Articles by: Gennaro Matino*

  • Opinioni

    Quando la violenza è uno dei tanti passatempi


    «I GIOVANI non sono più quelli di una volta». Non so se questa affermazione sia completamente vera, ma fatto sta che quando sento parlare di violenza giovanile, salvando la gran parte dei nostri ragazzi, prime vittime di questa violenza, mi sento profondamente a disagio. Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente.


    Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente di pena e di rabbia, da un senso di imbarazzo che mi rende incapace sia di accettare, sia di comprendere appieno questo aspetto aberrante del mondo giovanile.


    È quello che ho provato questa settimana, di sicuro non io soltanto, di fronte a nuovi episodi di bullismo con cui la città ha dovuto fare i conti, con quella spietata microcriminalità, parola che abbiamo coniato per descrivere quel mondo di volgarità, di coltelli, di sevizie che vede attori ragazzini in aperta sfida contro le regole.


    Non c’è ormai zona o quartiere della città che ne venga risparmiato, centro o periferia sono ormai uguali nell’essere offesi dalla furia incontrollata e squadrista di ragazzacci pronta a usare coltelli o a minacciare con pistole chiunque capiti a loro tiro per solo e puro divertimento, per dare forse significato a una serata da vivere in maniera alternativa.


    Tanti si aspettano più repressione. Ma la repressione da sola non può bastare, altro richiede come risposta il tormento violento di giovani vuoti che proprio con il vestirsi da “bulli del sabato sera” raccontano la loro malata normalità, in bilico perenne tra l’essere “ragazzi perbene” e portatori insani di quella endemica noia unita a quella ricerca ossessiva di trasgressione generata “normalmente” in famiglie sempre meno “normali”.


    Per questi giovani la violenza è uno dei tanti passatempi, purtroppo solo un vezzo per poter riempire di rumore il loro tempo che altrimenti sarebbe insopportabile per l’assordante silenzio di significati.


    Indignarci va bene, protestare anche, ma basta? L’indignazione da sola potrebbe essere addirittura l’alibi degli adulti per nascondere le proprie responsabilità.


    Chi sono intanto questi ragazzi, tanti ancora giovanissimi che dovrebbero portare i calzoncini corti e invece ci terrorizzano come i più consumati delinquenti? Perché preferiscono l’assurdo del degrado della violenza piuttosto che la civiltà del dialogo?


    La nostra città non fa eccezione rispetto a quello che sta purtroppo capitando nelle grandi e piccole metropoli del mondo occidentale e per certi aspetti la violenza più cruda di altrove qui da noi per fortuna non è ancora arrivata. Ma i segni premonitori di avventure di soprusi e scorribande di una gioventù sempre più spietata sono nell’aria. Agiscono in branco perché da soli hanno paura, sono normalmente vigliacchi, da soli non ce la fanno, sembrano ragazzi tranquilli. Escono a una certa ora pronti alla bravata.


    Tutto pianificato. Maneggiano armi, seviziano donne che possono anche uccidere, si drogano insieme e insieme bevono fino ad ubriacarsi e si ubriacano e si drogano sotto gli occhi di tutti. Ma ubriacarsi non è reato! Nemmeno drogarsi! Che c’entra con la violenza? Non c’entra, infatti. Ma possono essere segnali premonitori di un disagio non risolto, soprattutto se lasciati passare come espressione di libertà individuale, tanto tutti si drogano, tutti si ubriacano e un po’ di trasgressione non fa male a nessuno.


    Comportamenti considerati normali in un tempo della crescita in cui invece ogni ragazzo dovrebbe poter fare i conti con ciò che davvero lo rende libero e ciò che invece lo schiavizza, un tempo in cui il rispetto dell’altro non può essere accessorio alla propria cognizione di libertà. E soprattutto un tempo decisivo in cui è difficile riuscire ad accettare altra autorità da quella del solo gruppo a cui appartengono.


    Altra autorità che per essere accettata non può solo fare paura, usare la stessa arma o pagare con la stessa moneta chi è violento, ma che deve essere riconoscibile per altro mestiere, altra attitudine, altra proposta, trasparente di altro messaggio alternativo alla violenza e perciò autorevole. Perché è di tale autorità che oggi la nostra città è anemica, ed è per questo che il futuro è a rischio. Autorevole dovrebbe essere lo Stato, il governo delle città che dovrebbe garantire il rispetto delle regole comuni e promuovere l’etica del bene condiviso. È autorevole chi sa essere forte dei propri convincimenti anche in famiglia, leale e perfino martire del bene comune, chi non si svende al miglior offerente sia esso il mercato, le lobby, i partiti, i poteri occulti o clericali.


    Non è autorevole invece chi si indigna per la violenza dei giovani e poi insegna ai propri figli l’etica della vendetta: “occhio per occhio, dente per dente”. Mandare in galera i ragazzini violenti forse è più facile che riconoscere che sono soggetti smarriti, soggetti persi da noi adulti che avevamo ricevuto invece il sacro compito di custodirli.

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    Quando la violenza è uno dei tanti passatempi


    «I GIOVANI non sono più quelli di una volta». Non so se questa affermazione sia completamente vera, ma fatto sta che quando sento parlare di violenza giovanile, salvando la gran parte dei nostri ragazzi, prime vittime di questa violenza, mi sento profondamente a disagio. Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente.


    Un disagio che nasce da un sentimento ambivalente di pena e di rabbia, da un senso di imbarazzo che mi rende incapace sia di accettare, sia di comprendere appieno questo aspetto aberrante del mondo giovanile.


    È quello che ho provato questa settimana, di sicuro non io soltanto, di fronte a nuovi episodi di bullismo con cui la città ha dovuto fare i conti, con quella spietata microcriminalità, parola che abbiamo coniato per descrivere quel mondo di volgarità, di coltelli, di sevizie che vede attori ragazzini in aperta sfida contro le regole.


    Non c’è ormai zona o quartiere della città che ne venga risparmiato, centro o periferia sono ormai uguali nell’essere offesi dalla furia incontrollata e squadrista di ragazzacci pronta a usare coltelli o a minacciare con pistole chiunque capiti a loro tiro per solo e puro divertimento, per dare forse significato a una serata da vivere in maniera alternativa.


    Tanti si aspettano più repressione. Ma la repressione da sola non può bastare, altro richiede come risposta il tormento violento di giovani vuoti che proprio con il vestirsi da “bulli del sabato sera” raccontano la loro malata normalità, in bilico perenne tra l’essere “ragazzi perbene” e portatori insani di quella endemica noia unita a quella ricerca ossessiva di trasgressione generata “normalmente” in famiglie sempre meno “normali”.


    Per questi giovani la violenza è uno dei tanti passatempi, purtroppo solo un vezzo per poter riempire di rumore il loro tempo che altrimenti sarebbe insopportabile per l’assordante silenzio di significati.


    Indignarci va bene, protestare anche, ma basta? L’indignazione da sola potrebbe essere addirittura l’alibi degli adulti per nascondere le proprie responsabilità.


    Chi sono intanto questi ragazzi, tanti ancora giovanissimi che dovrebbero portare i calzoncini corti e invece ci terrorizzano come i più consumati delinquenti? Perché preferiscono l’assurdo del degrado della violenza piuttosto che la civiltà del dialogo?


    La nostra città non fa eccezione rispetto a quello che sta purtroppo capitando nelle grandi e piccole metropoli del mondo occidentale e per certi aspetti la violenza più cruda di altrove qui da noi per fortuna non è ancora arrivata. Ma i segni premonitori di avventure di soprusi e scorribande di una gioventù sempre più spietata sono nell’aria. Agiscono in branco perché da soli hanno paura, sono normalmente vigliacchi, da soli non ce la fanno, sembrano ragazzi tranquilli. Escono a una certa ora pronti alla bravata.


    Tutto pianificato. Maneggiano armi, seviziano donne che possono anche uccidere, si drogano insieme e insieme bevono fino ad ubriacarsi e si ubriacano e si drogano sotto gli occhi di tutti. Ma ubriacarsi non è reato! Nemmeno drogarsi! Che c’entra con la violenza? Non c’entra, infatti. Ma possono essere segnali premonitori di un disagio non risolto, soprattutto se lasciati passare come espressione di libertà individuale, tanto tutti si drogano, tutti si ubriacano e un po’ di trasgressione non fa male a nessuno.


    Comportamenti considerati normali in un tempo della crescita in cui invece ogni ragazzo dovrebbe poter fare i conti con ciò che davvero lo rende libero e ciò che invece lo schiavizza, un tempo in cui il rispetto dell’altro non può essere accessorio alla propria cognizione di libertà. E soprattutto un tempo decisivo in cui è difficile riuscire ad accettare altra autorità da quella del solo gruppo a cui appartengono.


    Altra autorità che per essere accettata non può solo fare paura, usare la stessa arma o pagare con la stessa moneta chi è violento, ma che deve essere riconoscibile per altro mestiere, altra attitudine, altra proposta, trasparente di altro messaggio alternativo alla violenza e perciò autorevole. Perché è di tale autorità che oggi la nostra città è anemica, ed è per questo che il futuro è a rischio. Autorevole dovrebbe essere lo Stato, il governo delle città che dovrebbe garantire il rispetto delle regole comuni e promuovere l’etica del bene condiviso. È autorevole chi sa essere forte dei propri convincimenti anche in famiglia, leale e perfino martire del bene comune, chi non si svende al miglior offerente sia esso il mercato, le lobby, i partiti, i poteri occulti o clericali.


    Non è autorevole invece chi si indigna per la violenza dei giovani e poi insegna ai propri figli l’etica della vendetta: “occhio per occhio, dente per dente”. Mandare in galera i ragazzini violenti forse è più facile che riconoscere che sono soggetti smarriti, soggetti persi da noi adulti che avevamo ricevuto invece il sacro compito di custodirli.

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    Perchè Napoli non 'spuzzi'


    UNA sfida che può diventare per la sua autorevolezza una proposta politica, sociale, uno sguardo visionario per una terra che qualcuno ha tentato di ridurre a periferia del mondo, «terra di nessuno, dalla quale sradicare ogni tipo di valore». I fogli scritti tra le sue mani, preparati altrove, seguono il protocollo, lo sguardo oltre lo scritto incrocia la commozione di uomini e donne, la speranza sofferta di molti, la curiosità morbosa di troppi e lo costringe a dire oltre il previsto. Si racconta Francesco, raccoglie pensieri, traccia il confine tra quel 'AMaronna t'accumpagna e la scelta profetica di non consegnare Napoli alla corruzione che puzza, al lavoro rubato dalla decomposizione del diritto, al tempo ridotto a consumo di illegalità e di spazio sottratto alla ricostruzione del tessuto profondo della convivenza civile. «La vita a Napoli non è mai stata facile» ma «qui esiste una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi», la speranza non può abdicare, non deve, bisogna ribellarsi alla morte di futuro, bisogna combattere contro coloro che volontariamente scelgono il male e rubano la speranza a se stessi, alla gente onesta e laboriosa, alla buona fama della città, alla sua economia.

     
    «A volte capita di sentirsi delusi, sfiduciati, abbandonati da tutti» ma neanche le sbarre di un carcere possono privarci dalla speranza di riscattarci, neppure la drammatica condizione giovanile, nella città europea con il maggior numero di giovani, può farci cedere a ogni forma di complicità con lo sfruttamento, alla rassegnazione malata che toglie parole alla giustizia. «Cari napoletani, non lasciatevi rubare la speranza! Non cedete alle lusinghe di facili guadagni o di redditi disonesti. Reagite con fermezza alle organizzazioni che sfruttano e corrompono i giovani, i poveri e i deboli. La corruzione e la delinquenza non sfigurino il volto di questa bella città!». Le parole del Papa sono forti, non lasciano spazio a interpretazioni: «Il male non abbia l'ultima parola», afferma, ma è chiaro che ci sta dicendo tra le righe che nel frattempo a Napoli già si sperimenta la penultima parola.

     
    Domani il ricordo di un passaggio, parole forti, forse come quelle di Giovanni Paolo II, che proprio da Scampia provò a farci riorganizzare la speranza, anche se poi Scampia è rimasta estrema periferia di Napoli, anzi è Napoli che nel frattempo si è trasformata sempre di più in periferia del mondo. Da domani capiremo se «dopo aver ascoltato ciò che il Santo Padre ci dirà», come ha promesso l'arcivescovo di Napoli, davvero la Chiesa di Napoli si soffermerà «su quei contenuti per dar vita a un'azione pastorale ancor più incarnata nella nostra diocesi». Da domani vigileremo se dopo la venuta di Francesco, come ha annunciato il sindaco de Magistris, «in forza della giustizia sociale, la politica amministrativa della città saprà puntare sull'innovazione, sulla creatività, su nuovi mestieri e anche sulle tradizioni nel rispetto dell'identità di un grande popolo». Alla Chiesa, alla società civile la consegna di un imperativo: è tempo di riscatto per Napoli, questo è l'augurio del Papa per una città che ha in sé «tante potenzialità spirituali, culturali e umane, e soprattutto tanta capacità di amare».


    Da domani il suo augurio potrà trasformarsi in futuro o resterà una rondine isolata che non farà sbocciare una nuova primavera. Da domani «le autorità, le istituzioni, le varie realtà sociali e i cittadini, tutti insieme e concordi, possono costruire un futuro migliore ». Speriamo. Ma domani è un altro giorno, riprenderemo la vita oltre il rumore di una festa: basteranno le parole del Papa? «Sperare è già resistere al male ».


    Alla Chiesa, alla società civile la consegna di un imperativo: è tempo di riscatto per Napoli.


    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


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    Le madri, risorsa della società


    «LE DONNE parlano di se stesse », un bel soggetto per riportare la celebrazione dell’8 Marzo al centro di un dibattito alto sulla parità, sul ruolo e la missione della donna nella nostra società. Una provocazione culturale, politica, ecclesiale aperta non solo alla giusta rivendicazione sulla uguaglianza dei diritti alle donne non ancora pienamente compiuta, ma fissando l’attenzione sul tema della “differenza”, sulla specificità del femminile che non lede la fondamentale uguaglianza e parità degli esseri umani.


    È difficile dare una connotazione unitaria ai movimenti femministi del Novecento, anche perché ogni gruppo si ispira a un’antropologia dalla quale dipende una prospettiva politica. Ora sembra tuttavia che nello stesso mondo femminile, nel pianeta donna variegato e multiplo, si ponga la necessità trasversale di voler ampliare la base del confronto e dare alla lotta anche un valore di riscoperta della specificità femminile, del ruolo della donna come donna nella società contemporanea. Resta ancora forte e attuale l’invito che faceva Simone de Beauvoir, la quale affermava che le donne, per liberarsi dalla condizione d’inferiorità stabilita dagli uomini, avrebbero dovuto combattere la differenza sessuale in nome dell’egualitarismo fino ad affermare che «non si nasce donna, lo si diventa».


    UN’affermazione che vale ancora per tante culture e religioni che costringono la donna al margine della società, ma è vero anche che il movimento per la parità dei diritti tra maschi e femmine di strada ne ha fatta in tanti paesi del mondo e forse è venuto il tempo, alle nostre latitudini e non solo per le nostre, di inventare nuovi significati per la “festa della donna”, che per tanti giovani e giovanissimi sembra oggi destinata a essere solo materia per fiorai e scambio di mimose.


    Un dibattito che servirebbe anche per la nostra città, essa stessa “pianeta donna”, che deve riconoscere soprattutto all’universo femminile il merito di averle saputo dare, in tempi non troppo lontani, una certa coesione sociale, un principio di unificazione per una terra strutturalmente anarchica.


    So di incamminarmi in un terreno irto di insidie nel parlare di donne senza dimenticare che il più delle volte sono anche madri, eppure Napoli ha retto socialmente solo fino a quando hanno retto le donne, donne coraggiose, tenaci, carnali, faticatrici, sostanza di passione e sacrificio, e tra tutte loro, le donne lavoratrici e madri. C’è una relazione, a mio modesto parere, tra crisi delle nascite, precarietà della famiglia dovuta anche a mancate politiche sociali a tutela della comunità familiare, cultura della legalità e missione della donna nella società napoletana. Da noi più che altrove è stato sempre palese che il sesso forte era quello femminile, che se discriminazione c’è stata è stata determinata soprattutto dalla paura degli uomini di essere sopraffatti dall’intelligenza e dalla autorevolezza delle donne.


    La donna è naturalmente capace di governare le relazioni ed è nella sua stessa natura tenere insieme le fila della differenza di quanti le sono affidati. La parità è giusta rivendicazione anche in merito ai più alti servizi nella società, ai doveri, ai diritti, agli spazi da occupare, ma la sua specificità, il suo essere donna, è la sua vera forza. Ed è della donna, solo della donna essere madre e, quantunque se ne dica, essere madre è cosa diversa dall’essere padre, fosse anche per il solo fatto che per quei straordinari nove mesi, ognuno di noi è stato un tutt’uno con la donna che poi l’ha partorito.


    A noi maschi non è dato sapere fino in fondo cosa significhi quell’esperienza e questo, insieme a tutto il resto, fa la differenza.


    A Napoli le madri sono state l’arma segreta di questa città, alla mancanza di uno Stato forte, presente con le sue leggi e i suoi decreti, sopperiva il calore della famiglia e delle sue regole. Ma a Napoli la famiglia era la madre e funzionava se c’era la madre, se mancava rischiava di saltare.

    La modernità propone oggi altre dinamiche di aggregazione sociale, parentale, affettiva e il cambiamento indubbiamente è stato possibile anche per il nuovo ruolo della donna nella società e, chi sa, forse proprio questo cambiamento ha determinato più di altri elementi la fine di Napoli, tribù fondata sulla famiglia tradizionale.


    Sarà stato certamente un bene ma fatto sta che nel frattempo a quella società non abbiamo saputo sostituirne un’altra capace di dare valore all’appartenenza a una comunità.


    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).

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    Napoli. Al Vomero cento bimbi autistici


    “È AUTISTICO, gli amichetti non vanno alla festa di compleanno”, “Chiuso in stanza a scuola, bimbo autistico isolato in classe”: titoli di giornali dell’ultima settimana per raccontare storie dolorose, fatti di vita che riguardano tanti nostri bimbi, tanti nostri ragazzi affetti da autismo e che sconvolgono famiglie non sempre aiutate, troppo spesso lasciate sole.


    “È autistico, la scuola non lo ritiene idoneo all’iscrizione”, titoli di giornale che potremmo rintracciare facilmente anche nei giorni e nei mesi passati, sintesi spietata di una quotidianità che descrive fatti dolorosi che capitano sovente sotto i nostri occhi e che purtroppo non sempre raccolgono l’attenzione necessaria.


    So da educatore quanta complessità nasconda la vicenda di un bimbo autistico e con quanta attenzione, cura, delicatezza bisogna avvicinarsi alla sua particolare condizione, quale serena accoglienza bisogna dedicare a lui e alla sua famiglia. Capisco anche che il più delle volte l’ignoranza dell’educatore, la sua impreparazione, più che la sua negligenza o indifferenza, sia causa di sofferenza dei genitori e di offesa della dignità e del diritto del minore colpito da tale handicap. Ma non si può giustificare l’ignoranza del maestro, della scuola, del prete, di chiunque rappresenti la comunità educativa di questo Paese che, a causa della sua impreparazione, determina guasti ancora più profondi nel percorso di crescita del minore autistico. Recenti studi hanno dimostrato la possibilità di migliori risposte da parte del bimbo autistico quando è accompagnato dal calore della famiglia e da un’adeguata offerta pedagogica nel suo faticoso e complicato percorso di crescita.


    L’autismo non è un caso isolato, è bene ricordarlo, colpisce, secondo stime recenti, 1 persona su 1000, e 2 persone su 1000 ne presentano alcuni sintomi inclusi nello “spettro autistico”. L’autismo viene considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo pervasivo dello sviluppo che si manifesta entro il terzo anno di vita. La caratteristica più evidente è l’isolamento: i bambini autistici spesso non rispondono al loro nome, evitano lo sguardo e appaiono inconsapevoli dei sentimenti altrui e della realtà che li circonda. Il bambino autistico si isola dagli altri. Fugge dalla voce degli altri soprattutto quando gli parliamo direttamente, tenta di trovarsi un luogo nella vita, partendo da se stesso e da un oggetto qualsiasi che sceglie come complementare di sé. Spesso i genitori si chiedono come aiutarlo a uscire dal suo isolamento senza arrivare a forzature estreme, senza terapie psicologiche e cliniche drammaticamente invasive. Esistono modi di “seguirlo” per guidarlo nella costruzione di categorie che gli consentano di organizzare il mondo e il rapporto con gli altri. Esistono spazi pedagogici dove queste modalità in maniera pionieristica vengono sperimentate in accordo tra struttura sanitaria e famiglia.

     

    A Napoli, al Vomero, c’è un progetto pilota, promosso dall’Asl con le famiglie, di adozione scolastica e sociale dedicato a cento bambini autistici che vivono nel quartiere e che speriamo possa presto ripetersi altrove. Il bambino viene preso in cura dai suoi tutor che lo presentano ai compagni di classe, informano gli altri bambini e li sensibilizzano sull’accoglienza e la ricchezza di una diversità che può da loro essere accolta come gioiosa amicizia. Saranno gli stessi compagni di scuola a considerare il loro compagno autistico uno di loro, a fare squadra insieme e così diventare normalmente, quotidianamente, straordinari terapisti di sostegno. Ma non sarà solo la scuola protagonista di una provocazione di nuova ipotesi curativa per i bimbi autistici, i negozianti, i ristoratori saranno avvicinati e informati dai genitori per affrontare il disagio. Gli stessi genitori affronteranno un percorso di crescita insieme e settimanalmente aiutati dagli operatori dell’Asl verificheranno i passi in avanti e i fallimenti da digerire e superare: il primo passo sarà accettare la diversità dei loro figli.


    Una sfida esaltante, complessa, visionaria quella che sta nascendo al Vomero che va sostenuta e accompagnata perché la riuscita dell’impresa potrebbe consentire una migliore condizione di vita a tanti nostri bambini e aiutare tante famiglie a sentirsi meno sole. Potrebbe dare ai nostri figli, chiamati a incontrare chi è diverso, ad accettare tale diversità come una straordinaria possibilità di crescita umana. Potrebbe alla città intera, spesso raccontata per le sue disfunzioni e mancanze, passare l’orgoglio di aver dato vita nel suo tessuto cittadino a una esaltante esperienza di compassione, intesa nel suo significato etimologico di cum-patire.


    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


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    In cerca di un voto cattolico?




    SCELTA civica, il partito voluto meno da Monti e più dai vescovi, s’è dissolto. Doveva essere il nuovo della politica, la ricoagulazione di quel mondo cattolico impegnato che nella visione profetica dei vescovi, sbandierata in ogni dove, avrebbe dovuto riproporre le gesta gloriose della mai dimenticata Democrazia cristiana. Soprattutto avrebbe dovuto essere un partito-movimento dal significativo peso decisionale per le sorti del Paese.


    Un partito capace di dare ragione a quel centro parlamentare in perenne bilico tra partiti di destra e sinistra.


    Un desiderio, quello dei vescovi, forse legittimo dal loro punto di vista, ma il progetto era oggettivamente sbagliato, lontano dalla gente, lontanissimo dalla Chiesa della base, colpevole di non aver saputo leggere con attenzione e verità i segni dei tempi ed essere risultato così distante proprio da quel mondo cattolico che i vescovi e i cofondatori di Scelta civica volevano rappresentare.


    Oggi, a fronte del fallimento del progetto e della miopia organizzativa con la quale presuntuosamente si è dato inizio a un’avventura persa in partenza, alla presa d’atto della polverizzazione del sogno neodemocristiano, ci si sarebbe aspettato perlomeno una parola di scuse da parte dei politici fondatori di Lista civica. Scuse per quei cittadini che comunque li hanno sostenuti, scuse che sarebbero dovute arrivare ai fedeli e alla Chiesa innanzitutto dai vescovi per la inaffidabilità delle loro previsioni.


    Ma si sa che è difficile aspettarsi una presa di responsabilità adulta, un pentimento pubblico per l’inopportunità storica di una scelta approssimativa da chi parla sentenziando e sentenzia per volontà divina.

    Difficile far comprendere loro quale grave danno quella scelta abbia potuto arrecare alla storia del cattolicesimo politico italiano.


    Eppure da più parti, nella stessa Chiesa, si era cercato di mettere in guardia i vescovi dall’inevitabile fallimento di quella loro suggestione così lontana dalla gente che, non solo avrebbe portato ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti, ma, forse, irrimediabilmente alla completa irrilevanza del pensiero cattolico sul Paese e sulle scelte della politica italiana.


    Io stesso, ricevendo non poche critiche e qualche infantile ritorsione, in tempi non sospetti scrivevo dalle pagine di questo giornale a proposito di Scelta civica: «La responsabilità di chi ha organizzato un contenitore senza anima e ha presentato un progetto senza avere l’umiltà dell’ascolto di quelli che avrebbe dovuto rappresentare è singolare e grave». E a dire che quel contenitore era stato presentato dai vescovi, anche a Napoli, come anima nuova e referenziale del cattolicesimo politico italiano, dove i credenti si sarebbero potuti riconoscere e ritrovare. Ne era prova l’insieme delle sigle di movimenti ecclesiali che si erano fatte parte attive nella costruzione del percorso del nuovo movimento, tanto da non disdegnare pubblicamente la loro estrema e massiccia evidenza. Ne era prova la sovraesposta parola della Chiesa italiana che nel presidente della Cei affermava, cosa che non era avvenuto neppure ai tempi d’oro della Democrazia cristiana, che Lista civica era una risposta ai problemi del Paese. «Quello che sta succedendo in casa Monti — scrivevo — è rappresentativo di come si sia polverizzata l’idea di partecipazione dei cattolici in politica, svenduta frettolosamente per occupare qualche minuscolo spazio di potere.


    La miopia strategica non ha avuto la pazienza di seguire un progetto che coinvolgendo la base cattolica, ricca anche se complessa, varia e intraprendente anche se anarchica, ancor prima di avere l’approvazione dei vertici della Chiesa, che quasi mai sono all’altezza della base, desse vita a un vero movimento plurale, di credenti e laici, in cui il Vangelo potesse essere ecumenicamente accettato come il motore della vita politica del paese. Senza un progetto, c’è solo la corsa agli scanni».


    Mi dispiace dover riconoscere che ero stato facile profeta, ancor di più mi dispiace che dal vertice della Chiesa italiana non una parola per raccontare il disastro del quale è stata principale protagonista e per il quale è stata forse traghettata al suo epilogo la storia del popolarismo cattolico. Ma si sa che chi detiene il potere per volontà divina parla con il cielo e si lascia difficilmente giudicare dalla terra.


    Tra pochi mesi anche in Campania si voterà e tanti candidati a Palazzo Santa Lucia andranno in cerca di voti cattolici necessari alla conta. Forse li cercheranno ancora nelle curie, o nelle sacrestie.


    Il mio consiglio è di non perdere tempo, di voti cattolici in giro non se ne trovano più, anzi, è offensivo per quei pochi autentici cattolici pensare di poter essere ridotti a un voto in campagna elettorale.



    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).

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    Parole che non diventano azioni



    CAMBIANO le parole, dicono altro rispetto al suono che le trasporta. I giovani e non solo, benché ne dica l'Accademia della Crusca, nell'era della comunicazione digitale, ne inventano a dismisura e il linguaggio parlato ormai è lontano mille miglia dalla grammatica ufficiale.


    La crisi delle agenzie di comunicazione, siano scientifiche, educative, sociali, politiche sta proprio nella distanza tra le parole ingessate, preconfezionate della cultura dell'establishment e la vita concreta della gente. Distanza sottolineata dal presidente della Repubblica Mattarella nel suo discorso di insediamento: «La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotse to risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti».


    Ci piaccia o meno, il mondo è cambiato e le parole hanno seguito convulsamente il suo cambiamento: chiunque voglia dialogare con il mondo e non restare imprigionato nella sua autoreferenzialità, più che giudicarne o condannarne il mutamento, deve poterlo decifrare, conoscere, imparare la sua nuova lingua. Una crisi di linguaggio che di più investe la Chiesa che senza Parola non può vivere e la parola è imbrigliata nel suo significato, bloccata nel passaggio dal testimone al destinatario, allora bisogna trovare nuove modalità per comunicare il Vangelo. Il rischio è la condanna della Chiesa alla sua irrilevanza, alla perdita di contatto con i suoi stessi fedeli, fino a scomparire del tutto dal loro vocabolario.

     
    Bouyer in tempi ormai lontani, eppure attualissimi, scriveva che la Chiesa soffre dell'imperialismo della parola già data, incartata o, piuttosto, delle parole svitalizzate dal loro stesso eccesso. La nausea che l'uomo qualunque avverte per il gergo clericale è una tragedia per l'annuncio del Vangelo.


    Il predominio nelle liturgie della parola ecclesiastica su quella vissuta ha reso gli ascoltatori insensibili e diffidenti. I nostri contemporanei, più che parole, vogliono fatti. Per loro il criterio di valutazione delle cose non è il vero, ma l'utile; non il principio astratto ma la sua efficienza concreta. Le nostre città ormai da tempo hanno abbandonato di fatto il cristianesimo, ed è sotto gli occhi di tutti una inarrestabile avanzata di nuovo paganesimo. Non si tratta di un paganesimo falsamente bonario, di chi pensa da cristiano e vive in disaccordo con i principi professati, ma di una vita ispirata a una visione del mondo completamente "originale", che di cristiano non ha più nulla, di chi sente di non dover spar- tire più niente né con la Chiesa, né con il Vangelo. La constatazione del fenomeno obbligherebbe la Chiesa a porsi il problema del suo ridimensionamento costringendola a una azione pastorale meno presuntuosa, meno protesa alle masse che non ci sono più ad aspettarla, ma più umile, più consapevole del fatto che da tempo la societas chistiana non esiste più. Una pastorale che sapesse rintracciare il singolo lontano da piazze fragorose di culto, che chiede sinceramente, senza clamore, ragione della fede credente. Ma così non è.

     
    Sarebbe il caso anche a Napoli di rispolverare quel movimento missionario urbano inventato dai preti francesi Godin e Daniel che presero coscienza che bisognava riconquistare alla fede i propri compatrioti. Nel 1830 Dupanloup, molti anni prima della constatazione di quel fallimento, scriveva: «Trentamila sermoni ogni domenica nelle chiese di Francia, e la Francia ha ancora la fede! ». Affermazione dolorosa che vale oggi per l'Italia e per Napoli tanto che dovrebbe provocare anche nella nostra città una riflessione seria sulla relazione tra predicazione del Vangelo e la sua ricaduta nel quotidiano della gente.


    Quale Vangelo è stato predicato se a fronte di chiese ancora piene, qualora lo siano davvero, la quotidianità del cittadino napoletano è così intrisa di illegalità diffusa, di dispregio per il bene comune, di furbizia che non racconta la verità evangelica: "Non fare all'altro quello che non vuoi sia fatto a te", ma si lascia sedurre dall'assioma: "Ca' nisciuno è fesso". Conoscere l'uomo, la sua vita, le sue parole non è cosa secondaria rispetto all'annuncio del Vangelo e per questo solo una "Chiesa in uscita" può ancora dirsi capace di comunicare il Vangelo in un mondo ormai irrimediabilmente cambiato. 

     

    Chiunque voglia dialogare con il mondo, più che giudicarne il mutamento, deve poterlo decifrare e imparare la sua nuova lingua.


    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


  • Opinioni

    Per Erri De Luca. In Italia il reato di opinione resta punibile


    Residente  altrove Erri rimane interamente cittadino della nostra terra insieme ai tanti poeti che con il loro genio, la loro poesia, la loro impareggiabile arte sanno ancora riconoscere la bellezza di Partenope, struggente, delicata e insieme sfrontata e puttana. Ma quell'altrove potrebbe essere riferito anche alla città intera che è pronta, e non sempre, a necrologi appassionati per i suoi figli migliori, piuttosto che approfittare del loro genio mentre ancora vivi si lasciano toccare.
     
     
    Siamo ancora scioccati dalla visione delle tragiche immagini che hanno raccontato l'aggressione terroristica di Parigi, omicidi a cielo aperto gridati in nome di Dio, bestemmia al Dio vivente che nulla ha da spartire con il sangue innocente impunemente versato. Il mondo si è fermato a riflettere e, salvo rare eccezioni, ha dichiarato l'insopportabilità al sopruso, ha fatto sentire forte la sua voce in difesa della libertà, oltre il confine della giusta e varia differenza di opinione riguardo alla produzione del giornale satirico Charlie Hebdo.
     
     
     
    Anche chi Charlie non si sente affatto, chi riconosce che la libertà è rispetto della libertà altrui, che la blasfemia non può essere materia di libertà, non ha potuto che essere anche lui Charlie Hebdo, in difesa della tolleranza e del diritto alla diversità di opinione. Parigi marcia in difesa della diversità di pensiero, mentre in Italia il reato di opinione resta punibile, può ancora mandare in galera chi ne viene accusato e rendere meno libera la scrittura del poeta o di un giornale. Un reato che nasce da una norma voluta dal codice Rocco anche se oggi sembra davvero antistorico e stravagante punire, redarguire, sanzionare idee, opinioni, pensieri siano essi i più strambi o difficili da accettare e condividere.



     
    Nei prossimi giorni Erri De Luca dovrà comparire davanti al Tribunale di Torino per aver dichiarato riguardo alla Tav: «Hanno fallito i tavoli di governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l'unica alternativa». Erri ha inoltre dichiarato: «Per uno scrittore il reato di opinione è un onore». Non posso che essere d'accordo con lui e certo non solo perché ne sono fraterno amico e perché con lui ho condiviso percorsi di scrittura, ma perché ritengo che le parole, le sue, le mie, di chiunque voglia liberamente esprimere il suo parere, facciano bene o male, se fanno pensare, se provocano pensieri, se sanno sabotare le coscienze o il potere avvertito contrario sono benedette. Restano solo parole e restando parole rendono onore alla libertà di pensiero, la sola capace di permettere ancora di uscire fuori dall'omologazione, dall'ingessamento di costume, dall'imperante pensiero unico che vorrebbe sottomettere tutti al suo dominio. Alle parole si risponde con le parole, né con le sbarre, né con i kalashnikov, né tantomeno con le forche. Al loro desiderio di sabotaggio con la difesa di idee contrarie e se davvero sembrassero bislacche basta una fragorosa pernacchia, che rimane la loro più tragica condanna. Lo scrittore condivisibile o meno che sia, si mette a nudo e per questo più di altri presta il fianco a ogni attacco, a ogni parola contraria. Ma di sicuro la rivoluzione poetica di Erri è parola che investe significati di pace.



    In "Sottosopra", un libro che abbiamo partorito a quattro mani, ha descritto i poveri in spirito come «i Lieti abbassati di vento: quelli che stentano a respirare per come sono oppressi, quelli con il cuore calpestato. Lieti tutti quelli che sono dati per spacciati oggi, i migratori respinti, i bombardati in casa, i difensori della pace derisi dai signori delle guerre seduti alla presidenza». È parola sacra resa pane masticabile ai viandanti del nostro tempo. Anche questo è sabotaggio! 



    Ricordo una sera in una pizzeria di Forcella, ero con Erri, Nives Maroi, una delle poche donne che ha scalato le vette più alte del mondo, Antonio Franchini e Roberto Saviano: mai opinioni di libertà tanto distanti furono spezzate in parole condivise. Intorno a una pizza anche "La parola contraria" può diventare amica. Scrive Erri nel suo ultimo libro: «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì potranno. Nell'aula e fuori, isolata è l'accusa». I nostri poeti, quelli nati nelle nostre mura sono nostri anche se risiedono altrove. Bene fare memoria dei morti e a loro tributare onore, meglio sarebbe non lasciarli da soli mentre ancora da vivi compongono versi, cristalli di libertà.
     
    I nostri poeti sono tali anche se risiedono altrove. Bene fare memoria dei morti e a loro tributare onore, meglio sarebbe non lasciarli da soli mentre sono ancora vivi. Lo scrittore, condivisibili o meno che siano le sue idee, si mette a nudo e per questo più di altri presta il fianco a ogni genere di attacco.
     
    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


     
     

  • Opinioni

    Napoli. Terra mia. Pino Daniele e Francesco Rosi. L'eredità che la loro arte consegna


    “Piovono rane”, sembra che in questo inizio d’anno una voce fuori campo sussurri queste parole alla città di Napoli. La dipartita di due nostri illustri concittadini, Pino Daniele e Francesco Rosi, ha colpito la nostra comunità con la virulenza con cui nel film “Magnolia” il regista americano Paul Thomas Anderson fa piovere rane su ignari e attoniti personaggi che animano la sua pellicola.


    Il breve succedersi dei due luttuosi eventi sembra aver lasciato in eredità ai napoletani un particolare sgomento, quasi un senso di disorientamento. Ma altra è l’eredità che la loro arte consegna, altra ne arriva alla città dal genio di uomini come Pino e Francesco e mi aspetto che scuota la sua coscienza civile.


    Francesco Rosi non ha cantato Napoli, l’ha dipinta, l’ha descritta nella sua straordinaria e drammatica bellezza, contraddizione di verità e finzione, troppo spesso al soldo di potenti armati di parole di fumo, inganno di illusi che da troppo tempo aspettano miracoli celesti più che avere dimestichezza con rivoluzioni e impegno civile. Ancora drammaticamente attuali risuonano le denunce di Francesco Rosi che con crudo realismo tratteggiava profili e caratteri di una classe politica e di una imprenditoria locale che allungava le proprie laide e fameliche mani sulla ricostruzione e la riqualificazione urbanistica della nostra città.


    L’immortalità del film “Le mani sulla città” rappresenta allo stesso tempo limiti e grandezza del nostro popolo e se a tanti della mia generazione ha contribuito alla formazione di una coscienza civica, ora, in un tempo di coscienza compromessa e di civiltà quasi assente, dovrebbe essere proiettato nelle nostre scuole. A noi comunque ci è dato il privilegio di essere quotidiani spettatori postumi sul set del film di Francesco Rosi. Ricorderete sicuramente la scena in cui il personaggio noir, il costruttore Nottola, dall’alto di Via Piave indottrinava gli ingenui politici dell’epoca sul potere e sul moltiplicatore economico del “dio-mattone”.

    *Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


    Chiunque si trovi a percorrere il tratto di Tangenziale che va dalla Collina di Capodimonte direzione Pozzuoli, by-passando il quartiere Vomero, può notare con curioso disappunto interi quartieri costruiti dove prima c’erano lussureggianti giardini alberati, quartieri formati da palazzi di cui ancora si scorgono le fondamenta costruite a mo’ di palafitte, e Dio solo sa quanta speranza di vita disattesa e quanta deportazione urbana reca con sé quel cemento impastato di calce e lacrime. Quanti Nottola hanno contribuito a deturpare il viso di Partenope decantata come terra lussureggiante che degrada dolcemente verso il mare. Chi conosce davvero la mia città, sa che tutti i mali traggono origine da una politica urbanistica famelica, arrivista e arrogante a vantaggio di pochi e da una scellerata politica industriale che vedeva nella Baia di Bagnoli il sogno utopistico di una industrializzazione che irrimediabilmente ha sfregiato quanto di unico e singolare il buon Dio ci aveva concesso.


    “Terra mia, - canta Pino - benedetta da Dio e maledetta dagli uomini”. Di re e viceré Napoli ne ha avuti tanti, troppi, e ancora ne ha. Il dramma è che nessuno può pensare ancora di gabbarci con ruffiani saluti e con commiati degni del più imbellettato red carpet: che spalle pesanti deve averci la morte per sopportare tutto questo!


    Ora che tutto la morte cancella, ora che sembrerebbe che nulla ancora c’è da aggiungere a quello che è già stato detto e documentato da uomini come Rosi, che con la potenza delle immagini hanno reso al mondo testimonianza di verità passata al secolo come “il sacco di Napoli”, una incredibile possibilità ci è concessa, quella di rendere possibile una rivolta pacifica che nasca dalla forza catalizzatrice di tutte le volontà e abbracci tutte le coscienze. Una rivoluzione di “mille culure” che finalmente e per sempre superi “le mille paure”. Oggi più di prima ci è data l’occasione di dire: Napoli, terra mia.




  • Opinioni

    La speranza dell'Epifania, oggi



    FESTA per gli occhi, sorrisi al risveglio per sorprese. L'Epifania è un grande dizionario di parole gentili che nel significato dato al dono aprono scrigni di futuro, parole che reclamano anche per gli adulti un tempo di innocenza che duri per tutta la vita. Una notte incantata, quella della Befana, ma non per questo non seriamente adulta, spazio controcorrente al tempo che viviamo, un tempo che ci costringe a concretezza arida, a fare a meno dei sogni, quasi a sentirci in colpa se ancora ne sentiamo il bisogno. Abbiamo assassinato i sogni e con loro la gentilezza, materia prima per sognatori.

     
    Ho letto da qualche parte che la gentilezza è la Vita che invita la vita stessa a danzare a un ritmo tale che la bellezza e la pace risuonano fino a spegnere ogni eco disarmonico. La gentilezza è il sapore dell'umanità che penetra nel cuore degli eventi. Gentile è essere amorevole, offrire una relazione che permetta a chi la percepisce il valore dell'umanità come assoluto, dignità da non poter sopprimere. Senza gentilezza i sogni diventano incubi, senza sogni svanisce ogni gentilezza. La speranza è vinta quando si ha vergogna di sognare, soprattutto quando manca chi provochi i sogni e chi li sappia interpretare. Visionari di futuro pronti a raccontare agli smarriti di cuore la rotta, la meta. Quanto ne avrebbe bisogno la nostra città, quanto il nostro meridione!

     
    Vasco canta la vita, la ricerca di un senso che le dia ragione, anche se per lui questa vita un senso non ce l'ha. Chi sogna invece può sempre dire che la direzione della sua vita l'abbia trovata nei suoi ideali, nella lotta per realizzarli. I cantastorie che oggi vanno per la maggiore, quelli che il pubblico applaude, osanna, raccontano per lo più tragedie, sventure, naufragio di umana avventura. Perché meravigliarsene se abbiamo massacrato il futuro, perché rammaricarcene se non abbiamo più da spartire parole di speranza? Più la notizia è estrema per presagio negativo, per previsioni catastrofiche, più l'audience s'impenna. Eppure non siamo nati per disperare, il nostro pane da spartire non è il pessimismo, i cassetti della nostra memoria sono pieni di sogni da raccontare, lo sono ancora, ma la paura di aprirli, la vergogna di essere derisi è così forte che ci manca il coraggio di condividere quello che da tempo teniamo celato.

     
    Troppi dotti a dissertare sulle altezze della sola ragione, del suo primato sulla fantasia, diverso dal tempo in cui proprio alla fantasia avremmo voluto dare potere. Troppi politici a banchettare sui sogni rubati e garantirsi il facile bottino sui vinti e sui perdenti, lontani dal tempo in cui la politica era il servizio più alto per dare ragione ai sogni comuni. Anche la Chiesa, nata per essere ministra dei sogni degli ultimi, da madre del coraggio degli afflitti è diventata amministratrice notarile della realtà, pronta a elencare ad uno ad uno i limiti dell'uomo per poi giocare sul suo senso di colpa, piuttosto che mostrargli il conto già saldato dalla misericordia del Primo sognatore. Ai bambini fa bene raccontare della Befana, della sua scopa volante, della notte incantata consegna di festa. Da adulti resta il suo intimo significato che racconta che c'è più gioia nel dare che nel ricevere.

     
    Resta il valore profondo del viaggio fatto dai Magi, sognatori d'oriente, che inseguendo la luce hanno superato la notte. Portatori di futuro che nei doni consegnati al cielo, oro, incenso e mirra, significavano il desiderio di riscatto per l'intera umanità. Non una favola ma una speranza coraggiosa contro ogni speranza che vede possibile il riscatto dell'uomo benché le sue prove, benché i suoi fallimenti. Tutto sta nel lasciare la sicurezza dei propri giacigli, tutto sta nel coraggio di intraprendere il viaggio mossi dalla curiosità dell'oltre. L'Epifania non nasconde la mirra del dolore, non è una festa bugiarda, non fantastica sulla fatica del vivere. La vita è costante prova di amarezza, ma dimenticare il bene ricevuto, che neppure il dolore può cancellare, è vivere contro la verità. La mirra di ogni croce indubbiamente resiste, ma c'è l'oro insieme con la mirra, c'è l'incenso, straordinario bagaglio di ricchezza e spiritualità che l'umano conserva nel suo genio e nella sua operosità, malgrado ogni crisi, contro ogni profeta di sventura. Epifania è visione di futuro per recuperare la via perduta della gentilezza, sogno per originare pace nei pensieri e sperare che nella calza della propria vita trionfi l'uomo giusto. Visionari di futuro pronti a raccontare agli smarriti di cuore la rotta, la meta. Quanto ne avrebbe bisogno la nostra città

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).


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