Libertà e lavoro vanno declinati insieme

Gennaro Matino (May 05, 2016)
Non c'è alibi che tenga di fronte alla violazione dei diritti inalienabili dell'uomo, come d'altronde recita la nostra Costituzione, e il diritto più sacro è il lavoro. Nessuna forma di società, capitalista o collettivista che sia, può prescindere da principi etici universali. Il lavoro è vita




LIBERTÀ e lavoro, due parole che si declinano insieme. Ancor di più a Napoli e nel Sud, dove la mancanza dell'uno condiziona tragicamente l'altra e dove il malaffare e la camorra trovano lo spazio fertile per organizzare il proprio bottino. Nauseante l'uso dei sostantivi per celebrare il lavoro quando il lavoro manca, politicanti che rivendicano la festa per chi il lavoro ce l'ha, lasciando generazioni di giovani ad aspettare invano che il vento cambi. Intanto passa la storia, la loro, e anche la nostra che senza quella vitale esperienza, quella straordinaria forza, senza il giovanile entusiasmo di trasformare il mondo, di nuove idee per aggredire il futuro, diventa vecchia e tragica, ripiegata sul passato, senza inventare futuro.




Il presidente Mattarella ha chiesto a tutti in settimana di essere in stato permanente di resistenza, ma le armi per resistere all'inganno di una Repubblica che si definisce fondata sul lavoro è non negare quel diritto ai propri cittadini. La cultura di un popolo dipende da quello che i cittadini pensano di sé e degli altri, della propria e dell'altrui dignità, dei diritti inviolabili della persona e dei doveri di solidarietà che servono a garantire i diritti di tutti. Cosa penserà dello Stato, della Repubblica il cittadino che si sente escluso, che è vinto dalla mancanza di speranza? Cosa penserà il padre di famiglia che ha perso il lavoro e rischia di perdere anche la propria famiglia? Crederà che il suo diritto al voto lo renda cittadino? Penserà che valga la pena fidarsi delle istituzioni? E mentre la politica delle parole di fumo furoreggia in polemiche incomprensibili tra Stato e Regioni, tra Regioni e Comuni, tra presidente del consiglio e sindaco, tra partiti e magistrati, il lavoro che non c'è, e che nel frattempo non si vede all'orizzonte, giudica l'operato di tutti, buoni e cattivi, e compromette inesorabilmente il destino di tutti. 




Non c'è alibi che tenga di fronte alla violazione dei diritti inalienabili dell'uomo, come d'altronde recita la nostra Costituzione, e il diritto più sacro è il lavoro. Nessuna forma di società, capitalista o collettivista che sia, può prescindere da principi etici universali. Il lavoro è vita. Una crisi economica in uno Stato di diritto non può permettere che alcuni vengano risparmiati e che altri, troppi soccombano. L'emarginazione, la disoccupazione, la povertà nella nostra regione è tale da prefigurare il rischio che i ricchi diventino sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri o alle dipendenze della camorra, l'unica a quanto pare sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Ancora sento parlare di sviluppo e solidarietà come ricetta su cui investire per il futuro del lavoro, anche se probabilmente, per troppo tempo, da un lato abbiamo avallato un modello di sviluppo inadeguato, dall'altro abbiamo cercato di vincere la povertà con appelli alla generosità, chiusi nell'ambito di un discorso moralistico. In altri termini abbiamo frainteso o volutamente tradito le premesse dello sviluppo e della solidarietà. Forse l'errore di fondo sta nell'aver concepito lo sviluppo e la solidarietà del nostro paese come due categorie distinte: la prima legata a una sorta di naturale evoluzione dell'uomo, che nella progressiva conquista di nuove tecniche e di nuovi spazi raggiunge livelli di produzione tali da consentire un crescente benessere economico; un processo che letto in tal senso appare completamente indipendente dalla solidarietà. La seconda categoria in questione, che relegata nell'ambito della morale, si esprime nel migliore dei casi in forme più o meno valide di assistenzialismo, che certo non incidono nella trasformazione economica e socio-culturale di una società. 




Spesso il benessere del singolo individuo, o di un intero paese, fa dimenticare che il fine dello sviluppo è il bene comune, dinamicamente concepito, come risultante di una solidarietà che fa appello alla giustizia distributiva e sociale. Se sviluppo significa potenziare, far crescere, allora sviluppo sociale significa potenziamento e crescita dell'intera società umana e non di singole parti a discapito di altre. In quest'ottica non può esservi sviluppo senza solidarietà, laddove per solidarietà si intende, non il ricco che dona al povero, ma il vincolo di interdipendenza che unisce tra loro determinati esseri, in particolare l'insieme di legami che uniscono l'uomo singolo alla società e la società all'uomo. Una concreta azione contro il lavoro che manca può nascere dunque solo nell'ambito di una nuova cultura dello sviluppo, che abbia come metro di valutazione non il modello economicistico, ma gli uomini che in reciproco rapporto di solidarietà si adoperano per promuovere la dignità umana. Distribuire il lavoro, perché tutti lavorino.

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