Intervista alla regista Enrica Colusso. Abituare anche il pubblico italiano ai doc

Maria Vittoria Solomita (June 01, 2010)
Sono parole sospese tra le speranze nel genere documentaristico e la sfiducia nel sistema audiovisivo italiano quelle della giovane regista che incontriamo a margine del New York Documentary Film Festival dei Popoli.

Il New York Documentary Film Festival dei Popoli è  andato benissimo, riscuotendo notevole successo. «Ormai il pubblico ci conosce» spiega Francesco Fadda, Vicepresidente NYDFF, «dopo tre edizioni possiamo essere sempre più stringati e rapidi nelle presentazioni».

In effetti, ai neofiti si  è aggiunto un foltissimo gruppo di habitué, amanti del documentario o del nostro Bel Paese, attenti ad iniziative simili di scena a New York.

"Un festival sui generis, perché, in fondo, è una rassegna" ha tenuto a sottolineare Elena Colusso, nella terna dei registi italiani in cartellone.

"Ai Festival si manda un film che può essere selezionato o meno. Questa dimensione competitiva qui manca. Sono a NY con Gianfranco [Rosi, ndr] e Alessandro [Rossetto, ndr]: è più un momento di riflessione tra autori italiani che testimoniano il loro impegno e spesso vivono o lavorano all’estero".

  Parte così un’intervista che ha tutto il sapore dell’italianità e gli odori dell’Anthology Film Archives. Passiamo subito ai suoi film in cartellone, a quel delicato “Fine pena mai”, qui a New York divenuto “Life after life”.

Le chiediamo quanto sia difficile penetrare un mondo di fatto impenetrabile quanto quello dei penitenziari.

Mi interessava esplorare cosa significasse vivere una pena perpetua. Il film indaga l’esperienza quotidiana di persone condannate ad un’esistenza eterna di chiusura, nella condizione totalizzante del carcere a vita.
 

E quanto è stato difficile entrare fisicamente in un penitenziario italiano?

Difficilissimo. Ho impiegato due anni per ottener tre settimane di riprese. Ho deciso di girare tra Natale e Capodanno per la particolarità delle ricorrenze e facilitare l’immedesimazione del pubblico, che può vedere il lato più umano dei reclusi.
 

Passiamo all’altro film presentato al NYDFF, “ABC Colombia”, incentrato su un gruppo di ragazzini che vive un’adolescenza problematica. La loro involuzione li porta ad affiliarsi ai paramilitari. Chiediamo a Colusso quanto sia possibile per un regista evitare il coinvolgimento emotivo.

Questa distanza non mi appartiene, se non narrativamente. Entro sempre in empatia con i miei personaggi, non riesco a non farmi prendere dal rapporto umano, soprattutto in questo caso. La storia, infatti, è ambientata in una comunità rurale nella Sierra Nevada de Santa Marta. Avendo sposato un colombiano, abbiamo comprato una proprietà lì, per cui mi sento a casa. Conosco i ragazzi del documentario da quando erano in fasce e li ho visti fare questa scelta a 17 anni: vederli entrare nei paramilitari per me è stato uno shock.

Fin qui l’aspetto emotivo, quasi romantico della narrazione. Va affrontato, però, anche il più concreto aspetto economico. Perché i film vanno pure pensati in soldoni...

Produrre documentari in Italia è praticamente impossibile.  'Fine pena mai' è coprodotto dalla Rai, quando ancora Tantillo poteva fare scelte coraggiose. Investendo in autori come Pannone e Freccia. Oggi la situazione di tutto l’audiovisivo, in Italia, è triste. Sento i miei colleghi rivolgersi sempre più numerosi all’estero, per produrre o addirittura per viverci.
 

Molti produttori, però, continuano a ripetere che è il pubblico a non essere pronto al documentario. Davvero in Italia il genere è e continuerà ad essere di nicchia?

Il pubblico non è abituato perché nessuno produce e distribuisce documentari. In Italia abbiamo una TV di Stato che non produce cinema di qualità, non educa l’occhio del fruitore ai buoni prodotti, sia italiani che esteri, per cui l’audiovisivo ne risente. E il pubblico con loro.
 

Chiudiamo con queste parole amare il registratore. In effetti Colusso non fa che ricordare quella generale e nota sfiducia degli intellettuali verso la TV di Stato. Chiusura mesta nei suggestivi salottini dell’Anthology Film Archives con occhio agli Stati Uniti che ci guardano.

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