Intervista a Rossetto. Un factotum per l'audiovisivo italiano

Maria Vittoria Solomita (June 01, 2010)
Abbiamo incontrato ai margini del NYDF, Alessandro Rossetto, l'autore che ricopre l'intera sezione “Italian chronicles" nell'appuntamento newyorkese.

Continua il New York Documentary Film Festival, rassegna che da tre anni porta in America il meglio del documentario sociale raccolto dagli studiosi del Festival dei Popoli.

I-italy ha incontrato tra i registi presenti anche Alessandro Rossetto. A questo factotum padovano, autore-produttore-cameraman-direttore della fotografia, il NYDFF ha dedicato l’intera sezione “Italian chronicles”, con quattro titoli in cartellone.

Gli chiediamo subito di “Feltrinelli”, la storia dell’editore Giangiacomo, che è l’emblema di una passione trasformata in realtà, l’amore per i libri. È così anche per Rossetto?

Beh, direi proprio di sì.
 

Fortuna o potrebbe esserci qualche speranza per altri documentaristi?

Speranza non ce n’è. A me è andata piuttosto bene perché faccio parte della generazione in cui il cinema documentario ha potuto fruire dell’internazionalizzazione della produzione, raggiungendo uno standard europeo intorno alla metà degli anni Novanta. Però, in ambito italiano, la situazione non si è evoluta, tanto che i miei film hanno avuto fortuna e spazio in un quadro sovranazionale, non certo italiano.
 

Ottime prospettive. Per chi fosse, invece, costretto, per motivi contingenti o solo per caparbietà, a restare in Italia, quanto sarebbe difficile trovare una produzione?

C’è uno scarsissimo interesse per il racconto della realtà di tipo autoriale. Si preferisce il quadro giornalistico, in particolare il reportage.
 

Prendiamo il caso di Feltrinelli. Per quanto Giangiacomo sia una figura di spicco nella storia culturale italiana, si sono mostrati più attenti e generosi tedeschi e svizzeri.

In quei Paesi, Feltrinelli era già noto, però il problema di rilievo è la difficoltà di affidare un documentario ad un autore di largo spettro, come me. Non ci sono né spazi produttivi, né linee di finanziamento positive.

E il pubblico, invece, ci sarebbe? O manca anche quello?

Il pubblico è cambiato, anche se dalla seconda metà degli anni Novanta ha cominciato a vedere più documentari. Credo, però, che solo con l’interesse della TV pubblica e, magari, con l’inserimento del genere nel quadro scolastico si possano ottenere risultati incoraggianti. Dal piano qualitativo e di pubblico poi si passerebbe a quello commerciale, ovviamente.
 

Quindi una sorta di meccanismo virtuoso?

Sì, anche se in Italia, purtroppo, ci sono dei preconcetti su quello che il pubblico potrebbe accettare o meno. Di fatto, spesso al pubblico non arriva neanche il cinema documentario.
 

Nulla di nuovo, purtroppo. Ci siamo abituati alla sfiducia degli intellettuali nei confronti della TV di Stato. È quasi un cliché. E a proposito di luoghi comuni, il documentario “Closing” è dedicato alla mamma. In questo, quanto si sentirà stereotipo dell’italiano mammone, Alessandro Rossetto?

Beh, come qualcuno ha detto, grazie al film ho risparmiato milioni in psicanalisi! Scherzi a parte, il racconto documentario dei propri familiari è un classico, così come il seguire l’apertura o la chiusura di un’attività lavorativa. Filmando la chiusura del salone da parrucchiera di mia madre ho unito due elementi classici del cinema documentario europeo.
 

Coi tuoi documentari, però, descrivi non solo la famiglia, ma tutto l’ambiente circostante. Mi riferisco a “Closing”, ma anche al lavoro sulla pirotecnia, “Fires of Naples”.

Sì, “Closing” è il quadro del Nord-Est italiano, ma allo stesso tempo ha un appeal universale, tanto da vere una discreta fortuna internazionale. “Fires of Naples” si concentra, più che sulle tecniche dei fuochisti, sulle dinamiche umane interne ai gruppi di lavoro e alle famiglie di fuochisti. Posso dire con cognizione di causa, quindi, che quando una storia viene narrata cinematograficamente interessa.

Non solo interessa, piace.

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