Articles by: Emanuela Chiumeo

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    Golpe o rivoluzione: questo il dilemma


    Per descrivere cosa è accaduto e cosa presumibilmente accadrà nelle prossime ore in Egitto, significa anzitutto parlare dei suoi confini geografici, al fine di comprendere quanto la questione egiziana non sia solo unicamente egiziana, come tanti vorrebbero.


    Con 90 milioni di abitanti (erano poco più di 60 milioni negli anni ‘70) l’Egitto ha confini sensibili. Ad est confina con Israele, la nazione più armata del medio oriente, pronta a difendere i suoi confini contro tutti e contro tutto. A nord l’Egitto finisce nelle acque del Mar Mediterraneo: in poche ore di navigazione si approda su altre sponde, più felici, non si sa fino a quando, di un mare sempre più affollato. A sud c’è il Sudan, con problematiche geopolitiche che sarebbe eufemistico definire di una certa importanza strategica (vedi il Sud Sudan, enclave cristiano-animista, separatasi recentemente dal Sudan islamico). Ad ovest c’è la Libia, che prova a mantenere la propria un’unità politica, garantita fino a due anni fa da Gheddafi, il capo di tutte le tribù. Il dittatore libico, assieme a Mubarak e al tunisino Ben Ali, rappresentavano il braccio forte dell’area, governanti che dialogavano con il resto del mondo, a nome proprio e di quelli che lo sostenevano, piuttosto che delle popoli che rappresentavano.


    L’Egitto è un Paese antico che vive nei suoi confini, cosa che molti forse dimenticano, da 5.000 anni. Esiste negli egiziani un forte orgoglio nazionale che li spinge nel momento del bisogno ad unirsi sotto un’unica bandiera, dimenticando fazioni e divisioni, anche religiose. Lo hanno dimostrato nella Guerra dei Sei giorni contro Israele, e nelle grandi rivoluzioni avvenute dall’inizio del secolo scorso.


    A dimostrazione che il popolo egiziano non ha nulla da imparare in termini di ribellioni, le rivoluzioni le ha rifatte in tempi recenti, superando in attivismo rivoluzionario persino i fratelli tunisini, che pure avevano dato il via alle Rivoluzioni arabe del 2011. Oggi l’Egitto continua il suo lungo processo di cambiamento, arrivando a rovesciare il suo ultimo presidente Mohamed Morsi, esponente del Partito “Libertà e Giustizia” della Fratellanza Musulmana, ed eletto democraticamente solo un anno fa.


    In occasione della sua elezione, proprio per lo spirito nazionale che contraddistingue l’egiziano medio e in virtù della promessa di Morsi di essere il Presidente di tutti gli egiziani, anche quelli che non l’avevano votato, lo avevano accettato. L’importante era far ritornare ordine nel paese e fargli riprendere la crescita economica che aveva raggiunto il suo picco (7 per cento all’anno) fino all’inizio della rivoluzione, con una maggiore giustizia sociale ed equa distribuzione delle risorse. Il livello delle riserve in valuta pregiata ha raggiunto la soglia di allarme (da 36 miliardi di dollari del febbraio 2011 agli attuali circa USD 15 miliardi, peraltro al lordo dei prestiti qatarioti e libici). La diminuzione delle riserve valutarie non ha certo subito miglioramenti durante l’ ultimo anno di governo dei Fratelli Musulmani.


    Ma le prime delusioni e contestazioni contro la politica di Morsi sono iniziate a breve distanza dalla sua elezione. L’occasione: la creazione di un’Assemblea Costituente che risultava fortemente sbilanciata a favore dei Fratelli. Il popolo egiziano è tornato in piazza. Per la prima volta, anche la medio-alta borghesia, che mai prima di allora aveva attraversato il ponte di Tahrir a piedi, con tanto di bandiera, si è recata in piazza... È iniziato un braccio di ferro contro il Presidente Morsi e la sua amministrazione fallimentare. I dati lo dimostrano: un fallimento continuato, tra alti e bassi, per un’intero anno. Si è così giunti alla richiesta della sua destituzione il 30 giugno scorso. Più di 20 milioni di dimostranti, con il semplice ma forte messaggio del cartellino rosso dell’espulsione calcistica, hanno sfilato nelle principale città di tutto il Paese. Manifestazioni che con il passare dei giorni hanno finito per coinvolgere l’intero Egitto, anche aree notoriamente pro-Morsi. E poiché i numeri contano, qualche cifra va data.


    Tutto inizia ad opera dei Tamarrod (Ribelli), con una raccolta di firme contro Il Presidente e la sua politica. Lo scopo era di raggiungere e superare i 13 milioni di voti, serviti a determinare l’elezione di Morsi. Si erano dati una scadenza: il 30 giugno, data di insediamento del Presidente. A quella data, le firme sono state raccolte ed è stato anche superato il limite raggiungendo 22 milioni di adesioni. Era il momento di scendere in piazza! Con un atto di grande civiltà da parte di tutti gli egiziani, anche di quelli che non erano d’accordo con la destituzione del presidente, si sono tenute manifestazioni pacifiche delle opposte fazioni. Più festosa la piazza di Tahrir, dove i Tamarrod e gran parte della società civile di ogni ceto sociale sono confluiti. Erano lì anche i diseredati, una parte di quel 40% della società egiziana che vive al di sotto della soglia di povertà e che protestava per non aver visto alcun miglioramento dall’arrivo al potere dei Fratelli usulmani, notoriamente più vicini al popolo.
     

    Ma qualcosa accade. Il terzo contendente, l’esercito, da sempre ago della bilancia, che fino alla caduta del regime di Mubarak aveva il pieno potere del Paese e che dopo l’avvento di Morsi sembrava essersi dileguato, ritorna protagonista. Milioni di persone che scendono in piazza per destituire un Presidente, non possono non essere ascoltate. Nelle nostre democrazie, con quei numeri, un politico avrebbe rassegnato le dimissioni, lasciando il campo ad altri della propria fazione, forse più capaci di lui, oppure si sarebbe potuto democraticamente tornare alle urne. Ma anche il timore di scontri, un Paese ormai paralizzato… La mancanza di dimissioni chieste a gran voce da milioni di persone.. Le parole dello stesso Obama: “il potere che nasce democraticamente può anche creare malcontento. Ma il popolo va ascoltato”.


    Il discorso di Morsi che non convince gli oppositori, affiancato a dichiarazioni di forte stampo islamico e con velate minacce di non lasciare il potere se non con il sacrificio della sua vita.... Un quadro complesso che spinge l’esercito, “Padre della Patria”, a dare un ultimatum: “i contendenti in 48 ore dovranno trovare una soluzione”. La Costituzione riconosce alle Forze Armate (così detta l'articolo 162: “lea Forze Armate egiziane hanno il dovere di intervenire quando la popolazione è in pericolo”). Allo scadere, nessuna risposta da parte di Morsi, solo un accenno al dialogo nel suo debole discorso. I Tamarrod con il loro seguito iniziano un sit-in in piazza Tahrir, che ha ricordato quello contro Mubarak, terminato solo con la sua destituzione.


    Dopo un ulteriore e vano tentativo di convincere Morsi alle dimissioni, anche per evitare il peggio i militari hanno deciso la sua destituzione, con l'avallo della stragrande maggioranza delle parti politiche, civili e religiose,  tra cui lo sceicco di Al- Azhar, la massima autorità mondiale di riferimento dei musulmani sunniti. I militari non hanno avocato a sé il potere, ma hanno indicato Adly Mansour, Presidente della Corte Costituzionale egiziana, il quale ha giurato come Presidente ad interim. La Borsa egiziana, il giorno dopo, ha aperto con un rialzo del 7.3%.  Segno di fiducia nel nuovo corso.
    Arriviamo al fatidico venerdi della collera...


    I Fratelli, incitati dalla loro Guida Suprema, Mohamed Badie, che sembrava essere stato arrestato e che invece riappare sul palco, non ci stanno. Inizia quello che tanti temevano: la reazione della Fratellanza per rimettere Morsi in sella, alla presidenza. Assieme alla sua amministrazione... Piazza Tahrir festosa appare oggi triste e preccupata... Ma nessuno vuole cedere. Da quel fatidico 30 giugno 2013 sono trascorsi alcuni giorni, ma sembra già una vita. È accaduto di tutto, ma nulla è stato risolto. Il rischio di guerra civile è altissimo. I 30 milioni di egiziani ribelli dicono voler ritornare in piazza e che mai e poi mai accetteranno un ritorno di Morsi. Ma altrettanto dicono i Fratelli. Cosa farà l’esercito, da anni sul libro paga degli Stati Uniti? Da poco i generali hanno incassato l’assegno annuale di 1 miliardo e 500 milioni di dollari in virtù degli accordi di Camp David del 1979.


    È in corso in queste ore una lunga trattativa tra i contendenti, che ha visto entrare nella contesa da protagonista, ma poi uscire senza nulla di fatto, Mohamed El Baradei, un nome al di sopra delle parti ma che i Fratelli non vogliono. Troppo vicino agli americani…. Un giorno sembra che diventi vice-presidente, poi Primo Ministro. Tutto sospeso. Con lui si smonterebbero le mille questioni e dispute di stampo occidentale. È stato o non è stato un colpo di stato militare? Sono tanti a chiederselo. Si può definire un putsch popolare? Sembra che oggi sia di moda, e non solo in quest’area, arrivare al potere e non volerlo cederlo. Ma non era una pratica medievale? In Egitto le elezioni si sono svolte democraticamente solo un anno fa. Allora è lecito porsi una domanda. C’è forse qualche problema nel meccanismo democratico di “one man, one vote”?
     

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    Emanuela Chiumeo è il Fondatore e Direttore Esecutivo di Incontro Mediterraneo