Articles by: Maurizio Massari*

  • Opinioni

    Visto dal Cairo. Non vi sono scorciatoie alla pace

    Per decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino a 10-15 anni fa si pensava che “la madre di tutti i problemi” fosse il conflitto tra Israele e Palestina e che risolto quello si sarebbe risolta la questione mediorientale. Certo, a partire dal 1990, mentre l’Unione Sovietica si disgregava, c’era stato il caso della prima guerra irachena, poi ripropostosi una dozzina d’anni dopo, ma si pensava ancora che si trattasse di problemi ben individuati, circoscritti.

     Si è scoperto un Vaso di Pandora e si è visto che la situazione nella regione era molto più complessa di come l’avevamo percepita. E oggi è sotto gli occhi di tutti: mai prima d’ora s’era visto lo svilupparsi di così tanti e diversi conflitti allo stesso tempo. Pensiamo alla Siria, all’Irak, alla Libia, allo Yemen, a Gaza.
     

    Come ci si e arrivati? Lasciando che i problemi si accumulassero, non riconosciuti e dunque non trattati con la dovuta attenzione sia da attori regionali che dalla comunità ’11 settembre 2001, l’agenda internazionale è stata strettamente “europea”: abbiamo rivolto la nostra attenzione altrove, dai Balcani all’allargamento dell Unione Europea, ed abbiamo trascurato quello che si chiama il “sud del mondo”, dove intanto fermentavano i maggiori problemi per la pace, la sicurezza e la stabilità internazionale.
     
    C’è stato dunque un deficit di analisi dei fermenti in corso. E un deficit di azione o azioni inadeguate, in primis da parte dell'Occidente. Ad esempio in Irak o in Libia si è pensato che una soluzione militare fosse possibile, che estromettendo i regimi autocratici sarebbe scaturito uno sviluppo democratico, di per se stabilizzante.

    Ora, questo evidentemente non è successo. Perchè? Perchè più che un conflitto tra dittatori e “forze democratiche” che chiedevano libertà e diritti avevamo difronte conflitti tra gruppi settari e tribali, che appena cadute le dittature si sono scagliati l’uno contro l’altro. Molto spesso inoltre questi gruppi si sono legati a “sponsor esterni” che hanno fomentato conflitti “by proxy”, per procura, dietro ai quali si celavano agende regionali non immediatamente visibili.
     
    Deficit di analisi, dunque: e ad analisi sbagliata o inadeguata non può che seguire una policy sbagliata o inadeguata.
    Senza voler assolvere l’Occidente, però, c’è da dire che anche gli altri attori internazionali sono stati a lungo latitanti: mentre declinava l'ordine unipolare che era emerso subito dopo la Guerra Fredda, nessun altro attore emergente si assumeva responsabilità dirette nella regione – i cosiddetti BRICS, i G20, e cosi via. Tutte le responsabilità continuavano invece a pesare sull'Occidente e sugli americani in particolare, sebbene la pace e stabilita' in Medio Oriente sia un 'common good', che interessa tutti ed implica responsabilita' collettive.
     
    Il risultato è che nella regione mediorientale ci troviamo ora ad affrontare due grandi ambiti problematici: da un lato abbiamo il problema delle divisioni settarie e tribali di cui parlavo prima; dall’altro vi sono i problemi strutturali di queste società: con ampie fasce sociali non solo impoverite ma anche disenfranchised e disempowered, caratterizzate da alti tassi di analfabetismo sia in senso letterale che in senso politico: e dunque di masse di persone facilmente strumentalizzabili e manovrabili da formazioni violente interessate ad alimentare i conflitti.
     
    Come si può uscire ora dalla situazione che si è creata? Inutile illudersi che lo si possa fare in breve tempo. Ma è possibile indicare alcune direttrici positive.
     
    Innanzitutto, a livello di diplomazia internazionale, c’è bisogno di un’azione concertata multilaterale. Come europei e occidentali possiamo fare meglio e di piu', con strategie piu' articolate e maggiori coerenza e coesione nella nostra azione. Ma anche cio' non sarebbe sufficiente. I problemi del Medio Oriente non possono essere risolti con una Pax Occidentale, ma solo da un’azione condivisa tra i diversi attori regionali e attori internazionali.
     
    In secondo luogo, per quanto riguarda il nostro paese, l’Italia può svolgere un ruolo molto positivo. In parte lo fa già: quello dell’Italia è un ruolo non-divisivo . E questo è già tanto e viene giudicato positivamente nella regione.

    Parlando da osservatore/ operatore istituzionale italiano sul terreno noto una grande disponibilità di comunicazione delle popolazioni locali nei nostri confronti . C’è una “chimica umana” molto forte con l’Italia e gli italiani, che sono percepiti come un popolo mediterraneo, dotato di una sensibilità particolare, di sentimenti umani che non si riconoscono alle nazioni del nord europa. Questo si avverte in modo palpabile nel contatto con tutte le categorie sociali, dall’uomo della strada, al politico, all’intellettuale: siamo visti come la “faccia buona dell’Occidente”, l’Occidente dal volto umano” a fronte di una mentalità ancora molto sospettosa nei confronti di altre realtà occidentali.

    Sembrerebbe uno stereotipo, quello degli “Italiani brava gente,” ma non è un elemento da trascurare. E’ invece un grande asset che l’Italia ha in Egitto e in altre realtà della regione e che puo' fare la differenza per la nostra politica estera, ovviamente se sostenuto dalle risorse necessarie, risorse umane, economiche e culturali.

    Questo e’ il nostro “soft power” come lo chiamano gli analisti. E molto ci sarebbe da fare per consolidarlo: scambi giovanili, borse di studio, corsi di management, incontri people-to-people specialmente tra le giovani generazioni… E anche iniziative di promozione di quelle “cose belle della vita” che uniscono i popoli invece di dividerli e di cui l’Italia è ricca: cultura, moda, cibo, arte. Potrà sembrare strano, ma questi sono strumenti di diplomazia parallela, certo ad ampio raggio ed efficaci su tempi medio-lunghi, e che necessitano di risorse economiche da poter investire e di cui spesso purtroppo non disponiamo.
     
    Infine, ma non da ultimo, c’è l’azione che sta svolgendo il Papa, che non a caso mi sembra ha preso il nome di Francesco, il cui simbolismo è strettamente legato al tema della pace nel mondo anche a causa di quel viaggio in Terrasanta durante la crociata, in cui il Santo riuscì a farsi ricevere dal Sultano d'Egitto e a tentare un compromesso di pace, per quanto infruttuoso.

    Il Papa Francesco è una figura inclusiva, e dunque portatore di un messaggio che qui ha ricadute positive. Naturalmente gli estremisti islamici non tollerano la convivenza con i cristiani, nè nella regione ne a livello internazionale. Hanno tutto linteresse a presentare gli odierni conflitti come uno scontro di civiltà. Ma per i moderati, invece, vedere un papa cattolico che prende posizioni decise in favore della pace come Francesco serve proprio a sottolineare che non c’è un conflitto tra occidente cristiano e mondo islamico. Il conflitto come dicevo all’inizio, è interno al mondo islamico, tra un Islam moderato che vuole coesistere con l'Occidente ed un islam estremista che si ritiene inconciliabile sia con l'islam moderato che con l'Occidente.

    Risolverlo sarà un lavoro lungo. Ma un lavoro a cui bisogna applicarsi da subito e a cui non vi sono alternative.
     
     
     
     

     
     
     
     

    *Italy's Ambassador to Egypt

  • Op-Eds

    No Shortcuts, Nor Alternatives

    An assessment of the prospects for peace in the Middle East today doesn’t inspire much optimism. The situation is in fact white-hot. Despite what popular consensus believes, we are not facing a perpetual rekindling of old problems and familiar conflicts but a totally new situation.

    For decades after World War II and up until ten or fifteen years ago, people thought that “the 
    mother of all problems” was the Israeli-Palestinian conflict, the resolution of which would settle the entire Middle East question. Of course, beginning in 1990, as the Soviet Union was breaking up, there was the first Iraqi war, restaged a dozen years later, yet people still believed that the conflict arose from issues that had been clearly identified and defined.

    Instead, beginning in those years, we opened a Pandora’s box that revealed the situation in the region was much more complex than previously believed. Today all eyes are on the region; never before have we seen the development of so many different conflicts at the same time. Just think. Syria, Iraq, Libya, Yemen, Gaza. 

    How did we get here? Setting aside the fact that the conflicts have accumulated, unheeded by both the regional players and the international community. In hindsight, we can say that from the end of the Cold War to September 11, the international agenda has been strictly “European.” We turned our attention elsewhere—from the Balkans to the expansion of the European Union—and ignored the so-called southern hemisphere, where the major threats to international peace, safety and stability were meanwhile brewing.

    Thus there was a deficit of analysis of the fomentations underway, as well as a deficit of actions, or inadequate actions, taken by the West. For example, people thought that a military solution was possible in Iraq and Libya, and that booting out autocratic regimes would have led to the development of democracies— stabilizing in and of themselves. 

    What Went Wrong 

    Clearly this has not occurred. Why? Because, more than a conflict among dictators and “democratic forces” fighting for freedom and rights, we are faced with sectarian violence and conflicts between tribes that pounced on one another as soon as the dictatorships fell. Furthermore these groups are usually linked to “outside sponsors” that fomented the conflicts by proxy, behind which not immediately apparent regional agendas were being hidden. A deficit of analysis, therefore. And faulty or inadequate analysis can lead to nothing but faulty or inadequate policy.
     

    Without absolving the West, however, it must be said that other international players also dallied too long. While the UN, which emerged right after the Cold War, was in decline, no other emerging entity took direct responsibility for the region, neither the so-called BRIC nor the G20, nor anyone else.

    All responsibility continued to rest on the shoulders of the West, America in particular, never mind that peace and stability in the Middle East is a common good in everyone’s interest and entails collective responsibility. The result is that we find ourselves facing two major sets of problems in the Middle East. On the one hand, we have the problem of sectarian and tribal violence mentioned earlier.

    On the other, there are structural issues plaguing these societies; large portions of the population are not only impoverished but also disenfranchised and disempowered, blighted by high rates of both literal and political illiteracy, so that large swathes of people here can be manipulated and taken advantage of by violent groups aimed at nurturing conflict. How can we get out of this situation? It’s useless to kid ourselves into thinking this can be done quickly. But there are a few positive directions to take. 

    What Should Be Done 

    Firstly, on the level of international diplomacy, there’s a need to take concrete, multilateral action. As Europeans and Westerners, we can do more and better, employing better-organized strategies and more coherent, unilateral actions. But even that isn’t sufficient. The problems of the Middle East cannot be resolved by Western fiat but by taking actions that include the various regional and international entities. 
     

    Secondly, as far as regards our country, Italy stands to play a very positive role. In part it already does, given Italy’s non-divisive character. That character already means a lot and has been looked upon positively in the region. As an institutional observer in the area, I have noticed a great willingness among the local population to communicate with us. There is a strong sense of “human chemistry” with Italy and Italians, who are seen as a Mediterranean people possessed of a unique sensibility, of human feeling not recognized in the nations of northern Europe.

    This feeling is palpable in people from all social classes, from the man on the street to the politician to the intellectual: Italians are seen as “the kind face of the West,” the West’s human face, by a cultural mentality very suspicious of other Western countries. It might seem a cliché, the idea that Italians are “good people,” but it should not be ignored. It’s a great asset for Italy in Egypt and other places in the region and can be a deciding factor in our foreign policy, obviously as long as it is sustained by the necessary human, economic and cultural resources.

    This is what analysts call “soft power.” And there’s a lot we can do to consolidate that power: student exchange programs, educational grants, management courses, people-to-people encounters, especially among the younger generation, as well as initiatives for promoting “the finer things in life” that unite rather than divide populations, which Italy is rich in, such as culture, fashion, food, art. It might seem strange, but these are tools for diplomacy that have wide-reaching, applicable effects over medium-long periods of time.

    And they necessitate economic resources for investment that we often, unfortunately, do not make available. Last but not least, there is the action being taken by the Pope. That he took the name Francis seems appropriate to me, given the symbolism linked to the idea of world peace due in part to the Saint’s voyage to the Holy Land during the Crusades, where he succeeded in meeting the Sultan of Egypt and sued for peace, however fruitlessly. 
     

    Pope Francis is an inclusive figure, the bearer of a message that has been received positively here. Naturally, Islamic extremists will not tolerate living with Christians, neither in the region nor in the world. They aspire to present these conflicts as a clash of civilizations. But for the moderates, seeing a Catholic pope take decisive positions in favor of peace, as Francis has, serves to underscore that the conflict is not between the Christian and Islamic worlds.

    The conflict, as I began by saying, resides within the Islamic world, between a moderate Islam that wants to coexist with the West and an extremist Islam that remains irreconcilable with both Islamic moderates and the West. Resolving the issue is a long-term job. But it’s a job we must take up immediately and for which there are no shortcuts, nor alternatives.

    *Italy's Ambassador to Egypt