Ritornando a Baghdad. Intervista con Giuliana Sgrena

Emilia Ferrara (April 26, 2010)
La giornalista de 'il Manifesto' rapita nel 2005 a Baghdad racconta nel suo ultimo libro di come il popolo iracheno stia ritrovando la sua dignità. Con l’aiuto delle donne.

Giuliana Sgrena ha vissuto un’esperienza davvero drammatica. Rapita a Baghdad il 4 febbraio del 2005, da una che forniva notizie diventò lei stessa notizia. Poi—trauma nel trauma—la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari, ucciso dal “fuoco amico” di un posto di blocco americano mentre la portava in salvo.

In seguito, come lei stessa ricorda, ebbe un totale rifiuto nei confronti dell’Iraq e del suo popolo. Poi il graduale riavvicinamento: riaffiorano i primi contatti, che via via divengono più frequenti, fino a quando un suo interprete le invia dei limoncini secchi di Bassora, che si usano per preparare un gustoso tè di cui la Sgrena usava fare ampie scorte. Questo gesto affettuoso la convince definitivamente a tornare in quei luoghi. Per scoprire la verità sull’Iraq odierno, per ritrovare parte di se stessa, e per non abbandonare chi ha visto soffrire. “Baghdad è cambiata ma anch’io sono diversa” – ci dice.

Oggi è in giro per l’Italia per presentare il suo ultimo libro Il ritorno, pubblicato da Feltrinelli. L’abbiamo incontrata a Napoli, ad un dibattito presso la Fondazione Sudd.

Nel suo libro lei nota che, nonostante lo stillicidio di attentati sanguinari, la vita sembra riprendere “i ritmi del periodo di Saddam Hussein”. Detta in questo modo, lei sembra suggerire che la guerra al terrore sia stata un'inutile strage e che "si stava meglio quando si stava peggio"...

Non tocca a me dire se si stava meglio o peggio ai tempi di Saddam. Baghdad è devastata dalla guerra, non solo nelle infrastrutture e servizi, ma anche nel tessuto sociale. A Falluja si vedono gli effetti devastanti causati dalle armi chimiche che hanno segnato per sempre la vita di molte persone. Nascono bambini con gravi malformazioni e con malattie terribili. Ci sono due milioni di profughi all’estero e due milioni di sfollati all’interno del paese; la situazione è veramente terribile.

Per togliere spazio politico alla propaganda armata del fondamentalismo islamista, la nuova strategia americana ha puntato sull'accordo con gli anziani dei villaggi sunniti. Come si misura la distanza tra l' “idealismo belligerante” dell'esportazione della democrazia e il realismo pragmatico dell'accordo con le forze locali, perfino tradizionali, del paese? Gli americani hanno imparato una lezione?

Gli americani hanno fatto l’accordo con i Sunniti e con il Consiglio del risveglio per una questione di pragmatismo, nel senso che si sono resi conto degli errori fatti e quindi hanno deciso che l’unico modo per cercare di eliminare al Qaeda era accordarsi con delle forze locali che conoscevano bene il terreno e quindi avrebbero potuto portare avanti questa battaglia. Non penso che sia un cambiamento fondamentale nella strategia degli americani, e non penso che con la guerra si possa esportare in alcun modo la democrazia. Penso piuttosto che la guerra in Iraq sia stata fatta per motivi di controllo sul petrolio e per dominare la regione, dato che l’Iraq ha una posizione geografica strategica. Il fondamentalismo non esisteva in Iraq prima della caduta di Saddam, è arrivato subito dopo la sconfitta di Saddam. Da questo punto di vista quindi è stata un’operazione in perdita da parte degli americani.

Lei nota che le donne stanno riconquistando una visibilità sociale e politica, tanto da abbandonare il velo. Puo' dirci qualcosa di più sul ruolo delle donne nel "nuovo Iraq"?

Il codice della famiglia irachena, quello che regola i rapporti interpersonali, viene considerato uno dei più progressisti nel mondo arabo-musulmano, risale agli anni ’50 ed è ancora in vigore nonostante i tentativi di sostituirlo con la legge coranica. Prima, ai tempi di Saddam, esisteva una federazione di donne che era molto forte e molto potente. Caduto Saddam, si sono formate organizzazioni femminili che per un periodo hanno dovuto agire clandestinamente, per sfuggire alle milizie armate islamiche. Adesso queste organizzazioni sono molto attive, c’è una rete che ne comprende un centinaio, si stanno battendo per una presenza più attiva all’interno delle istituzioni.
Nel parlamento iracheno c’è il 25% di “quote rosa”, ma spesso i partiti fanno eleggere donne che non mostrano poi un grande potere politico. Sarebbe auspicabile trasformare questa presenza istituzionale, formale, in una partecipazione femminile molto più attiva e che si batta davvero per i diritti delle donne.
Per quanto riguarda il velo, prima le donne non lo portavano, tranne che nelle zone popolari sciite; poi con l’arrivo dei partiti religiosi e delle milizie islamiche alle donne furono fatte varie imposizioni: indossare il velo, non guidare, non uscire, non mandare le bambine a scuola… Oggi queste imposizioni non sono più in vigore perché le milizie islamiche sono entrate a far parte dell’esercito, e quindi la situazione è un po’ cambiata. Le donne si sono liberate del velo, e se lo indossano lo fanno in maniera diversa, sono per lo più veli colorati; e vestono con jeans aderenti e camicette scollate; insomma vestono come le donne degli atri paesi.

Nell’Iraq odierno esiste una “sinistra”? che ruolo svolge in Iraq e in generale nel mondo musulmano?

In Iraq è difficile adesso distinguere. Esiste una sinistra ed esiste anche un partito comunista, ma nella situazione odierna non è più quel partito comunista che c’era una volta e che aveva una grande forza. Adesso ha una presenza molto minoritaria perché prevalgono altri schemi. I partiti iracheni si dividono tra partiti laici e partiti di ispirazione religiosa, più che tra destra e sinistra. Quindi è difficile riportare la loro politica agli schemi che abbiamo a livello europeo ed a livello internazionale. Attualmente la popolazione sta soprattutto riorganizzandosi; cercano di ricostruire un tessuto sociale per avere un ruolo anche sul piano politico, e prevalentemente per conquistare i diritti fondamentali, come il diritto alla salute. Questa è la situazione attuale dell’Iraq, come succede in molti paesi musulmani.

Pensa che, alla vigilia del "disimpegno" americano, sia possibile reinnescare un processo di secolarizzazione dell' Islam, che ostacoli l'uso politico della religione da parte dei fondamentalisti?

Questo ritorno alla laicità l’avevo già notato, si è visto anche alle ultime elezioni, dove il partito che ha vinto è non solo per la laicità ma anche per l’unità dell’Iraq. Infatti, il problema è anche di chi vuole una separazione tra gli sciiti, il centro sunnita e i curdi. Quindi ritornare ad un Iraq laico è molto importante per disinnescare le forze centrifughe che puntano alla separazione tra sciiti e sunniti. Questa prospettiva è molto auspicabile.

Che giudizio da' sulle politiche europee nell'area e in particolare sull'approccio della sinistra europea?

La sinistra europea non ha giocato nessun ruolo rispetto all’Iraq e questo penso sia molto grave perché invece potrebbe aiutare l’Iraq ad uscire dalla situazione in cui si trova e potrebbe essere un interlocutore importante soprattutto quando gli americani, almeno teoricamente, si ritireranno. L’Europa potrebbe svolgere un ruolo rilevante di mediazione e di stabilizzazione rispetto allo scontro tra Iraq e Usa.
Per ora il paese continua ad essere diviso tra zona rossa e verde, quest’ultima controllata da check-point gestiti in minima parte da iracheni, il resto sono affidati ai contractor, mercenari provenienti da tutti i paesi del mondo. La presenza degli americani non si avverte per strada, ma ci sono, controllano gli aeroporti e si vedono volare i loro aerei.

Cosa l’ha colpita di più nel suo ritorno?

La reazione della sua gente, che ha ripreso a vivere con dignità.

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