Articles by: Giuditta Danzi

  • Cinema. La fiaba di Paola Romagnani

    La storia del difficile rapporto tra due sorelle, che si rivedono dopo tre anni, quando scoprono di aver ereditato una casa a Brooklyn. Sarà proprio questo evento a far emergere molte verità nascoste, e che alla fine permetterà alle due donne di conoscersi meglio e stare meglio insieme.

    Questa in poche parole la trama di "My Mother’s Fairy Tales", il film della giovane Paola Romagnani che è stato proiettato la scorsa settimana all’Istituto italiano di cultura con grande successo di pubblico.

    Erano  presenti anche le due attrici protagoniste, Marta Mondelli e Celeste Moratti, e la compositrice della colonna sonora, Alessandra Celletti, che al termine della proiezione si è esibita eseguendo sia alcuni brani della colonna sonora, come “L’angelo delle vita”, “Viaggio nell’azzurro”, “L’amore alla fonte della vita”, che altre sue composizioni.
     

    Interessante prova quella della regista Paola Romagnani, al suo primo lungometraggio, che per questo film ha curato anche la sceneggiatura, e la produzione con la Simmia Production, fondata nel 2002 dalla regista e da Emiliano Baccarini con l’intento di promuovere i cortometraggi e film al di fuori del mainstream.
     

    La Romagnani, nata e cresciuta a Milano , dopo aver conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso la Iulm, si è trasferita a New York per coltivare la sua grande passione: il cinema. Nella Grande mela ha frequentato diversi corsi di produzione, scrittura cinematografica e montaggio alla New York University e ha conseguito il Certificate in Filmmaking presso la New School University a New York City. Prima di realizzare  “My Mother’s Fairy Tales”, ha lavorato sul set di molti film indipendenti e a basso budget, come attrice, come aiuto regista e assistente alla produzione.

    Nel 2003 ha scritto la sceneggiatura, diretto e prodotto, “Soul Mate’, cortometraggio vincitore di diversi premi sia in Italia che negli Stati Uniti, in cui ha anche recitato nella parte di Sofia, la protagonista, ma lasciamo raccontare a lei...

    Come è nata l’idea di questo film? Da quanto tempo lo stai preparando?

    L’idea del film è stata sviluppata nel corso di diversi anni. Ho iniziato a scriverlo circa cinque anni fa. Ovviamente dall’idea iniziale tutto è cambiato e piano piano è diventata la storia che hai visto. Mi chiedono spesso se è autobiografica. No, non lo è nei fatti. Ma i temi sono particolari argomenti che mi interessava esplorare, come l’abbandono, la separazione, la

    lontananza da persone care, le incomprensioni che spesso regnano all’interno del nucleo familiare, la vita di chi è venuto prima di noi e che, anche senza che noi lo sappiamo, ha influenzato la nostra vita; temi che mi sono cari e che ho voluto esplorare.

    Sappiamo che avresti voluto interpretare il personaggio di Ariel, c’è qualcosa di te in lei?

    Quando ho iniziato a scrivere la storia il ruolo di Ariel era per me. In realtà la mia carriera di attrice è stata breve perché ho capito presto che mi interessava molto di più scrivere. La scrittura è per me la cosa più difficile, ma anche la più soddisfacente. No, di me in Ariel ci sono solo dei piccoli dettagli, come per esempio il fatto di aver deciso di non recitare più , però, sia ben chiaro, per motivi diversissimi, mia madre non c’entra nulla! Ma ci sono dettagli di me anche in Olivia se è per questo! La storia comunque, ci tengo a sottolinearlo, non è autobiografica e ho cercato di essere molto attenta durante la scrittura a rimanere distante dalla mia vita, evitando di essere una dei cosiddetti filmmakers che “si guardano l’ombelico”, insomma, i temi che ho esplorato li ho voluti sviluppare in direzioni lontane dalla mia vita reale.

    La scelta del continuo passaggio dall’italiano all’inglese, credi che un possibile doppiaggio per portare il film ad una sola lingua possa far perdere parte della sua forza comunicativa?

    Credo che il doppiaggio, anche se fatto benissimo, come è il caso dell’Italia, appiattisca inevitabilmente il linguaggio dell’originale (basti pensare a film come il “Padrino”, “Quei bravi ragazzi” etc. dove l’accento dei personaggi è così importante per definire la loro identità). Comunque in questo film al di là degli accenti delle due protagoniste quando parlano in inglese, che le identificano come straniere, il linguaggio potrebbe essere doppiato senza grandissimi stravolgimenti. Credimi, accetterei benissimo di doppiarlo se questo significasse distribuirlo in Italia.

    Shakespeare è presente dall’inizio ala fine del film con “La tempesta”, da cui sono tratti anche i nomi delle protagoniste,  come mai hai scelto di ispirarti proprio all’ultima opera di questo autore?

    Perché è la prima opera che ho letto di Shakespeare, l’ho vista moltissime volte rappresentata e, in qualche modo, mi è sempre rimasta dentro. Bisogna farsi ispirare dai più grandi no?

    In Soul Mate eri già produttrice, regista, sceneggiatrice e anche attrice, pur non recitando in My Mother’s Fairy Tales”, essendo un lungometraggio, hai incontrato maggiori difficoltà nella gestione di questi ruoli?

    Se avessi scelto di recitare non sarei mai riuscita a portare a termine il film, sarebbe stato troppo difficile per me. Non mi so giudicare “dall’interno” e non sarei riuscita a coniugare  il doppio ruolo di attrice e regista. Ricoprire gli altri ruoli è stato già molto difficile nonostante la scrittura e la produzione siano venuti prima (durante le riprese i miei co-produttori Su Yogurtcuoglu e Emiliano Baccarini si sono occupati di ciò che riguardava la produzione on set), inoltre avevamo solamente ventidue giorni di riprese e moltissime location. Insomma, anche se è brutto dirlo, sul set io non mi sono divertita molto …

    Come hai scelto il cast? Sono tutti attori italiani a New York? Ci parli un po' di loro? Magari descrivi qualche episodio particolare nel corso della realizzazione del tuo film?
    Le uniche attrici italiane sono Marta Mondelli e Celeste Moratti. Le ho scelte semplicemente tramite audizioni. Celeste era alla sua prima esperienza cinematografica, Marta invece aveva già esperienza (con Marta ho appena co-prodotto il suo primo lungometraggio da sceneggiatrice e regista, adesso in fase di montaggio, The Contenders). Sono stata fortunata a trovarle perché sinceramente non credo che qui a New York ci siano molte attrici brave che possono recitare in entrambe le lingue e che hanno le caratteristiche che io cercavo, almeno io non ne ho trovate. Senza di loro non so come avrei fatto. Gli altri attori sono americani e, anche loro, sono venuti ad alcune audizioni. L’unico attore che ho voluto assolutamente e che conoscevo da prima era Jose Element, che recita Jonathan Krauss, l’avvocato. Jose’ aveva recitato con me in Soul Mate e lo adoro letteralmente, credo che sia bravissimo. E’ venuto da Los Angeles per questo film.

    Com’è nata l’idea di fondare la Simmia Productions? Perché lo hai fatto?
    Semplicemente per una questione legale e di tasse. Quando produci un film, anche se a basso budget come questo, è fondamentale avere alle spalle un’entità legale responsabile del prodotto. Inoltre ti permette, se la società appartiene a te,  di dedurre dalle tue tasse personali le perdite che inevitabilmente avvengono nel primo anno come le spese per finanziare il film, che a meno che non lo vendi immediatamente, devi conteggiare. E’ un bell’incentivo!

    Che posto credi ci sia oggi per la produzione indipendente negli Stati Uniti e in Italia?
    Mah, guarda, questa è una bella domanda. Io non so rispondere. Questo film è stato autoprodotto, abbiamo indebitato la nostra società per produrlo. In questo caso è proprio una produzione indipendente, indipendente da ogni altra entità esterna. Chiaramente con il digitale le strade si sono spalancate anche per i piccoli registi che vogliono far sentire la propria voce, però … davvero non so dove stia andando il cinema, ne qui ne tantomeno in Italia. Ormai “indipendente” è una parola che non ha più molto senso, se pensi che le grandi produzioni americane hanno anche le loro piccole “branches” indipendenti; ma indipendenti da chi? Forse gli unici veri indipendenti sono i minuscoli filmmaker con la telecamera o poco più (come noi). E non so davvero che posto ci sia per loro. Però ogni tanto viene fuori il fenomeno prodotto con 10.000 dollari, come The Puffy Chair o l’ultra-famoso The Blair Witch Project e molti altri. Ci vuole originalità e anche fortuna credo. Non so se ho risposto alla domanda.


    Che progetti hai per questo film? Festival? Distribuzione....

    Il film è stato finito l’anno scorso, poi è rimasto in un cassetto più o meno chiuso fino ad oggi (io nel frattempo ho avuto un bambino e sto scrivendo un nuovo progetto), è stato mandato ai festival più importanti, quelli che vogliono la première mondiale o quasi (Cannes, Sundance, Toronto, Venezia) ma non è stato preso. Adesso dovrebbe iniziare il secondo “round”, cioè i festival, diciamo “meno importantissimi” ma comunque importanti. Io, però, questo progetto l’ho metabolizzato già da qualche tempo. Chissà, magari questo film in particolare non andrà a nessun festival e rimarrà una “calling card” mia, il mio primo feature, per una produzione che mi voglia pagare per fare un film più grande (a livello di budget). A questo proposito, c’è un’attrice italiana conosciuta che ha letto un mio nuovo script e che sarebbe interessata. Ma la produzione non si è ancora trovata. E’ una commedia. Se qualcuno legge…

    E il tuo prossimo lavoro quale sarà?

    Sto scrivendo il mio primo romanzo. Diciamo che potrebbe essere inserito nella categoria delle “Mom-Lit”, che  attualmente ha un boom. Ho avuto il mio primo bimbo sei mesi fa e durante la gravidanza mi sono messa a scrivere una specie di diario semi-serio di come si ci trasforma durante questo periodo in cui gli ormoni impazziscono letteralmente! Un argomento agli antipodi con quello del film, ma sempre di madri si parla! Dopo l’esperienza di MMFT avevo bisogno di rilassarmi e di dedicarmi a qualcosa di più leggero e soprattutto di divertirmi un po’. Non ho ancora un contratto di pubblicazione ma un’agente a Milano è interessata a leggerlo. Incrocio le dita.

  • Intervista a Marco Baliani. L’emergenza ambientale oggi cavallo di battaglia per milioni di giovani

    Profondamente colpiti dal suo spettacolo, non abbiamo potuto fare a meno di "rincorrere" l'attore-regista per avere da lui direttamente altri chiarimenti.

    L'abbiamo quindi, prima avvicinato mentre riceveva complimenti dal pubblico subito dopo la serata alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University,  poi raggiunto via chat ed email.  Questa la nostra intervista...

    Quando ti è nata l’idea di questo spettacolo. Ha avuto difficoltà nel realizzarlo?

     E’ nato per una diretta televisiva su Rai 2 il 9 maggio 1998, in occasione dei venti anni dalla morte di Aldo Moro. In un primo momento le difficoltà riguardavano la forma da dare allo spettacolo. Si rischiava l’ennesimo teatro di denuncia, con un taglio più giornalistico che artistico.

    Dopo due mesi di lavoro, raccolta di materiale e srittura, non eravamo arrivati a capo di niente.

    Poi un giorno Maria mi fece la domanda chiave “ Ma tu dov’eri il giorno in cui Moro fu rapito?”

    Questa domanda ne generò altre a valanga, cosa avevo provato, cosa stavo facendo un attimo prima, cosa è successo la sera stessa e i giorni seguenti. Avevamo trovato la strada giusta e in pochi giorni il racconto si delineò come una personale esposizione di quei 55 giorni di prigionia di Moro, un racconto personale che diveniva anche spaccato generazionale

    Ha fatto 400 esibizioni in Italia. Cosa ha significato per lei questa rappresentazione a New York. Che emozione ha provato? Ed il pubblico secondo lei guardava con gli stessi occhi di chi è in Italia?

    Portare a New York questo spettacolo ha voluto dire far toccare a spettatori lontani nel tempo e nello spazio dalle vicende narrate , quel clima, l’atmosfera e le tensioni degli anni 70, un pezzo di storia del nostro paese, ma anche far sentire la sincerità di un racconto personale, che proprio per la sua carica autobiografica può suscitare emozioni e partecipazione anche in giovani americani che allora, ai tempi in cui si svolge il racconto, magari non erano neppure nati. Certamente lo sguardo era diverso da uno sguardo italiano, anche se spesso i giovani di oggi in Italia non è che siani molto più informati sui fatti del nostro passato prossimo.

    E secondo lei, quali riflessioni può innescare uno spettacolo cosi’ ad un pubblico che non conosce il caso Moro e l’Italia di quegli anni?

     Riflessioni che hanno a che fare col tema della giustizia e della violenza, temi universali, che sempre sono elemento di conflitto e di contraddizione.

    Cosa vuol dire per un attore recitare con il teatro di narrazione? Difficoltà, sensazioni…..

     Un attore che narra conosce tutta la storia e interpreta tutti i personaggi della storia, un attore che interpreta un ruolo, interpreta un solo personaggo, ma lo fa in modo più approfondito del narratore.

    Sono due procedimenti molto diversi, entrambi difficili. Qui in particolare in Corpo di stato il narratore coincide con la persona dell’attore. E’ un caso davvero speciale, che mi costringe a rivestire un ruolo che è più quello di un testimone, di qualcuno che torna da un tempo passato a ricordare e a far ricordare.E’ una sensazione emotivamente ardua ama prorio per questo appassionante.

    Il teatro di denuncia che ruolo può ricoprire nell’aiutare l’Italia ad estinguere la cosiddetta epidemia di “peste sociale”?

     Ogni atto di denuncia, di memoria, di contrionformazione è sempre utile in una società, ancora di più quando la società è profondamente “ammalata” come la nostra. Ma per estinguere una epidemia fatta di corruzione, malgoverno, ambiguità, criminalità diffusa il teatro può fare poco, serve una politica “buona”, servono scelte coraggiose, serve un cambiamento di mentalità. Il teatro come anche l’arte può servire a far scattare campanelli d’allarme, necessari, ma non sufficienti.

    Oggi, cito Beppe Grillo, si possono avere più informazioni durante uno spettacolo teatrale che leggendo un quotidiano. Sono gli artisti ad essere diventati giornalisti o i giornalisti ad essere diventati artisti?

     Bisogna fare attenzione a non far diventare il teatro solo un luogo di informazioni o di proclami o di prese di posizione. La funzione del teatro non è quella di spiegare , ma di inquietare, di porre lo spettatore nella condizione di farsi domande, domande che lo riguardano come persona, come cittadino. Il linguaggio del teatro non può essere quello del giornalismo, ciò non toglie che può cogliere , nel presente, proprio per la sua grande elasticità di linguaggio, quelle cose, quei conflitti, quelle contraddizioni che il potere non vuole vedere o tende a occultare: Il teatro deve cogliere, artisticamente, il disagio che abita la società.

    Durante il dibattito alla Casa Italiana della NYU è emerso il desiderio dei

    giovani italiani di non essere politicizzati. Tuttavia esistono anche movimenti come i no-global. Secondo lei possono essere considerati gli eredi (o ciò che resta) del movimento degli anni ’60-’70? E quali sono le differenze e i punti di contatto (se mai ci sono) tra i due movimenti?

     Non credo ci siano eredità o punti di contatto tra quei giovani di allora e i giovani di oggi. Ciò che gli anni ‘70 hanno lasciato, è divenuto parte del processo storico, le conquiste e le sconfitte sono state elaborate, metabolizzate e agiscono dentro ognuno di noi (si pensi solo alla grande apertura verso i diritti, conquistati e ormai assimilati dalla società).

    Nei giovani oggi c’è maggiore informazione della globalità dei problemi, cosa che non esisteva negli anni ‘70 dove la lettura dello scenario internazionale era spesso venata di ideologia più che di informazione. Oggi manca però un orizzonte di passioni, un’utopia da condividere. Non basta, credo, essere contro la globalizzazione. Servono poi orizzonti di speranza, di cambiamento, cose concrete per cui valga la pena lottare . Ma sono fiducioso, visto dove sta precipitando questo mondo occidentale, credo che l’emergenza ambientale potrebbe divenire un grande cavallo di battaglia per milioni di giovani.

  • Corpo di Stato. Il rapimento di Moro, per Marco Baliani e gli italiani

    Dove eravate la mattina del 16 marzo 1978? E’ una domanda cruciale per gli italiani. Un giorno importante, drammatico, come  l’11 settembre per gli Americani

    Ancora di più per Marco Baliani, autore-attore del monologo teatrale “Corpo di Stato”. 
    Quel giorno, ventottenne e padre da solo un anno, era al mercato del quartiere Testaccio a Roma. Per l’esattezza stava scendendo dalla macchina, quando sentì la notizia alla radio. Restò attonito senza neanche chiudere la portiera. Un evento prendeva il sopravvento sulla sua vita di tutti giorni.

    Il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, quella stessa mattina, era uscito dalla sua abitazione per recarsi in Parlamento, dove avrebbe dovuto aver luogo la votazione di fiducia al Governo Andreotti. Frutto di un lavoro politico paziente ed abile, questa avrebbe dovuto portare proprio quel 16 marzo, alla nascita di un Governo Andreotti monocolore democristiano, appoggiato da buona parte del parlamento, e soprattutto dai comunisti.

    Ma quel giorno di primavera del 1978 Moro venne rapito. Cinque uomini della scorta che l’accompagnavano dal suo appartamento al parlamento furono uccisi.

    Il leader democristiano venne a sua volta assassinato quasi due mesi dopo dai rapitori, dopo un lungo e controverso rapimento.

    Il suo progetto, chiamato “compromesso storico”, fallì scaturendo proponde conseguenze sul successivo corso della storia politica italiana, fatti di cui viviamo ancora le conseguenze.

    Ma torniamo a quel giorno di marzo. Al giorno del nostro autore-attore. A quella notizia trasmessa dalla radio della sua macchina. Intorno al Baliani di venti anni fa i commenti della gente…”Andreotti dovevano prendere…..Ma perché?” E anche lui si chiede “perché Moro?”

    Anche noi siamo tornati indietro di venti anni, insieme a Marco Baliani ed il pubblico della Casa italiana Zerilli-Marimò della NYU. Qui il suo lavoro “Corpo di Stato” è stato rappresentato nell’ambito di un tour legato alla ricerca sul teatro di denuncia.

    Così l’artista ha raccontato in prima persona quegli anni. Lui che li ha vissuti partecipando anche alle contestazioni dei gruppi extraparlamentari.

    Ed il suo spettacolo comincia proprio con quel “Dove eravate la mattina del 16 marzo 1978?” . In pieno stile del teatro di narrazione, sul palco solo lui e una sedia sulla quale a tratti si siede. Sullo sfondo, la proiezione dei sottotitoli in inglese.

    Il pubblico, numeroso, rimane immerso nei suoi racconti-resoconti e negli spezzoni video dell’epoca che si alternavano alla narrazione, rafforzandone la testimonianza.

    Marco ricorda un altro avvenimento accaduto nella stessa giornata del rapimento di Aldo Moro: Giuseppe Impastato, conduttore radiofonico anti-fascista , venne ammazzato barbaramente per aver detto "no" alla mafia. Nel suo ricordo un invito a riflettere. Il suo assassinio passò in secondo piano, coperto dallo scalpore suscitato prima dal rapimento, e poi dall’assassinio, del politico democristiano. Ma va ricordato che a Cinisi veniva ucciso dal Clan Badalamenti un simbolo per chi lottava senza usare quelle armi che venivano usate con Moro.

    Lo spettacolo va avanti suscitando in tutti emozioni intense. Il pubblico ride quando l’attore racconta della sua vecchia auto gialla con la portiera che si apre in curva, per poi farsi incredibilmente serio quando subito dopo quella stessa auto con lui, sua moglie e il piccolo figlio di un anno, viene fermata in un posto di blocco dei Carabinieri.

    I militari la perquisiscono palmo a palmo, il biberon del neonato rotola a terra quando svuotano la borsa della donna, il bambino piange, Marco si rende conto di essere rigido dalla paura.

    Marco ricostruisce i fatti che portarono a quell’escalation di violenza, e si dice fortunato ad essere uscito dal Movimento in tempo.

    Ma ricorda anche gli amici meno fortunati di lui, come Giorgio, ucciso nel corso di una rapina per sostenere economicamente la loro lotta.

    O Armando, condannato a tre anni di carcere perché un suo carissimo amico gli aveva chiesto di tenergli un oggetto, poi rivelatosi un’arma, in cantina per una notte.

    E si chiede anche cosa avrebbe fatto se uno dei suoi vecchi compagni gli avesse chiesto aiuto….sa che non avrebbe saputo che fare…e ricorda uno slogan di lotta Continua “ Né con le Brigate Rosse, né con lo Stato.”

    Arriva il comunicato dei terroristi che dice dove si trova il corpo di Aldo Moro: in una Renault 4, una macchina economica ma faticosa da guidare, “proletaria”… la parte più violenta ha profanato anche questo simbolo dopo aver ridotto i meno drastici al silenzio.

    Lo spettacolo termina. Il pubblico applaude. E’ visibilmente scosso. Anche dopo tanti anni. Molti si alzano in piedi per onorare l’attore ed Aldo Moro.

    Una recitazione superba. Una prosa diretta, implacabile, diretta allo scopo. Solo un autore che diventa attore. E racconta. Un monologo pieno di passione ma anche consapevolmente

    distaccato. “Corpo di Stato-Il delitto Moro” rende visibili i dubbi di chi, impegnato politicamente, riflette ricordando quei quasi due mesi che hanno diviso il mondo politico ed una generazione in Italia.

    "Eravamo tutti dentro, in quei giorni non c'erano innocenti" dice Baliani. “Corpo di stato”, lo vediamo come uno dei rari tentativi di fare i conti col passato. Anche perché si tratta della testimonianza diretta di chi partecipato alle assemblee, alle manifestazioni ed anche quella violenza che vedeva le armi come strumenti di lotta.

    Subito dopo il presente e la consapevolezza che il rapimento di Moro abbia avviato quel processo che ha portato all’estraneità dalla politica di oggi.

    Si apre il dibattito alla fine dello spettacolo. Il direttore della Casa Italiana, Stefano Albertini, coordina. Gli spettatori pongono diverse domande. Con Baliani si parla anche dell’Italia di oggi. L’autore risponde spiegando che quando un Paese non affronta la propria storia, dilaga la “peste sociale”. Citando Edipo, dice che solo trovando ed eliminando le cause del malessere si può riempire un vuoto che si è creato, in seguito alla crisi dei valori.

    Importante ricordare anche le domande su come è nato questo tipo di teatro di cui Baliani può essere considerato un padre. Grande interesse del pubblico infatti anche intorno a questo genere di teatro. L’attore racconta che tutto viene dalla constatazione che nella società contemporanea ha sempre più importanza il vedere rispetto al sentire.

    Lo scopo è portare “l’occhio alle orecchie”, costringere lo spettatore a ricostruire le immagini solo suggerite dall’attore, favorendo così anche la riflessione. 

    Perché il teatro, secondo Baliani, deve turbare il pubblico, indurlo a riflettere, provocando anche reazioni forti e critiche. Ed il suo teatro, non abbiamo dubbi, riesce a farlo. E va anche molto più in là. Con “Corpo di Stato” ci ha fatto tornare su molte domande rimaste ancora senza risposta.