Giuliano Dalmati e oggi

Marco Coslovich (September 29, 2015)
La testimonianza di uno storico della deportazione sulla questione dell'esodo istriano


Avevo un anno, un mese e 25 giorni, quando fui accolto come profugo istriano al campo di Padriciano a Trieste. Era il lontano cinque maggio del 1955. Con me c'erano mio padre, mia madre e le mie due sorelle.


Oggi il passato si rinnova e centinaia di rifugiati, profughi, fuggiaschi, si riaffacciano alle porte della mia città, la più orientale delle città italiane, la più vicina alle rotte balcaniche della grande fuga dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza.  Oggi faccio l'insegnante d'italiano e cerco di dare una mano ai nuovi profughi. Insegno loro qualche parola della mia lingua e ascolto le loro storie.


Le loro storie sono molto simili a quella della mia famiglia, in tutto e per tutto. I miei alunni afghani, senegalesi, pakistani, nigeriano, indiani, hanno famiglie di 8, 9 membri: sorelle, fratelli, genitori, dei quali spesso non hanno più notizie.  Con un gruppo di giovani cineasti - non so come definirli senza ricorrere ad espressioni troppo alla à la page - andiamo a vedere come vivono al Silos, un edificio attiguo alla stazione centrale di Trieste.


Un luogo fuori dal tempo eppure ad un passo dal centro cittadino, anzi, al salotto buono di questa città così mitteleuropea e così bella, curata, ordinata. Il Silos é stato teatro di diverse pagine di storia cittadina. Luogo dal quale sono partiti i deportati di Buchenwald, Mauthausen, Dachau, Auschwitz...


Luogo dei rifugiati istriani e dalmati come me nel dopo guerra. Il Silos é ricordato nel libro di Marisa Madieri "Verde mare", fuggiasca da Fiume, la città dell'impresa fiumana di D'Annunzio. Marisa Madieri, purtroppo scomparsa, fu moglie di Claudio Magris uno dei scrittori triestini più noti a livello internazionale. Oggi questo non luogo é il rifugio precario di centinaia di nuovi profughi.


Un tugurio, fatto di case di cartone, materassi e stuoini gettati per terra per pregare, cumuli di immondizie, ma anche luogo dove si gioca a cricket e a basket. I vicini gabinetti della stazione servono per la toilette. Un'indecenza sanitaria e sociale, un pugno allo stomaco alla Trieste dabbene. 



Inutilmente le autorità locali stanno cercando di trasferire questi "senza patria" in luoghi sicuri, attrezzati, controllati. A parte le diffidenze dei miei concittadini a vederseli girare nei vari rioni della città, loro, i "senza patria" sono diffidenti. E chi amerebbe vivere in grandi contenitori impersonali, con letti disposti gli uni accanto agli altri in vasti spazi vuoti, con orari di entrata e uscita da caserma? 



Ironia della sorte una parte cospicua di essi sono stati alloggiati vicino alla Risiera di San Saba, altro luogo da incubo. Qui, come é noto, i nazisti realizzarono un feroce campo di eliminazione soprattutto per i partigiani e i resistenti, mentre fu centro di raccolta per centinaia e centinaia di ebrei spediti ad Auschwitz. Beffa vuole che nel lungo, interminabile dopo guerra triestino, la Risiera fosse stata anche adibita a campo profughi riparati in Italia. Ma loro, gli afgani, i senegalesi, i pakistani, non ne sanno nulla. Loro non voglio essere istituzionalizzati, non comprendono perché non possono lavorare, ma rimanere passivamente in attesa (sei mesi è più) del permesso di soggiorno, non vogliono essere "vigilati speciali". 



Intanto insegno a loro ad essere puntuali, a declinare le loro generalità, a scrivere. Per la prima volta in vita mia ho incontrato ventenni assolutamente analfabeti. Quando rientro a scuola tra i miei studenti italiani, faccio fatica a pensare di insegnare Dante, Petrarca e Boccaccio.


A cento passi dalla scuola dove lavoro come professore di italiano e storia, c'é la sede del "Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata" che custodisce la memoria della cultura italiana della sponda orientale del nostro Adriatico. Qui si ricorda il "mio" esodo, anche quello di Padriciano. Eppure questa struttura, un palazzo vasto e luminoso, lo trovo freddo, lontanissimo, chiuso, asserragliato dentro la sua memoria, le sue sofferenze: una istituzione lontana. 


Con i miei amici cineasti - ci siamo battezzati gruppo zero, senza finanziamenti, senza sostegni, senza pregiudizi - cercheremo di dar voce alla città di cartone del Silos e ai nuovi rifugiati. Sia chiaro: noi i finanziamenti non li vogliamo. Siamo una ditta destinata al fallimento per vocazione, ma il vantaggio è  la libertà. I tempi, i modi, i cavilli, non sono compatibili con la velocità della palla di basket dei nostri giocatori improvvisati. Ombre che giocano e ridono e pregano verso la Mecca ad un passo dai caffè di Svevo, Joyce e Saba. 

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