad ogni modo questa sua particolarità ti impedisce di conoscerla a fondo ma ti permette anche di non dimenticarla mai e di lasciarla sempre a malincuore...o come è successo all'autore, di non lasciarla più senza nemmeno sapere il perchè.
     
     
    Editore: Mondadori
    Collana: Scrittori italiani e stranieri
    Autore: Francesco Durante
    Data di Pubblicazione: 2008
    ISBN: 880458260X
    Pagine: 208
     

  • Festival di Ravello: musica, arte, cultura sospese tra sogno e realtà


    Tutto ebbe inizio nell'estate del lontano 1953 quando in occasione del settantesimo anniversario della morte di Wagner, i “Concerti wagneriani nel giardino di Klingsor” (come diceva testualmente la copertina del programma di sala) presero avvio con due serate affidate all’Orchestra del Teatro di San Carlo (Napoli) diretta da Hermann Scherchen e William Steinberg. Ed è allora che Ravello assunse l'identità di “Città della Musica”.

     

    Ma perchè proprio Ravello, un paesino della costiera amalfitana di appena 2500 anime? Molti parlano dello “spirito di Ravello”, una sorta di aureola che rende la cittadina ed i suoi abitanti sospesi nel tempo, in una realtà da favola fatta di bellezze naturali e memorie storiche immerse in una quiete surreale dove il bello e la crescita interiore ne fanno da protagoniste. Nel corso dei secoli infatti Ravello ha saputo coltivare nel miglior modo possibile l'enorme patrimonio culturale in suo possesso, identificato soprattutto nel passaggio e soggiorno di grandi personalità geniali, che hanno caratterizzato la cittadina ravellese di un'intensa attività culturale ed intellettuale.

     

    Così per quanto riguarda la musica, oltre a Wagner che ha trovato a Villa Rufolo gli spunti per la scenografia del secondo atto del Parsifal, compositori come Giuseppe Verdi, Edvard Grieg, grandissimi esecutori e direttori d'orchestra, da Bruno Walter a Arturo Toscanini, da Leopold Stokowski a Wilhelm Kempff, da Leonard Bernstein a Krzysztof Penderecki, da George Prêtre a Lorin Maazel, qui hanno soggiornato e fatto musica. Ma non solo, personalità importanti che hanno tratto da Ravello la propria ispirazione, emergono nel campo delle arti figurative (Ruskin, Mirò), della letteratura (nel Decamerone, Giovanni Boccaccio si ispira ai giardini di Ravello nella descrizione dei luoghi incantati che fanno da sfondo alle novelle), del cinema (Humphrey Bogart, King Vidor, John Huston, Jennifer Jones, Paul Newman, Tim Robbins, Susan Sarandon e tanti altri divi hanno soggiornato e lavorato a Ravello, nonché i panorami ravellesi hanno fatto da sfondo a innumerevoli film, tra cui Ninfa Plebea di Lina Wertmuller) e addirittura nell'ambito delle scienze (l’economista John M. Keynes ha soggiornato all'albergo Caruso, il biochimico premio Nobel Francis Crick a Villa Cimbrone, il pedagogista Jean Piaget a Villa Maria).

     

    Queste argomentazioni dovrebbero bastare a spiegare il perchè già negli anni Trenta del '900 l'orchestra del Teatro di San Carlo (Napoli) vi si esibì un paio di volte, con programmi legati proprio a Wagner. Per anni infatti, anche dopo la nascita ufficiale del festival, Wagner è rimasto il protagonista indiscusso dell'evento e tuttora l’avvenimento sinfonico clou di ogni edizione viene devotamente riservato alle sue musiche.

     

    Oggi il Festival di Ravello è considerato uno dei più importanti avvenimenti italiani di portata internazionale, un vero e proprio esempio di made in italy ben riuscito, tra l'altro sempre all'avanguardia ed al passo con i tempi. Basti pensare alla costruzione dell'auditorium nel 2009, che potrà ospitare eventi anche nella stagione invernale, dal momento che tutte le manifestazioni fino ad oggi sono fatte all'aperto, negli straordinari ambenti esterni delle ville ravellesi e sul famoso palco sospeso nel vuoto.

     

    L'attuale edizione è dedicata al tema della Diversità (ogni anno infatti il festival viene messo in una “cornice” diversa) a cui parteciperanno 850 artisti, in 143 eventi, suddivisi per 127 giorni.

    Per l'occasione il Professor Domenico De Masi, Presidente della "Fondazione Ravello", ci ha rilasciato una breve intervista:

     

    La scelta del tema della “Diversità” è legata in qualche modo al periodo storico che stiamo vivendo, in cui la diversità appunto viene intesa soprattutto in un'accezione negativa piuttosto che positiva e rafforzativa della cultura stessa?

    Il Consiglio di Indirizzo della Fondazione Ravello sceglie ogni tre anni i temi del triennio successivo. “La diversità” è stato scelto fin dal 2006, quando il tema era già cruciale per l’Italia, ma non ancora scottante come lo è oggi, alla luce delle crescenti reazioni razziste di molti italiani e alla luce delle leggi sempre più severe che il Governo vara contro l’immigrazione degli extra-comunitari.

     

    In che senso il Festival di Ravello, come è stato in più occasioni sottolineato da Lei, è un vero e proprio "prodotto" del made in italy?

    Il Made in Italy si connota per la sua raffinatezza, la sua creatività, la sua originalità, la sua varietà. Tutte queste caratteristiche si ritrovano nel Ravello Festival, che si rivolge a un pubblico selezionato di spettatori interessati a gustare il piacere dell’ozio creativo: una vacanza in cui il corpo riposa e la mente crea.

     

    Per quanto riguarda la questione, ormai chiusa, relativa alla costruzione dell'auditorium, in che senso più volte si è parlato di “auditorium della discordia”? E quali sono i benefici che l'auditorium stesso porterà al Festival e soprattutto alla città di Ravello?

    A Ravello ci sono 18 alberghi (di cui quattro alberghi a 5 stelle) che chiudono alla fine di ottobre e riaprono alla fine di marzo. Questo patrimonio straordinario è sotto-utilizzato perché, quando finisce l’estate, terminano anche i seminari, i convegni, i concerti e gli spettacoli, a causa del freddo che impedisce eventi all’aperto. Un numero enorme di persone resta disoccupato. Occorre dunque una sala capace di accogliere tutte queste attività culturali anche durante l’inverno. Ecco l’esigenza dell’auditorium.

    Ovviamente Ravello non è un luogo qualunque, dove si può costruire disinvoltamente: è un luogo bellissimo, ricco di monumenti e di panorami unici al mondo, che vanno rispettati. Di qui l’idea di affidare il progetto al massimo architetto vivente: Oscar Niemeyer.

    I benefici enormi che potranno scaturire da questo capolavoro di Niemeyer, completo nel maggio 2009, dipenderanno soprattutto dalla capacità di sfruttare tutte le potenzialità dell’auditorium attraverso una programmazione perfetta di mostre, convention concerti, ecc. Ma questo dipenderà dalle capacità organizzative e creative del Comune.

     

     

     

  • La fuga dei "pennelli"


    Oramai sembra che parlare di “fughe” dal Bel Paese sia diventata la normalità. Quella più clamorosa e devastante per l'economia italiana è stata e continua ad essere di certo la “fuga di cervelli”. A partire dagli anni Sessanta, da quando il “sistema” Italia ha deciso di puntare sull'industria dei prodotti di largo consumo a discapito dell'innovazione, è iniziato l'esodo verso le grandi capitali del mondo industrializzato delle migliori menti italiane. La mancanza di fondi ed investimenti, pubblici e privati, nel campo della ricerca nelle Università e dello sviluppo tecnologico nelle industrie continua inoltre ad essere la causa che alimenta ancora oggi la “fuga”. Le conseguenze tra l'altro sono sotto gli occhi di tutti, tanto che siti web, articoli e libri sono stati scritti sull'argomento: la domanda che emerge ogni volta è che se sia possibile lo sviluppo senza innovazione. La risposta non può che essere negativa ma, nonostante tutto i cervelli continuano ad emigrare là dove la propria innovazione e le proprie capacità trovino un senso concreto.

     

    Altre “fughe”, meno conosciute, forse perchè meno incisive sullo stato di salute del Paese, sono in atto. Si è parlato di fuga degli atleti, soprattutto dei più giovani, quelli che, in Italia, per poter dedicare anima e corpo alla propria disciplina sportiva sono costretti o ad abbandonare gli studi oppure ad intraprendere la carriera militare. All'estero invece hanno la possibilità di continuare a studiare ed allenarsi contemporaneamente grazie alle borse di studio e ad edificarsi così, un futuro più stabile anche dopo la fine della carriera sportiva.

     

    L'ultima arrivata è la fuga degli artisti. L'occasione per parlarne è la XV Quadriennale di Roma (dal 19 giugno al 14 settembre al Palazzo delle Esposizioni, www.quadriennalediroma.org/) in cui espongono, tra gli altri, sedici artisti italiani che hanno deciso di esprimere e dedicarsi alla propria arte in altri paesi. E' assolutamente vero che essere un artista significa viaggiare, conoscere, curiosare e sperimentare, ma è anche vero che un artista per poter sopravvivere deve esporre le proprie opere. A quanto pare sembra che in Italia sia diventata un'impresa ardua. Così qualcuno ha scelto la Francia, altri Berlino, New York e persino la Cina.

    I problema è sempre lo stesso: mancanza di spazio, per artisti come Nicola Verlato (www.nicolaverlato.com/), da cinque anni a New York dove i suoi quadri sono ben valutati, e di innovazione e sperimentazione, come per Deborah Ligorio (www.deborahligorio.com/), trasferitasi a Berlino perchè considerata una città molto più sperimentale di Milano.

     

    Un tempo, forse neanche troppo lontano, artisti ed aspiranti tali arrivavano in Italia alla ricerca dell'ispirazione, offerta loro dal piacevole e spensierato way of life tipicamente italiano. Ma non solo, dopo l'ispirazione soprattutto, arrivava anche la gratificazione. Oggi invece tutto sembra decadere, anche l'arte, paradossalmente in uno di paesi più artistici del mondo, dove ogni luogo, anche il più sperduto paesino di epoca medievale, assomiglia ad un museo a cielo aperto.

     

  • Domenico Nesci: il “Mastroianni del Duemila”?


    La mia personale ignoranza in tema di reality show mi ha portato alla conoscenza di Domenico Nesci solo di recente, senza sapere che il compaesano negli Stati Uniti è una vera e propria star. Ho iniziato così a cercare notizie su google riguardanti Domenico Nesci ed il reality, andato in onda su Mtv lo scorso marzo, di cui è stato il protagonista, That’s Amore, ed ho appreso, con stupore, che Nesci non è una star solamente negli Usa ma anche in Italia, tanto che proprio in questi giorni sono state trasmesse, anche nel nostro paese, le ultime puntate del fortunato reality.

     

    Per chi come me ancora non lo conoscesse, stiamo parlando di un ragazzo di ventisette anni, di origini calabresi, cresciuto nel bergamasco, emigrato prima in Australia e poi negli Stati Uniti, con il pallino di sfondare nel mondo dorato dello spettacolo, e a quanto pare c’è riuscito. Fino a qui nulla di particolare, dal momento che la particolarità ed il motivo del suo personale successo risiedono in quello che è il format dello stesso reality, di cui è appunto il protagonista: ambientato in una villa faraonica colorata di rosso, bianco e verde, Domenico è sottoposto all’arduo compito di dover scegliere una delle 15 ragazze che nel ruolo di corteggiatrici sono disposte a fare di tutto pur di essere l’oggetto della scelta di Domenico. In questo contesto il protagonista ha dato libero sfogo a qualsiasi tipo di stereotipo del maschio italiano, e ad ogni tipo di luogo comune legato al nostro paese: basti pensare che il confessionale, tipico di qualsiasi reality show degno di questo nome, è caratterizzato da una tovaglia a quadrettini, con appesi ad una corda provoloni, salsicce e pomodorini.

     

    Se negli Stati Uniti le sue tecniche di “seduzione alla carbonara” lo hanno fatto diventare il “Mastroianni del Duemila”, come lui stesso si definisce, sui blog italiani si è accesa una vera e propria disamina proprio su quegli stereotipi del maschio latino che Nesci incarna alla perfezione e sul perché l’uomo italiano, nel 2008, viene dipinto come colui che si fa leccare i piedi da una donna.

     

    Forse come prevedibile, il punto di vista ed il giudizio italiano su That’s Amore e su Domenico Nesci non è propriamente positivo (“Sono imbarazzanti sia l’uomo che la trasmissione, e tanto per cambiare non facciamo nulla per allontanarci dagli stereotipi che al solito ci inseguono in giro per il mondo”, da TV-Blog), anche se non mancano commenti rincuoranti (“Meglio questo che italiani uguale mafiosi…”).

     

    Ad ogni modo, come qualcun altro fa notare, nonostante la maggior parte di noi italiani non cuciniamo questi famosi spaghetti con le polpette, rimangono pur sempre l’oggetto di una delle scene più belle di “Lilly e il Vagabondo” (film di animazione della Disney), quindi lo stereotipo è esistito, esiste e penso proprio che continuerà ad esistere, ma paragonare Domenico Nesci a Mastroianni mi sembra piuttosto eccessivo.

     

     

     

     

     

  • Recensione: “Nessun porco è signorina”. I bambini dei quartieri popolari napoletani raccontano...



    Circa vent’anni fa Marcello D’Orta, allora maestro in una scuola napoletana, si cimentò in un’impresa alquanto originale: raccolse in un libro, dal titolo “Io speriamo che me la cavo”, i temi dei suoi alunni. Il libro ebbe un successo straordinario: i bambini con la loro naturalezza ed ingenuità scrissero temi che riguardavano la propria quotidianità in una Napoli dove è assolutamente difficile vivere l’infanzia serenamente, ma nonostante tutto il risultato fu un libro divertente, intriso di una poesia e di una fantasia naturali ai bambini e, per qualche motivo, soprattutto ai ragazzini napoletani.

     

    A distanza di vent’anni, appunto, l’autore realizza un altro collage di elaborati, questa volta però aventi un tema specifico: il rapporto che i bambini napoletani, e più precisamente i bambini dei quartieri popolari della città (Forcella, Secondigliano, Sanità), hanno con gli animali. Il libro nasce da un progetto ben preciso che è quello di sostenere, evolvendo tutti i proventi delle vendite del libro, la Lav. La Lav (Lega Anti-Vivisezione italiana) è la più importante associazione animalista italiana, che da anni si batte contro tutte le forme di violenza e sfruttamento degli animali. Così, in seguito alle attività di educazione nelle scuole da parte dei volontari della Lav, i bambini napoletani hanno dato libero sfogo alla loro fantasia, seguendo ovviamente tracce ben precise assegnate dallo stesso D’Orta.

     

    Al di là dell’amore innato e spontaneo che i bambini provano nei confronti degli animali (Io prima di scamozzare una zanzara, gli dico un padrenostro), dal libro emerge, ancora una volta, la realtà di una vita difficile (A Natale i pescivendoli sono mariuoli più del normale, e noi il capitone non lo possiamo comprare), in cui è più facile credere nelle Bibbia che in un libro di scienze (…Ora se l’uomo discende dalla scimmia, allora significa che Adamo ed Eva erano due scimmie. Apparte che se erano due scimmie, Dio non gli diceva <<Non mangiate quella mela>>, ma <<Non mangiate quella banana>>…. Io non ci capisco granchè, l’unica cosa che so è che non discendiamo dalle scimmie), e dove la malavita è onnipresente (Qui a Secondigliano ci sono meno animali in giro che a Napoli perché i camorrista della malavita, appena ne vedono uno, subbito se lo pigliano e lo portano a casa…).

     

    Il risultato è quindi l’aver creato una finestra sulla realtà popolare napoletana al di là della quale si osserva però con gli occhi ingenui, sinceri, vispi ed ironici dei suoi bambini.

     

    Editore: Mondadori
    Collana: Biblioteca umoristica Mondadori
    Curatore: D'Orta M.
    Pagine: 129
    ISBN: 880457772X
    Data pubblicazione: Apr 2008

  • Il libro. "Mille anni che sto qui" di Mariolina Venezia. Lucania nel cuore



    “Non è facile raccontare questa storia a chi non conosce la valle del Basento, il cielo celeste come i colori a matita dei bambini, i pendii che il grano rende verdi a primavera e gialli d’estate, i fuochi delle stoppie, i tralicci per l’estrazione del petrolio, i paesi agonizzanti sulle colline, il volo del nibbio”.

    E’ così che l’autrice esordisce nell’ultimo capitolo del libro, ed è impressionante come questo sia vero. La lettura di questo libro mi è stata consigliata da una cara persona in un momento particolare: sono Lucana e, mi verrebbe da dire, in quanto tale, ad un certo punto della mia vita ho iniziato a rinnegare le mie origini e le mie radici, la mia “lucanità”. Ed è sorprendente come questo libro renda chiaro il perché di questo passaggio: è come se la Basilicata o Lucania, la terra che fa da sfondo all’intero romanzo, si sia fermata in un mondo senza tempo, in cui a cambiare è solo l’involucro, tutto il resto invece non cambia mai, resta sempre allo stesso punto. E così che il sentimento di amore ed odio diventa inevitabile.

     

    Ma il romanzo di Mariolina Venezia non spinge solamente all’introspezione di una lucana proiettata nel mondo e nel futuro; è un libro affascinante in cui le storie, i drammi e le felicità di uomini si fondono a quelli della storia d’Italia, ripercorrendola dall’Unità del paese nel 1861 alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Tutto ruota intorno alle vicende di una famiglia di Grottole, un paesino in provincia di Matera, nata dall’unione (mai ufficializzata) di don Francesco, il ricco ma buzzurro proprietario terriero, e la sua amante Concetta. Sono vicende che coinvolgono fratelli, sorelle, figli, nipoti e pronipoti in cui emerge una società estremamente maschilista ma dove, quella a cui tocca prendere le decisioni della vita è sempre la donna. Così la protagonista vera è Candida, figlia di Albina, nipote di Concetta, madre di Alba, nonna di Gioia.

     

    Poi ci sono le singole vicende di ognuna di loro che si immergono nella storia: le esperienze durante il periodo del brigantaggio, la devastante partenza per “la Merica” alla ricerca di un mondo dignitoso, la tragedia della Grande Guerra, l’abbandono della propria terra per lavorare a “l’altitalia”, fino ai travolgenti anni Sessanta e Settanta, che in realtà tanto travolgenti per i grottolesi non furono, tanto che Gioia per la sua inesauribile sete di libertà si sentì costretta ad abbandonare la propria famiglia per seguire i figli dei fiori.

     

    Alla fine però, dopo mille esperienze, drammi e difficoltà è proprio a casa che torna, in quella terra che un tempo la faceva sentire prigioniera, per ritrovare se stessa e ricominciare a vivere.

     

    "Mille anni che sto qui"

    Mariolina Venezia

    Torino : Einaudi, 2007

     

     


     


  • Il "caso Mussolini" è chiuso

    Le vicissitudini relative alla riapertura del fascicolo sulla morte di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, pare siano terminate lo scorso giovedì, 10 aprile, con la decisione della Corte di Cassazione di non riaprire l’inchiesta.

    La morte di Mussolini e della sua amante è da alcuni considerata un vero e proprio giallo, un caso irrisolto che il nipote del duce, Guido Mussolini, ha voluto riportare alla luce nel 2006. Secondo la tesi sostenuta dall’avvocato di Guido Mussolini, Luciano Randazzo, l’uccisione del duce non avvenne per mano dei partigiani nelle strade di Giulino di Mezzegra, un piccolo paese non lontano da Como, mentre Mussulini e la Petacci stavano fuggendo in Svizzera, ma all’interno di casa De Maria a Mezzegra, dove i due sarebbero stati uccisi nel sonno la notte tra il 27 ed il 28 aprile del 1945. Si tratterebbe di un omicidio premeditato i cui mandanti sarebbero stati i servizi segreti inglesi.
    In un’intervista dello scorso settembre, lo stesso Randazzo dichiara:

    "Abbiamo la certezza dell’esistenza di una lettera datata 1944, conservata nell’archivio di Stato britannico, nella quale un alto rappresentante del governo inglese inserito nel comitato di liberazione dell’Alta Italia propone a Churchill in persona l’uccisione di Mussolini. Si tratta di un documento importante perché proverebbe che l’omicidio del duce era premeditato".

    La storia parla di un interessamento degli inglesi alla valigetta in cui Mussolini si dice conservasse dossier su tutti i personaggi di spicco, italiani ed esteri. Tra i vari documenti che viaggiavano con il Duce vi sarebbe stato anche il famoso carteggio con lo stesso Churchill. Quando Mussolini lasciò Villa Feltrinelli, sul Lago di Garda, questa venne perquisita dagli inglesi e pare che fu stilato un lungo elenco dei documenti trovati, rapporto conservato a Londra, proprio all’archivio di Stato.

     
    Le richieste dei legali di Guido Mussolini hanno avuto però esiti negativi poiché, appunto, la Cassazione ha dichiarato “inammissibile” il ricorso presentato dal discendente del duce contro l'archiviazione del caso disposta lo scorso primo ottobre dal Gip di Como. In quell’occasione il giudice delle indagini preliminari respinse l’ipotesi avanzata da Guido Mussolini in quanto “l’omicidio del duce – così come si legge nelle motivazioni di sentenza - rientra nell’ambito di applicazione di un decreto che dispone il non essere punibili tutti quegli atti considerati azioni di guerra”.

    Contro la decisione del Gip di Como i legali di Guido Mussolini hanno fatto ricorso sostenendo che la motivazione del Gip è “meramente apparente” e che l’omicidio del duce non può essere dichiarato prescritto “perché non si tratta di un omicidio ordinario ma dell’uccisione di un capo di Stato in violazione della legge sui prigionieri di guerra”, ricorso considerato “inammissibile”.

    Se Guido Mussolini negli ultimi due anni ha parlato di “giallo” facendo ricorso più volte alla giustizia, l’altra e più note nipote del Duce, l’On. Alessandra Mussolini, non ha sostenuto le tesi del cugino, dichiarando di voler lasciare riposare il nonno in pace e mettendo in dubbio l’esistenza stessa di questo “giallo”.