Votare o non votare

Gennaro Matino (April 13, 2015)
La responsabilità della fine della democrazia non è da imputare alla anemia partecipativa del cittadino, ma all’aumento generalizzato delle diseguaglianze sociali in quanto il ceto ricco ha polarizzato la nuova ricchezza distruggendo la sicurezza di quella classe media che era il polmone della politica democratica: perché debbo partecipare, si chiede il cittadino sofferente, se i benefici saranno destinati ai soliti noti, ai privilegiati del sistema? Perché votare se a fronte di una crisi economica procurata dai potenti, a pagarne le spese sono i più deboli?



LE ELEZIONI regionali sono ormai alle porte. Le finte parole di fuoco tra diversi schieramenti, come di rito, avanzano, pronte a tacitarsi non appena le elezioni saranno concluse e le poltrone spartite. Gioco di una parte minuscola della società, routine di nuovo potere, di una politica sempre più lontana dalla gente. Una lontananza ormai cronica e che certo non può risolversi con giochetti verbali, frasi a effetto che non riescono a nascondere la crisi di un sistema democratico.


Tra le parole che più circolano tra i politici ce ne sono alcune che, volendo richiamare il dovere dei cittadini al voto responsabile, sembrano quasi che, come si dice dalle nostre parti, mettano la carne sopra e i maccheroni sotto, addossando la responsabilità del cattivo governo, o peggio della morte della democrazia, a coloro che deliberatamente scelgono di non votare.

La frase in oggetto è quella dell’americano George Nathan che all’inizio del secolo scorso scriveva: «I cattivi rappresentanti sono eletti dai bravi cittadini che non votano».


Nel secolo scorso forse questa affermazione aveva il suo valore, non lo può avere oggi se non solo come principio astratto, perché, nei fatti, il cittadino è sempre più costretto alla marginalizzazione di scelte che già sono state predeterminate nei nomi dei candidati, nelle alleanze elettorali improponibili nei mesi precedenti alle elezioni, lecite poche ore prima del voto, nei programmi impostati a copia e incolla tra diversi schieramenti, tanto simili da non comprendere quale differenza ci sarebbe tra l’uno e l’altro dei candidati. Forse da eleggere per simpatia, e per questo vale una campagna pubblicitaria milionaria di immagine. Scelte decise sulla pelle e il futuro della regione, oltre il pensiero dell’elettore che a nessuno interessa, perché del cittadino interessa solo il suo voto.


Se è così l’unica scelta davvero libera che gli resta è decidere di votare o non votare, dando alla sua scelta la valenza civile di non assuefazione al sistema ormai decisamente plutocratico, un sistema in cui il predominio nella vita pubblica di pochi individui o gruppi finanziari è in grado d’influenzare in maniera determinante la cosiddetta politica democratica.


La responsabilità della fine della democrazia non è da imputare alla anemia partecipativa del cittadino, ma all’aumento generalizzato delle diseguaglianze sociali in quanto il ceto ricco ha polarizzato la nuova ricchezza distruggendo la sicurezza di quella classe media che era il polmone della politica democratica: perché debbo partecipare, si chiede il cittadino sofferente, se i benefici saranno destinati ai soliti noti, ai privilegiati del sistema? Perché votare se a fronte di una crisi economica procurata dai potenti, a pagarne le spese sono i più deboli?


E l’assurdo è che in un sistema in cui si allarga la base degli ultimi non esiste più un’idea di partito capace di coagularne le aspirazioni e le attese rivoluzionarie, dando alla parola rivoluzione la sua accezione nobile ed etimologica di cambiamento del sistema malato.


I partiti di massa radicati nel territorio sono stati sostituiti da versioni mediatiche più leggere e attente al potere della classe dirigente industriale, finanziaria, perdendo il potere di un tempo, ma soprattutto perdendo quella radicale presenza nel territorio che permetteva loro di comprendere i reali problemi della gente. Questo ha portato i nuovi politici a non rappresentare più una base larga che ipocritamente invocano solo quando debbono essere eletti, ma quella élite industriale e finanziaria che li ha plasmati, in grado nettamente di esercitare su di essi un’influenza superiore.


I programmi politici sono da campagna elettorale, tentano di dare risposte a corto respiro, spesso condizionate dai sondaggi, da continui colpi di scena, dal sensazionalismo osceno di dossier costruiti ad arte per danneggiare l’avversario. Il non voto nasce così come estremo segnale sovversivo per gridare la non complicità a un finto sistema democratico trasformato in un involucro vuoto, addirittura a rischio di sparire.


La politica è la forma più alta della carità, l’amore che diventa carne di futuro per rendere la città degli uomini sempre più capace di essere vissuta, condivisa.

La politica dovrebbe essere un mestiere nobile, un ideale di servizio.

Tradire la politica è tradire l’amore, e per chi crede è tradire Dio.


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